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LA FORMAZIONE E GLI ADULTI Che cos'è la formazione? La formazione è un'attività educativa. Il suo obiettivo è il sapere: la promozione e l'aggiornamento del sapere, ed anche la promozione e l'aggiornamento dei modi di impiego del sapere. Essa nasce come occasione di apprendimento per gli adulti attuata oltre l'esperienza scolastica nei contesti di lavoro. E' un'esperienza di apprendimento che serve per preparare le persone che lavorano ad un'azione sociale più efficace nei rapporti con gli altri, con i gruppi, con l'organizzazione e con il lavoro stesso. Si tratta di formarsi delle conoscenze, favorire l'applicazione delle conoscenze all'azione, essere consapevoli dei propri atteggiamenti. La formazione non è un momento di riflessione, una "pausa" salutare, un provvisorio allontanarsi dall'azione, bensì è un processo che dura nel tempo, un cammino di ricerca e di sperimentazione attiva che investe diverse dimensioni della crescita individuale.

Non si può insegnare qualcosa ad un uomo, puoi solo aiutarlo a scoprirla dentro di sé. Galileo Galilei

La formazione rappresenta un momento di cambiamento individuale di coloro che ne sono coinvolti. Ma costituisce anche un'occasione di cambiamento per l'organizzazione intera quando chi vi partecipa prende coscienza delle esperienze lavorative vissute, dei loro problemi, delle soluzioni adottate e dei risultati della loro applicazione. In tal modo, ciò che i partecipanti sperimentano durante l'esperienza formativa ha a che fare con la propria dimensione organizzativa, con se stessi nell'organizzazione.


Qual è il cammino della formazione? La formazione riguarda aree differenti della persona che lavora, e si pone obiettivi perciò diversi di volta in volta. Una prima dimensione del processo formativo riguarda l'area delle conoscenze, il sapere. L'esigenza è quella di aumentare il sapere delle persone, per realizzare un miglioramento "quantitativo" dei loro dati di conoscenza, delle nozioni, del patrimonio di concetti. Qui la formazione consiste nell'offrire informazione e nel trasmettere conoscenze. Si è alla ricerca di un allargamento delle proprie conoscenze per poter colmare lacune grazie a nuove informazioni. La persona riconosce che queste non possono essere prodotte o ricercate da sole, ma che possono essere solamente derivate da altri, da una fonte esterna. Si va così incontro a un'esperienza che chiameremo di acculturamento. Altra dimensione è quella che interessa il saper fare. Ci si pone l'obiettivo di migliorare in qualità particolari capacità, di tipo tecnico o motorio, legate alle modalità specifiche necessarie per svolgere un lavoro o per ricoprire un ruolo nell'organizzazione. Qui non si tratta di aumentare il patrimonio di conoscenze in dotazione alle persone, ma di addestrarsi a saperle mettere in atto attraverso l'esercizio dei comportamenti. E' questo il momento più delicato. Il passaggio dal sapere al saper fare non è affatto automatico: è indispensabile possedere delle solide motivazioni individuali al cambiamento. Cambiare non è facile per nessuno. Adottare nuovi comportamenti significa uscire momentaneamente dalle comodità dell'abitudine; inoltrarsi in strade nuove e spesso faticose. E' questo il momento in cui l'individuo è chiamato a compiere una decisione su se stesso: la decisione di mettersi alla prova accettando anche provvisori cali di rendimento e spesso la perdita di alcune quote di spontaneità. Dall'acculturamento si passa all'addestramento ed è questa una fase in cui non è possibile ricorrere a fonti esterne. La naturalezza e la spontaneità perduta va ora riconquistata ad un livello qualitativo più avanzato. La spontaneità, infatti, non è una dote acquisita una volta per tutte. Tutti noi siamo chiamati a riconquistarcela e a riappropriarcene ad ogni aggiustamento e/o cambiamento avvenuto nei nostri comportamenti routinari.


Spesso si pensa erroneamente alla spontaneità come se fosse più strettamente alleata all'emozione e all'azione piuttosto che al pensiero. La spontaneità non è il punto di partenza, ma un traguardo da conquistare. Questa è la dimensione del saper essere, quella fase cioè in cui i nuovi comportamenti sperimentati vengono riconosciuti utili dal soggetto e devono quindi essere assimilati. Si tratta di integrare le motivazioni personali, le proprie caratteristiche, la propria personalità con il comportamento realizzato. E' il momento formativo di massima consapevolezza di se stessi, dei propri punti di forza e delle proprie aree di miglioramento. E' la fase in cui esprimiamo un nostro "stile" personale, il nostro carisma, la nostra capacità di assumerci responsabilità e di prendere decisioni che riguardano la nostra persona.

Ogni uomo, in definitiva, decide di sé. E, in ultima analisi, l'educazione deve essere educazione a saper decidere. Viktor E. Frankl In realtà ciascuno di noi vive in modo integrale e non riesce a selezionare parti di sé - ora le proprie conoscenze, ora le proprie abilità pratiche, ora i propri atteggiamenti - per affrontare l'esperienza. Così, anche nella formazione siamo coinvolti interamente, per cui si può parlare di esperienze formative che riguardano in modo prevalente ma non esclusivo l'area del sapere, di altre esperienze altre che si interessano specialmente dal saper fare e altre ancora centrate soprattutto, ma non solo, sul saper essere.

Come si fa formazione? La formazione è un'occasione di apprendimento che può essere proposta in modi diversi ai partecipanti. Esistono quindi situazioni formative che sono differenti perché richiedono forme diverse di attivazione a chi vi prende parte. Si hanno due estremi limite: da un lato vi è la formazione in cui il partecipante non ha alcun controllo della situazione e dall'altro vi è quella in cui è egli stesso l'attore del processo educativo. Vediamo questi casi estremi.


