3 minute read
La pietanziera
Con la sua arma, la pietanziera, Marcovaldo combatte la fame nera: è un recipiente rotondo e piatto che per quell’uso ad arte è fatto. Già il movimento di svitare il coperchio produce un suono che arriva all’orecchio, preannuncia la vista della minestrina e in bocca richiama l’acquolina. Senza coperchio offre alla vista una pietanza pigiata e mista: uova o polenta, lenticchie e salame, per dare pace alla sua grande fame. Il coperchio svitato diventa il piatto dove versare quel miscuglio compatto e Marcovaldo ne aspira il profumo come se nulla ci fosse di più buono. Svolge le posate da un fagottino e, pure se il cibo è pochino pochino, fa sì che duri più a lungo ogni istante mangiando con gusto assai lentamente. Ma quel proposito dura ben poco e presto alla fame dà libero sfogo: il pasto è già freddo e mette tristezza, però sa di casa e va via l’amarezza. Seduto sulla panchina di un viale, vicino alla ditta dove va a lavorare, mangia all’aperto guardando la gente ed i pensieri gli riempion la mente. Pensa mangiando e si domanda perché la gioia sia così tanta e invece, a casa, la stessa pietanza non riesce a gustarla con tanta appetenza. Saranno le liti, i problemi, gli strilli che saltano fuori con la moglie e i figli, non riesce a capire come questo si avveri, eppure è l’avanzo della cena di ieri. Così lo riavvolge la scontentezza, mangiare gli avanzi gli mette tristezza, ma poi si riprende e cambia d’umore, senza Domitilla è più buono il sapore.
Continua a mangiare con appetito, ma quando quel cibo è bell’e finito ritorna d’un tratto un grande sconforto e rimette in tasca le stoviglie da asporto. Un giorno accadde, perché non si sa, che Domitilla comprò rape e salsiccia in quantità e per tre sere di seguito, alla cena, sulla tavola era la stessa tristissima scena.
Quella salsiccia pareva pappa di cane, il solo odore faceva passare la fame, quanto alle rape, poi c’è da dire, che Marcovaldo non le poteva soffrire. A mezzogiorno, povero smemorato, svitò il coperchio curioso e affamato, senza pensare che la pietanziera conteneva la cena della trascorsa sera.
Per il viale si mise a camminare senza decidere di mettersi a mangiare, con la forchetta in una mano, penzolante, e nell’altra quel tondo recipiente. Al piano terra di un ricco fabbricato stava un bambino al davanzale affacciato: aveva davanti, altro che salsiccia, una frittura di cervella morbida e riccia. Chiamò Marcovaldo e gli chiese curioso cosa ci fosse dentro quel “coso” e, alla risposta del manovale, gli chiese, convinto, se voleva cambiare. A lui non davano mai la salsiccia e quella roba bianca e molliccia non la voleva proprio ingoiare, così in castigo lo costringevano a stare. Marcovaldo non perse l’occasione di gustare quelle cervella calde e buone e porse al bimbo la pietanziera e la posata in cambio di quella pietanza prelibata. Il bambino gli offrì il suo piatto: un elegante e pregiato oggetto con una forchetta ornata in argento e Marcovaldo fu molto contento.
Così il bambino al davanzale e Marcovaldo in panchina sul viale iniziarono a mangiare soddisfatti le pietanze in quegli insoliti piatti. Ma una severa ed ostile figura mise fine a quella goduria: arrabbiatissima, la governante, gridò “Al ladro!” con voce assordante. Marcovaldo posò forchetta e piatto fissando la governante stupefatto e raccolse coperchio e pietanziera lanciategli in terra con brutta maniera. In fondo sarebbe bello e naturale scambiarsi le cose, anche da mangiare, come fanno i bambini e gli animi puri, venirsi incontro e abbattere i muri.