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La villeggiatura in panchina
L’estate è tempo di villeggiatura, di luoghi aperti e non fra quattro mura, se poi hai una casa piccina piccina, meglio passare la notte in panchina. In mezzo alla città c’era un quadrato, tra le vie uno spiazzo alberato e, tra le fronde degli ippocastani, stavano i passeri, invisibili, tra i rami. Ma l’invisibile per Marcovaldo (e del suo carattere questo è un punto saldo) è più evidente di un grattacielo e non gli sfugge una pulce su di un pelo. Marcovaldo, ascoltando il dolce canto, pensava al suo piccino ed al suo pianto e alle urla della moglie Domitilla: meglio certo il cinguettio di quella sveglia. Sarebbe stato di sicuro più bello svegliarsi con il canto di un uccello, aprire gli occhi ed ammirare il cielo, sarebbe stato bello per davvero. Questo pensava il povero manovale ogni mattino quando andava a lavorare ed il pensiero prese consistenza una notte che stava lì, nella sua stanza. In silenzio, nel buio profondo, quando i suoi stavano dormendo, prese sotto braccio il suo cuscino e si diresse verso quel giardino. Aveva visto una panchina solitaria, di essere assai comoda aveva l’aria, e già sognava di farne il suo letto, il cielo e le stelle come tetto.
Quella panchina era già occupata da una giovane coppia innamorata, ma Marcovaldo pensò che, di certo, non avrebbero passato la notte all’aperto. I due, però, non stavano tubando, sembrava stessero, invece, litigando, la discussione andava per le lunghe e nei dintorni non c’erano altre panche.
Pensò di fare, allora, un giretto, col suo cuscino sotto il braccio stretto, poi un altro giro a guardar la luna e la panchina si liberò, per fortuna. La lunga attesa, per la verità, gli presentò tutta un’altra realtà, meno poetica ed affascinante, ma lì rimase ciò nonostante.
Così si sistemò sulla panchina per riposare fino alla mattina e, per godersi quel paesaggio naturale, girò e rigirò il suo guanciale. Ma un semaforo, luminoso e intermittente, di addormentarsi non gli consente: proprio non riusciva a prendere sonno con quelle luci colorate intorno. Quando sembrava si fosse sistemato, un gruppo di operai affaccendato ad aggiustare del tram le rotaie gli procurava non poche noie. Luci, rumori, che gran confusione! Si stava meglio a casa nel lettone ed il russar di Domitilla era niente di fronte a quel frastuono cupo e battente. Dopo una serie di peripezie, che la città pareva fargli le angherie, Marcovaldo finalmente si assopì, ma la sua angoscia davvero non finì. Sognò di topi e gatti morti nascosti in zuppiere e grandi piatti e si svegliò per una puzza disumana: passava il camion della nettezza urbana. Questa villeggiatura in panchina, finita finalmente la mattina, non era stata come aveva immaginato e a lavorare andò già affaticato. Di certo è bello che anche in città ci sia del verde di qua e di là, ma la natura è un’altra cosa, non è in città la sua vera casa.