Alcuni interventi d'aula si svolgono secondo un metodo didattico tradizionale, che prevede il passaggio di informazioni da un soggetto attivo (il docente) a un soggetto passivo (il partecipante), in un contesto statico (la lezione), arricchito o meno da mezzi tecnologici di proposta delle informazioni (audiovisivi, dispositivi di istruzione programmata). Il partecipante ingloba nuove conoscenze, che si affiancano alle cose già note. Le esperienze tradizionali di apprendimento, dalla scuola all'università, sono delle pratiche educative fatte per interessare la sfera della conoscenza dell'individuo, e vengono proposte in modo che l'insegnante sia l'attore dell'apprendimento. L'apprendimento avviene grazie a una sollecitazione prodotta dall'esterno. Il partecipante ha scarso controllo sulla situazione e dipende per i risultati dall'interlocutore che insegna. E' un contenitore da riempire, in cui vengono immagazzinate informazioni. Altri tipi di formazione sollecitano un apprendimento attivo: attraverso la proposta di casi, esercitazioni, simulazioni, il partecipante viene sollecitato a imparare sperimentando se stesso in un contesto di gruppo. Secondo questa impostazione della formazione, non tutto ciò che si apprende avviene attraverso l'insegnamento, né tutto ciò che si insegna può essere imparato. Il partecipante è l'attore dell'apprendimento. Produce e sollecita apprendimento, cerca verifiche, è orientato a scoprire e a prevedere. Non assimila semplicemente, ma rielabora ciò che è nuovo nel contesto di ciò che già conosce e produce nuove conoscenze, costruisce nuove «mappe della realtà» che non gli sono state consegnate meccanicamente dal docente. La situazione di formazione è un'occasione per stimolare l'autonomia, per ricercare il senso dello sviluppo personale e professionale. Essa aiuta a rielaborare e a scoprire il proprio sapere. La logica di attuazione della proposta formativa per gli adulti è qui definita come diversa da quella che riguarda le persone in età evolutiva.

Che cosa facilita la formazione? Perché ci sia apprendimento occorre che siano presenti la motivazione, il piacere, la libertà e l'esperienza vissuta. E' difficile imparare qualcosa se non siamo motivati. Bisogna aver voglia di apprendere, vincendo la forza della resistenza al cambiamento. La spinta ad apprendere è fornita dalla curiosità, dalla tendenza a raggiungere un obiettivo già definito, dal desiderio di imitare qualcuno, dal bisogno di superare una situazione di difficoltà.


Le condizioni per iniziare un processo di apprendimento: Per apprendere occorre saper provare piacere. Il "piacere attivo" del fare, dell'applicarsi con sforzo e con fatica e il "piacere tranquillo" di lasciar fare, di ascoltare, di ricevere. Per apprendere occorre essere nella condizione di seguire il proprio ritmo personale di assimilazione e di elaborazione, al di fuori di costrizioni esterne. Per apprendere occorre fare esperienze vissute, mettersi e essere messi nella condizione di procedere per tentativi ed errori, applicare metodi, utilizzare strumenti, verificare credenze. Si tratta si superare la convinzione che basta farsi un'idea delle cose per conoscerle.

PIACERE

DOLORE

LIBERTA’

COSTRIZIONE

ESPERIENZA VISSUTA

ASTRAZIONE


L'ATTEGGIAMENTO COSTRUTTIVO Cosa si intende per Atteggiamento Positivo? Come spesso capita, i termini più semplici sono destinati ad essere interpretati nei più diversi modi. Non tanto perché la semplicità, di per se stessa, sarebbe ambigua, ma piuttosto perché lo è la sua variante riduttiva: il semplicismo. Così può capitare che per approssimazioni graduali si giunga ad identificare l'A.P. con l'ottimismo, cioè con una naturale tendenza caratteriale a navigare allegramente nei rassicuranti mari del «positivo». Riteniamo che il significato di A.P. sia in realtà molto meno rozzo e semplicistico e, nel contempo, più semplice e stimolante. Cercheremo di chiarirlo brevemente.

Cos'è un atteggiamento? Un atteggiamento è lo spirito con il quale affrontiamo una situazione o una relazione. Come? Di fronte al buio o ad un problema...

ATTEGGIAMENTO POSITIVO

ATTEGGIAMENTO NEGATIVO Maledire il buio

Accendere una candela Lamentarsi Cercare soluzioni Fornirsi degli alibi

In entrambe queste circostanze noi siamo gli stessi. Ciò che cambia è l'atteggiamento, il modo e la disposizione d'animo con cui ci approssimiamo alla realtà. Più che la situazione, è importante l'atteggiamento con il quale la affrontiamo. E' con l'atteggiamento adottato che esercitiamo una serie di influenze: - sulla nostra immagine, ovvero come gli altri ci vedono; - sul modo in cui ci sentiamo fisicamente e mentalmente;


- sulla nostra capacità di muoverci con efficacia verso gli obiettivi nella vita e nel lavoro. Un atteggiamento positivo ci dà la possibilità di rendere i problemi più facili da gestire, gli errori meno disastrosi, il domani più eccitante. Gli atteggiamenti negativi non ci portano da nessuna parte. Hanno solo una grande forza: ci fanno vedere il lato peggiore delle cose.

Atteggiamento positivo e ottimismo L'atteggiamento positivo non si identifica con una visione «ottimistica» della vita. L'ottimista, spesso, sottovaluta i problemi, rimuove i rischi e i pericoli, esagera e gonfia le opportunità.

ATTEGGIAMENTO NEGATIVO

Ogni problema

OTTIMISMO

ATTEGGIAMENTO POSITIVO

è un rischio e una seccatura

Dietro ogni problema

Problema? Non c'è alcun problema!

c'è anche un'opportunità

Un problema è una medaglia con due facce:

rischio - opportunità Possedere un atteggiamento positivo significa riuscire ad evidenziare, in un qualsiasi problema, le opportunità, gli aspetti positivi, senza sottovalutare gli elementi di rischio. Si dirà che la vita professionale e personale non offre mai solo due alternative, ma che in verità esiste una gamma infinita di varianti e di possibilità; o anche l'opposto, alcune situazioni limite non offrono alcuna alternativa o via di uscita positiva. Proprio perché queste obiezioni hanno una loro base di verità, non si parla qui di ottimismo a buon mercato o di «ideologia del successo a tutti i costi»


secondo una consunta cultura di matrice americana, ma di un atteggiamento razionale grazie al quale cogliere gli elementi vantaggiosi di una situazione, che altrimenti verrebbero ignorati da un atteggiamento negativo.

L'atteggiamento positivo come scelta razionale L'atteggiamento positivo non è un «dono» caratteriale, ma una consapevolezza da acquisire. Alcune persone posseggono un'indole caratteriale che favorisce il consolidarsi naturale di un atteggiamento positivo, altri meno. Comunque

l'atteggiamento positivo è una scelta! E' un approccio razionale di indagine e ricerca sulla realtà che ci consente di individuare in ogni situazione e relazione il...

W. I. G. A. I. ? WHAT IS GOOD ABOUT IT? HIM? HER? CHE COSA C'E' DI BUONO IN CIO'? IN LUI? IN LEI?

Porsi la domanda «W.I.G.A.I.?» è una buona abitudine che può aiutarci ad affrontare situazioni, problemi e persone in modo positivo e costruttivo. Come mai un atteggiamento si può definire una «scelta razionale»? Molti confondono «atteggiamento» con «attitudine». Questo secondo sostantivo evoca significati quali «inclinazione caratteriale», «disposizione», «capacità», «idoneità»; laddove il primo definisce invece un «modo di pensare», un'«espressione comportamentale» o, al massimo, lo spirito mentale con il quale si approccia la realtà. La confusione nasce dall'inglese «attitude» che ha fatto credere ad alcuni essere l'equivalente italiano di «attitudine», mentre la sua esatta traduzione è proprio «atteggiamento». In italiano «atteggiarsi a qualcosa» significa assumere consapevolmente - o addirittura artificiosamente! - un certo comportamento: si «assume» un comportamento, mentre si «possiede» una certa attitudine.


Se la stanza dove lavoro di notte improvvisamente rimane al buio posso scegliere tra due estremi comportamentali: imprecare e maledire l'oscurità improvvisa oppure accendere una candela. Così come, più in generale, posso scegliere di lamentarmi e fornirmi degli alibi oppure impegnarmi a cercare delle soluzioni e/o alternative; ancora, posso limitarmi a trovare odiosa una certa persona o posso tentare di scoprire cosa c'è di buono in lei. In entrambe le soluzioni noi siamo gli stessi, ciò che cambia è l'atteggiamento, il modo e la disposizione d'animo che adottiamo per reagire all'evento. In questo consiste la parte «razionale», di scelta, dell'A.P.

L'A.P. è un comportamento, quindi una scelta razionale che condiziona alla radice il modo di concepire la nostra e l'altrui esistenza; è uno stile di vita che poggia su un preciso sistema di valori. Quante volte abbiamo fatto esperienza di ciò? Quante volte abbiamo cercato con la ragione un motivo valido per andare avanti anche di fronte ai problemi più difficili? Si tratta di mettere in luce quel processo. Di allenarsi a gestire il controllo di quel processo.


Atteggiamento e comportamento L'atteggiamento positivo ha una qualche influenza sui nostri processi di comunicazione. Nel rapporto dialettico con gli altri quante volte la nostra reazione è

sì... però mentre potrebbe essere più utile e costruttivo il

sì... perché? e inoltre? Siamo infatti portati, specialmente nei rapporti interpersonali, a chiudere i nostri canali di comunicazione, mantenendo aperta, solo formalmente, la possibilità di condividere l'opinione dell'altro. Usiamo così una serie di difese...

Ciò che l'altro dice è peggiore di ciò che diciamo noi Rimandiamo discussioni che potrebbero intaccare la nostra autostima Usiamo il "tempo" (ho fretta, oggi no, poi vedremo) per non entrare in relazioni che potrebbero intaccare il nostro punto di vista

Per quanto infinite possano essere le sfumature reattive di fronte ad una situazione, esse finiranno sistematicamente per dividersi in due direzioni: l'una distruttiva, l'altra costruttiva. E' come dire che è sempre possibile fare qualcosa per rendere almeno più accettabile - meno negativo - o per cogliere delle opportunità in ciò che, comunque, non posso o non voglio evitare. Per quanto riguarda le cosiddette «situazioni chiuse», esse sono assai meno numerose di quanto non siamo portati a pensare d'istinto. In sintesi si potrebbe asserire che esistono situazioni negative, ma tranne rare condizioni limite non esistono situazioni chiuse, e che la via d'uscita difficilmente parte da una negazione, bensì da una affermazione; così come esistono persone difficili, ma è abbastanza improbabile, ingenuo ed intollerante ritenere che esistono uomini negativi: molto più spesso lo sono invece i loro comportamenti, ed i comportamenti possono mutare.


Esistono situazioni assolutamente, incontrovertibilmente negative?

Esistono situazioni negative ma, tranne rare condizioni "limite", non esistono situazioni chiuse

E' sempre possibile fare qualcosa per rendere più accettabile una situazione o per cogliere delle opportunità in ciò che, comunque, non si può (o non si vuole) evitare

Esistono persone assolutamente, incontrovertibilmente negative?

Esistono persone difficili, ma è poco probabile che esistano "uomini negativi": molto più spesso lo sono i loro comportamenti I comportamenti sono reazioni a stimoli esterni e interni. Sono le rappresentazioni mentali che ci costruiamo in risposta a quegli stimoli a generare i nostri comportamenti

Alle volte sono frazioni di secondo in cui basta domandarsi «what is good about it (him/her)?» - «cosa c'è di buono in ciò (in lui/in lei)?» - per scoprire risorse o soluzioni comportamentali non prese in considerazione sino ad un istante prima.


In tutto ciò non siamo certo aiutati dalla nostra educazione e dalla nostra cultura. Sarebbe troppo lungo addentrarci qui nell'analisi delle cause e concause che hanno contribuito al consolidarsi nelle società post-industriali di una mentalità negativa diffusa e coriacea. E' certo però che è sempre più difficile scoprire il bello che il brutto. Sembra sempre più intelligente e gratificante dimostrare acume nel descrivere il negativo piuttosto che il positivo. Lo stesso verbo «criticare» oggi è usato unicamente nella sua accezione negativa «portare elementi contro», quando esso descrive invece un'azione ben più completa di analisi complessiva, di descrizione dei più e dei meno.

Tutti noi ricordiamo perfettamente i nostri insegnanti scolastici brandire come una spada la famigerata matita blu e rossa: due colori per due diverse sfumature di errore. Ma di che colore era la matita delle cose giuste? Qual è il colore del positivo?

E così capita di continuare a crescere sentendoci in credito verso la vita per le scarse gratificazioni ricevute; ci aggiriamo disorientati alla ricerca di consensi e strokes (carezze) positivi senza renderci conto che noi per primi siamo generalmente molto avari di riconoscimenti nei confronti degli altri, delle situazioni, dei fatti.


Le rappresentazioni mentali E' proprio in questa divaricazione tra ragione ed istinto, che il concetto di A.P. va inquadrato. L'operazione di ribaltamento del segno - da negativo a positivo non è meccanica, ma anzi presuppone un processo completo di analisi e presa di decisione. Di fronte ad una qualsiasi situazione che ci appare come negativa, il dato emotivo deve gradualmente lasciare posto ad una riflessione più aperta e profonda che ci consente di ispezionare anche altre informazioni apparentemente nascoste. E' un «vedere oltre», non un «oltrepassare»; muoversi verso Rappresentazioni Mentali della realtà più complete, non un tentativo di rimozione dell'obiettività dei fatti alla ricerca di inganni consolatori. Infatti, da cosa sono originati i nostri comportamenti se non dalle Rappresentazioni Mentali della realtà che ci andiamo costruendo sulla base degli stimoli e dell'esperienza? Il cerchio si chiude qui, con la consapevolezza che le nostre R.M. sono gestibili, dipendono da noi e non dagli eventi, che sono modificabili, perfezionabili attraverso processi logici di elaborazione dei dati percepiti. Noi siamo gli unici padroni dei nostri comportamenti! Quando sogniamo, il nostro inconscio produce immagini. Non si sognano parole o discorsi senza che ad esse non siano legate immagini. Il nostro cervello lavora per immagini. Anche da svegli i nostri comportamenti sono legati alle R.M. della realtà che ci siamo costruiti.

INPUT i cinque sensi

PERCEZIONI stimoli

ELABORAZIONE i processi mentali consci e inconsci

RAPPRESENTAZIONI MENTALI

OUTPUT l'azione

COMPORTAMENTI

Le R.M. sono il punto di riferimento nel processo conoscitivo ed operativo. Esse, associate insieme tra di loro, formano complessi detti schemi mentali.Possiamo


cambiare o modificare le nostre R.M. Le R.M. sono immagini della realtà, non la realtà medesima. La loro natura è soggettiva, quindi modificabile.

Le rappresentazioni mentali sono una riproduzione della realtà che noi assembliamo sulla base delle nostre percezioni attraverso il canale dei sensi

Non possiamo fidarci totalmente delle nostre percezioni, perché spesso i nostri sensi ci ingannano

Per diminuire la percentuale di errori ci vengono in aiuto i due emisferi del cervello con le loro potenzialità di analisi e sintesi


Apertura mentale, creatività, capacità di vedere oltre il dato iniziale, abitudine a porsi domande quali «oltre a ciò?» - «W.I.G.A.I.?» - sono le nostre potenti armi per allargare, modificare, cambiare le nostre R.M.

SONO COSTRETTO, CONTRO LA MIA VOLONTA', A FARE IL SERVIZIO MILITARE... R. M. negativa

Oltre a ciò? WIGAI? R.M. modificata

Atteggiamento negativo Atteggiamento positivo Comportamento di rifiuto, chiusura, lamenti

Comportamento di apertura mentale per cogliere opportunità

LA PERSONA CHE DEVO INCONTRARE MI E' ANTIPATICA... R. M. negativa

Oltre a ciò? WIGAI? R.M. modificata

Atteggiamento negativo Atteggiamento positivo Comportamento difensivo e/o aggressivo, antipatia, perdita di tempo

Comportamento aperto, sereno, disponibile. Rapporto costruttivo


Conclusioni Fermiamoci qui e proviamo a riassumere quanto detto. Pensare in positivo significa abbandonare ogni atteggiamento del tipo " non posso ". La sindrome del senso di impotenza impedisce a molte persone di vivere in modo felice. Frasi tipo: " non riesco a smettere di fumare., ...non riesco ad avere successo nel mio lavoro " sono soltanto esempi di un atteggiamento negativo di fondo. Una volta superato il blocco del " non posso " non c'è più alcun limite a ciò che una persona può realizzare se non il "delirio di onnipotenza". Come già sappiamo spesso si tende ad unificare i concetti di ottimismo e atteggiamento positivo, in realtà si riscontra una sostanziale distinzione. L'atteggiamento positivo è una scelta razionale di comportamento e di stile di vita che poggia su un preciso sistema di valori soggetto a cambiamenti. Per ottimismo, invece, si intende una naturale tendenza di tipo caratteriale a porsi in maniera positiva nei riguardi della vita. Si tratta di un carattere ereditario già scritto nel nostro DNA. Ciononostante, l'umore di una persona può essere influenzato in modo passeggero dagli eventi. "La scoperta più grande della mia generazione è che gli esseri umani possono modificare la propria esistenza modificando il proprio atteggiamento mentale" William James. L'Atteggiamento Positivo non è una propensione più o meno sviluppata, una dote innata del nostro carattere, ma è una scelta razionale di comportamento, un modo di pensare. Come tale l'A.P. non può essere considerata una semplice tecnica o una modalità relazionale. Essa si richiama ad una determinata visione della vita e si sviluppa su un sistema di valori (consapevoli o no): questa vita merita di essere vissuta nel miglior modo possibile e con energia; l'energia va impiegata e non conservata; i comportamenti possono essere definiti cattivi e non le persone; per quanto condizionato possa essere sono l'unico padrone dei miei comportamenti e me ne assumo tutte le responsabilità; posso influire positivamente sui comportamenti degli altri riconoscendo autenticamente e visibilmente il valore del mio interlocutore.


LA PROATTIVITÀ Un guru americano Stephen R. Covey ha scritto su questo argomento un bellissimo e notissimo libro che in Italia è uscito con il brutto titolo di "I sette pilastri del successo". E' un bel testo che ci conduce con profondità "socratica" (l'autore è stato definito un Socrate americano) dal livello di Dipendenza, a quello di Indipendenza fino a quello di Interdipendenza.

Interdipendenza vittoria pubblica: pubblica: io vinco tu vincisaper comunicare-sinergie

Indipendenza il passaggio: dal focus su se stessi al focus sugli altri

Dipendenza vittoria privata: privata: proattività-valoriproattività-valoripriorità

Come si può notare la proattività è considerata da Covey come l'unica partenza possibile. Si è proattivi quando non si è reattivi. Quando reagiamo ad un evento solo sulla base della nostra emotività ed impulsività noi stiamo subendo l'evento e siamo reattivi.

Quando noi rispondiamo ad un evento con una "scelta" del comportamento che riteniamo essere il migliore in quel determinato momento, non subiamo più l'evento ma stiamo cercando di dominarlo ed indirizzarlo verso il nostro sistema di valori di riferimento.


E' l'arte di pensare alla vita come a qualcosa che può essere da noi governata. In un mondo in cui tutti paiono fare a gara per accusare gli "altri" o la "sorte" o il "destino" delle proprie mancanze e/o incompletezze. La proattività è quella cosa che ci aiuta a credere fermamente che possiamo cambiare la direzione della nostra vita personale e professionale attraverso "libere" scelte personali. Se accettiamo l'idea di poter scegliere autonomamente dobbiamo accettare la conseguenza della totale, incondizionata responsabilizzazione di ciò che facciamo. La nostra vita professionale non è in mano ad altri. Noi non siamo marionette manovrate da chi ha le leve del potere; la nostra vita professionale è influenzata e condizionata da tanti eventi (l'organizzazione, il mercato, i nostri superiori, i nostri colleghi, collaboratori, clienti, stato d'animo, tempo atmosferico, ingiustizie, etc..) ma ciò che è realmente decisivo è come noi decidiamo di rispondere a questi eventi. Anche se tutti noi siamo condizionati da qualcosa, la persona proattiva cerca sempre di rispondere a questi stimoli e condizionamenti scegliendo il comportamento più intelligente e costruttivo per sé e per il proprio ambiente. La risposta proattiva migliora dunque le condizioni ambientali che l'hanno generata, migliora gli stimoli e i condizionamenti negativi, ci rende sempre più "liberi". E' indubbio che l'ambiente che ci circonda sarebbe di gran lunga migliore e qualitativamente più accettabile se ognuno di noi, proprio a partire da se stesso, iniziasse a presidiare la propria area di influenza (grande o piccola che sia) cercando di renderla migliore. Qualcuno può percepire questa impostazione come irreale ed utopica, ma, al contrario, è proprio questo il punto di inizio della concretezza e dell'azione individuale. La buona organizzazione di un'azienda è la somma ben integrata ed indirizzata di autonomi e responsabili comportamenti individuali, non è una procedura astratta di regole e strategie imposte dall'alto. I processi non condivisi creano resistenze e ritardi e, molto spesso, non giungono in porto. Ognuno di noi deve preparare le proprie vele anche se la rotta sarà decisa, in parte o totalmente, da altri.


stimolo

risposta

scelte


Il sentiero della proattività Alcuni comandamenti, se così possiamo definirli: 1. L'autoconsapevolezza è la capacità di riflettere sul proprio stesso processo di pensiero: solo l'uomo possiede questa capacità 2. Riflettere sul nostro stesso processo di pensiero ci consente di comprendere la "visione di noi stessi" e di correggerla 3. Noi possiamo correggere la visione di noi stessi solo se decidiamo di uscire dal determinismo genetico, psichico e ambientale (tutto succede per colpa del carattere che ho ereditato; tutto succede per le condizioni nelle quali sono costretto, etc...) 4. Dobbiamo uscire dal modello reattivo stimolo-risposta 5. Tra stimolo e risposta c'è sempre la possibilità di scelta!! C'è l'autoconsapevolezza, un sistema di valori personale, l'immaginazione e la volontà autonoma 6. A differenza degli animali che possono solo essere addestrati a determinati comportamenti (ma non possono assumersene la responsabilità), noi uomini possiamo scrivere per noi nuovi programmi totalmente indipendenti dai nostri istinti e dall'addestramento ricevuto 7. La proattività significa che noi esseri umani siamo responsabili della nostra vita. Il nostro comportamento dipende dalle nostre decisioni, non dalle condizioni in cui viviamo. Noi possiamo subordinare le sensazioni ai valori 8. La respons-abilità non è altro che la nostra capacità di scegliere la nostra risposta alle situazioni che la vita ci presenta 9. Le persone proattive accettano la responsabilità delle proprie scelte e non incolpano altri o le avverse circostanze per i propri comportamenti 10. La capacità di subordinare un impulso ad un valore è l'essenza della persona proattiva 11. Se voglio davvero migliorare la mia situazione, posso lavorare sull'unica cosa su cui ho il controllo: me stesso


NASCITA DEL MARKETING E PRIMI SVILUPPI Prima di entrare nel merito di questi argomenti, facciamo un passo indietro alla ricerca delle origini del marketing. La prima applicazione di una ricerca di marketing, di cui si ha notizia, si riferisce ad un’agenzia americana di pubblicità, la N.W. Ayer & Son, che nel 1879 condusse un’indagine sul mercato del grano degli Stati Uniti, in modo tale da poter sviluppare una pubblicità adatta al suo cliente, la Nichols Shephard Company, produttrice di macchine agricole. In Italia il marketing nasce nel periodo successivo al secondo conflitto mondiale, che mise in ginocchio l’intera economia, causando gravi carenze in ogni settore; conseguentemente, mancando ogni genere di prodotto o servizio, la domanda superava l’offerta. Ma cosa significa tutto ciò? Significa semplicemente che in quel periodo storico non era necessario accanirsi per emergere sul mercato, la competizione non era così esasperata come lo è oggi e, quindi, intraprendere una qualsiasi attività commerciale corrispondeva quasi sicuramente ad un successo. Le aziende di quel periodo, erano più orientate ad una filosofia di prodotto, cioè si impegnavano costantemente nel realizzare buoni prodotti e nel migliorarli nel corso del tempo, senza tenere in considerazione quelle che potevano essere le esigenze del mercato e questo creava quella che viene comunemente chiamata miopia di marketing. L’orientamento al prodotto porta le aziende ad applicare anche un concetto errato di progettazione del prodotto stesso. Infatti l’iter che caratterizza la progettazione segue i seguenti passaggi: prima i progettisti creano il nuovo modello, poi la produzione lo realizza, la finanza ne determina il prezzo e, infine, il settore commerciale pensa a venderlo. Non considerare il punto di vista del mercato porta però le aziende a produrre qualcosa che potrebbe non essere richiesto dal mondo dei consumi, con la conseguenza della “non vendita “. Il caso dell’Elgin National Watch Company fornisce un chiaro esempio di cosa significa adottare un orientamento al prodotto. Sin dalla costituzione nel 1864 l’azienda in questione ha goduto della reputazione di essere uno dei migliori produttori di orologi degli Stati Uniti.


La Elgin poneva la massima attenzione nel mantenere un elevato livello qualitativo dei propri prodotti, garantendone la distribuzione attraverso una vasta rete di gioiellerie e di grandi magazzini. Le vendite della Elgin continuarono a salire fino al 1958, per iniziare immediatamente a declinare. Che cosa stava succedendo? La direzione della Elgin era così legata ai tradizionali orologi di alto pregio, da non accorgersi dei cambiamenti radicali che si andavano determinando nel mercato del consumatore. Infatti molti consumatori attribuivano sempre meno importanza all’idea che l’orologio dovesse possedere un’elevata precisione ed una marca prestigiosa. L’idea che prendeva piede con sempre maggior forza era che l’orologio dovesse fornire l’indicazione dell’ora, avere un aspetto piacevole e costare poco. La Elgin perdeva aderenza con il mondo dei consumi ed elevate quote di mercato.

Le aziende che vogliono restare sul mercato adesso, devono assumere una visione di marketing.

Il marketing corrisponde all’idea di soddisfare i bisogni del cliente mediante il prodotto/servizio e tutto l’insieme di cose che sono associate alla sua creazione, distribuzione ed impiego. A fronte di questo la definizione più esaustiva di marketing è quella formulata dal Chartered Institute of Marketing (il più grande organismo professionale europeo di marketing) che riportiamo di seguito: Il marketing è il processo manageriale responsabile dell’identificazione, della previsione e della soddisfazione, in maniera profittevole, dei bisogni del cliente.

L’orientamento che caratterizza adesso l’azienda è quello di un Marketing Concentrato. L’impresa individua in questa fase numerosi segmenti di mercato distinti, ne sceglie uno o più e sviluppa prodotti e marketing mix corrispondenti alle caratteristiche di ciascuno di essi. Per esempio la Coca Cola ha così creato la Diet Coke, la Coca Cola senza caffeina ecc... Il marketing concentrato sta progressivamente evolvendo verso forme di micromarketing, basate sulla definizione di programmi di marketing adattati ai bisogni e ai desideri di gruppi di consumatori individuati in funzione della loro localizzazione (area geografica,


quartiere ecc). In questa prospettiva, un’impresa potrebbe modificare alcune caratteristiche dei prodotti/servizi in funzione della loro destinazione.

Marketing di vendita Il marketing strategico ci riguarda solo relativamente. Il nostro compito non è quello di interpretare la domanda globale per comprenderne il trend di evoluzione ed il formarsi di nuove esigenze; noi non dobbiamo "inventare" nuovi prodotti per coniugarli all'evoluzione di un mercato. Noi siamo l'anello finale di questa catena, il passaggio obbligato il fallimento del quale renderebbe nullo l'intero processo . La nostra funzione è diversa anche se la logica è la medesima: il nostro scenario è la segmentazione di vendita, non la segmentazione del mercato. Il nostro compito è molto più concreto ed immediatamente operativo. Noi abbiamo già dei prodotti, una politica di distribuzione, una pubblicità di supporto, condizioni e prezzi già stabiliti: ora si tratta di venderli. La vendita etica presuppone, come già detto più volte, capacità di interpretazione delle esigenze dei nostri clienti potenziali. Anche noi abbiamo le nostre P da considerare e valorizzare, vediamole in dettaglio. LE P DEL MARKETING DI VENDITA

ABILITÀ/ COMPETENZE

PROFESSIONALITA'

Aggiornamento continuo sui prodotti e sui servizi

PRODOTTO/SERVIZIO

Conoscere il prodotto in termini di caratteristiche e VANTAGGI GENERICI

PIAZZA

Conoscenza dei comportamenti, delle abitudini dei segmenti di clientela: LE ESIGENZE

PIANIFICAZIONE

Saper fare un piano d'azione per un obiettivo co.mi.co.; gestire il proprio tempo.

PERSONALIZZAZIONE DEL RAPPORTO

Comportamenti e tecniche di vendita : vendere i BENEFICI


Nelle pagine seguenti analizzeremo infatti proprio quest'ultima P ripercorrendo le fasi per obiettivi della vendita etica: il contatto, la scoperta dei bisogni, la selezione e presentazione del prodotto, la conclusione, la fidelizzazione

Orientamento al cliente Peter Drucker, noto studioso e tecnico strategie di mercato, dice che il soddisfacimento della clientela è uno degli obiettivi più importanti delle moderne strategie di marketing. Soddisfare i bisogni del cliente diviene importante perché? Perché un cliente soddisfatto: acquista di nuovo, esprime un giudizio favorevole nei confronti dell’impresa, presta meno attenzione ai prodotti/servizi della concorrenza ed è invogliato ad acquistare anche gli altri prodotti/servizi. Accettare il marketing come filosofia aziendale significa partire dai bisogni del cliente e poi pensare al prodotto/servizio. Ma un’organizzazione per entrare nell’ottica vincente dell’orientamento al cliente deve adottare il punto di vista del cliente stesso. La conoscenza attenta e differenziata della clientela in termini di reali esigenze, comportamenti di acquisto e stili di vita, e la centratura degli sforzi produttivi e commerciali sulla soddisfazione degli specifici bisogni di ogni cliente è dunque divenuto il vantaggio competitivo di ogni organizzazione che produca beni o eroghi servizi. Occorre infatti che il marketing svolga innanzitutto la funzione di veicolo di informazioni e che progetti al suo interno sistemi di azioni finalizzate a minimizzare la distanza tra il punto di vista del cliente che fruisce del servizio e quello dell’azienda che lo eroga. Occorre cioè che si crei un ponte, un’interfaccia funzionale interna fortemente orientata a tradurre i bisogni del cliente in esiti produttivi agendo, ove occorra, anche sui sistemi di produzione e di organizzazione interna dell’impresa. Considerare il marketing come filosofia di gestione aziendale non significa dunque iniziare a produrre per poi sperare di vendere, ma significa partire dai bisogni dei clienti per costruire su questi i propri prodotti e servizi. Oltre alla conoscenza dei bisogni è altrettanto importante individuare anche il valore che il cliente attribuisce al prodotto/servizio e quindi capire quali sono le


leve che lo spingono ad effettuare un acquisto e le sue reali esigenze, in modo tale da soddisfare appieno le sue necessità. I venditori non devono cercare di vendere lo stesso prodotto/servizio a molte persone diverse, ma soddisfare le singole esigenze attraverso i benefici personali. Infatti, clienti diversi acquistano lo stesso prodotto/servizio per motivi diversi: è importante, quindi, identificare i bisogni del cliente e capire quali sono i benefici che il servizio può offrirgli. Ma cosa sono i benefici? I benefici sono ciò che i prodotti/servizi venduti offrono ai diversi tipi di clientela. Infatti, non è importante ciò che i prodotti/servizi fanno, ma ciò che significano per i clienti stessi. Orientarsi al cliente significa dotarsi di strumenti adeguati per comprendere meglio i comportamenti d'acquisto del cliente: cercare la sintonia. Proprio per questo dobbiamo porci alcune domande sempre focalizzando l'attenzione sul cliente, per comprendere le caratteristiche di questo e per adeguare le nostre azioni di marketing sul target di riferimento. Le domande potrebbero essere: Cosa vuole il cliente? Cosa cerca in realtà questo cliente da questo prodotto/servizio? Quali sono le motivazioni di acquisto psicologiche di questo cliente? Le motivazioni di chi acquista possono essere distinte in due grandi categorie: motivazioni di natura economica e motivazioni di natura extra economica. Nella prima categoria potrebbero rientrare l'ottenimento di un ritorno economico più favorevole ecc, ma nella seconda categoria rientrano elementi che riguardano elementi di natura personale Le teorie psicologiche hanno permesso di sviluppare ipotesi precise riguardo al comportamento d’acquisto e di sviluppare alcune tecniche di analisi psicologica per avere una conoscenza più approfondita dei problemi del marketing. Le analisi fatte sui clienti hanno permesso di evidenziare che per poter fidelizzare il cliente, è necessario comprenderne i bisogni e le variabili che rientrano nel comportamento d’acquisto. L’ipotesi è che gli acquirenti sceglieranno i prodotti/servizi delle imprese che offrono il più elevato valore reso, cioè quello che sarà più adeguato per loro (valore percepito).


L'inizio della vendita Una fase fondamentale dell'intero processo della vendita è quella che si riferisce ad i primi istanti della visita, al momento del primo contatto con il cliente. E’ la fase in cui il cliente si prepara a contenere l’azione del consulente commerciale per poter influire su di lui, in base ai propri scopi piuttosto che farsi influenzare dal consulente commerciale. L’organizzazione delle difese mentali provoca nel cliente un atteggiamento di cautela. Nel caso di un nuovo cliente il suo primo giudizio verte esclusivamente su aspetti formali dello stile del consulente commerciale. Della personalità di quest’ultimo il cliente coglie molto più facilmente gli aspetti superficiali e appariscenti e queste percezioni stanno alla base di giudizi sbrigativi che, se negativi, tendono ad etichettare il consulente commerciale in modo duraturo. Quindi la fase di contatto è fondamentale perché il cliente si forma una prima rappresentazione mentale del consulente commerciale che sarà difficile modificare nel tempo. Avete una sola occasione per creare una buona impressione iniziale

Secondo recenti studi, nei primi istanti di un processo comunicazionale, noi percepiamo dal nostro interlocutore il 55% dei messaggi provenienti dal linguaggio del corpo, il 30% dei messaggi provenienti dagli elementi prosodici (tono, ritmo, pause della voce), il 15% dei messaggi provenienti dal linguaggio verbale. La presa di contatto con il cliente è una fase delicata perché è tutta giocata in tempi brevi sul tono della relazione e non sui contenuti della possibile offerta. Questa è una fase che va superata velocemente per entrare nel merito di un dialogo, in cui si cerca di fare emergere le esigenze e gli interessi dell’interlocutore. L’impostazione del consulente commerciale, negli atteggiamenti e nel comportamento, deve essere tesa a farsi accettare favorevolmente dal cliente, infondendogli gradualmente fiducia, interesse e credibilità.


E' utile pertanto affrontare in maniera ampia il mondo della comunicazione, mezzo di espressione delle proprie volontà, ma non sempre così semplice e piano e il mondo dei rapporti interpersonali, quasi sempre giocati sulle differenze tra gli individui e sulle emozioni o meglio percezioni che abbiamo l'una degli altri. Altro punto fondamentale è la fase di preparazione dove la conoscenza dei prodotti e servizi, la capacità di fissarsi obiettivi, pianificare e gestire il tempo diventa propedeutica all'azione di vendita stessa. Ed è proprio da questi punti che iniziamo il nostro percorso nelle pagine seguenti.


IL TEMPO: INDIVIDUARE LE PRIORITÀ Il libro di S. Covey “I sette pilastri del successo” illustra un modello fondamentale di gestione del tempo che ha come punto di partenza la tradizionale distinzione tra urgenza e importanza e giunge alla formulazione di un “centro di vita”. Una cosa è urgente quando richiede un’attenzione immediata; è importante quando contribuisce al raggiungimento dei nostri obiettivi. Spesso ci limitiamo ad essere “reattivi” alle cose più urgenti, quelle che si debbono fare (o che noi siamo abituati a ritenere che si debbano fare e che vadano fatte solo da noi). Le attività importanti richiedono maggiore iniziativa e “proattività”. Se non abbiamo un’idea chiara di ciò che è veramente importante, dei risultati che desideriamo ottenere nella nostra vita, facilmente ci lasceremo “distrarre” dalle cose “urgenti” trascurando le altre. La Matrice Manageriale del tempo suddivide le diverse tipologie di attività riconducendole ai diversi livelli di priorità.

I M P O R T A N T E

I M P N O O R N T A N T E

Urgente

Non urgente

I° QUADRANTE

II° QUADRANTE

Attività: Attività giunte a scadenza Emergenze

Attività: Prevenzione Pianificazione Sviluppo di relazioni Individuazione di nuove opportunità

III° QUADRANTE Attività: Parte della corrispondenza Certe telefonate Alcuni rapporti Certe riunioni Attività che stanno a cuore ad altre persone

IV° QUADRANTE

Attività: Parte della corrispondenza Certe telefonate Gente che fa perdere tempo Interruzioni banali


Tutti noi abbiamo attività nel quadrante I, ce ne saranno sempre e non dovranno essere eliminate perché si tratta di attività produttive. Ma se restiamo concentrati solo su questo continuerà ad ingrandirsi sempre di più e finirà per dominarci: l’unico sollievo sarà cercare scampo nel IV quadrante. Questo significa essere dominati dalla crisi. Altre persone sprecano il loro tempo nel III quadrante pensando di trovarsi nel I. Passano il tempo reagendo a cose urgenti pensando che siano importanti, in realtà questo tipo di urgenza si basa spesso sulle priorità e le aspettative di altre persone. Altre persone passano la maggior parte del tempo divise tra il III e il IV quadrante e conducono vite fondamentalmente irresponsabili. Le persone efficaci rimangono fuori dai quadranti III e IV e lavorano per restringere il quadrante I passando più tempo nel II. Anche queste persone ovviamente attraversano periodi di crisi, ma, facendosi guidare dalla chiarezza sulle priorità e da una buona programmazione a lungo termine, innescano un volano di pianificazione che li porterà a restringere al minimo le emergenze. Solo investendo tempo nel quadrante II ci troveremo ad impegnarci per noi stessi e per le cose veramente importanti. Un manager, secondo Covey, dovrebbe senz’altro dare il massimo delle priorità alle attività del II quadrante, cioè a quelle attività che sono coerenti con il nostro “centro di vita”. La nostra attenzione deve essere rivolta all’importante più che all’urgente. Questo non è facile, soprattutto considerando che tutti noi siamo più abituati a muoverci nei quadranti III e IV, ma dobbiamo imparare a concentrarci più sulla prevenzione delle crisi che non sulla gestione, per non trovarci costantemente impegnati nell’emergenza.

Percorso verso l'eccellenza Per poter utilizzare gli strumenti della gestione del tempo in maniera adeguata, è necessario innanzitutto vivere un cambiamento di prospettiva che ci fa passare da un perenne stato di emergenza ad una nuova concezione della “risorsa tempo” come valore che incide su tutti gli aspetti della nostra vita. Questo dà una prospettiva diversa al senso e all'importanza della gestione del tempo, che ha un impatto esistenziale. Se siamo individui realizzati e gratificati, perché siamo consapevoli di percorrere il cammino verso le cose che sono davvero importanti per noi, allora siamo anche più motivati sul lavoro e di conseguenza più produttivi rispetto a tutte le aree di abilità esaminate, sia nell’efficacia verso gli obiettivi sia nell’efficienza quotidiana. Stiamo gestendo bene il tempo della nostra vita. Proprio in considerazione di questo, la capacità di gestire bene il tempo appare strettamente collegata alla comprensione delle nostre reali motivazioni ad appartenere ad una determinata organizzazione, a svolgere un determinato


ruolo, ad integrarsi produttivamente in un determinato sistema. Risulta quindi necessario lavorare sui nostri processi di automotivazione e di ricerca di energia positiva per poter migliorare la strutturazione del nostro tempo all’interno della realtà nella quale operiamo. Il primo passo dunque consiste nel cercare di comprendere meglio noi stessi. Il nostro rapporto con il tempo è strettamente collegato con la direzione che stiamo seguendo e con la sua coerenza con il nostro “centro”. Per ognuno di noi esiste un “centro”, che corrisponde ai nostri valori, ai nostri desideri più profondi, a ciò che è veramente importante per noi, nel lavoro e nel privato. Il nostro “centro” è ciò che dà un senso a ciò che facciamo. Non solo come professionisti, ma anche come partner, come figli, come amici, se ci riflettiamo, possiamo individuare degli obiettivi da raggiungere in base a ciò che reputiamo importante in ogni sfera. E' importante, nel percorso verso l'eccellenza, migliorare la qualità della nostra vita, in modo da integrare costruttivamente i diversi ruoli che ricopriamo ogni giorno e raggiungere un buon livello di soddisfazione in tutti i campi.

AGIRE CON EFFICACIA Tra le tante meravigliose capacità che l'individuo possiede, ne esiste una che rappresenta il serbatoio dal quale l'uomo può attingere ogni volta che deve prepararsi ad agire: L'IMMAGINAZIONE. Tale capacità gli permette di creare un'immagine mentale di qualcosa che esiste ma che non è in quell'istante presente o di creare un immagine di qualcosa che ancora non esiste, ma che si potrà compiere in un prossimo futuro. Questa visione che l'individuo si crea può essere o avulsa dalla realtà e dunque rimanere per sempre una pura immagine fantastica oppure legata alla realtà e perciò assumere il ruolo di azione che potrà essere compiuta. La possibilità di poter immaginare un evento e di poter decidere sulla base di tale capacità, lo differenzia dalla maggior parte degli esseri viventi che compiono azioni o in base ad un destino geneticamente definito o imparandole tramite l’addestramento che struttura abitudini e permette che queste si ripetano ogni volta che si presenta lo stimolo guida. Come abbiamo già visto nelle pagine iniziali, se per gli altri esseri viventi l'equazione stimolo risposta è valida sempre, per l'uomo esiste uno spazio tra stimolo e risposta che può essere riempito dalla immaginazione e dalla autoconsapevolezza. Siamo però abituati, ed ecco che il termine abitudine ritorna anche per noi, a pensare che il nostro agire e il nostro sentire sia per lo più conseguenza delle azioni degli altri e che le nostre risposte siano conseguenza naturale di alcuni


stimoli. Così quando ci confrontiamo con gli altri o con noi stessi usiamo il più delle volte frasi tipo: SE L'ALTRO NON AVESSE.........IO...., SOLO SE CAPITASSE COSI' IO POTREI....., STO MALE PERCHÉ TU......., SE AVESSI UN ALTRO CAPO....IO.., e così via. Ci comportiamo perciò come quegli animali che agiscono e mutano le loro azioni in base agli stimoli che percepiscono e non sono capaci di agire in altro modo perché non hanno la consapevolezza.

Tra stimolo e risposta c'è lo spazio per la nostra decisione e per riconoscerci responsabili delle nostre azioni . Per tale motivo ciò che facciamo e ciò che decidiamo dipende solo da noi e le conseguenze alle nostre azioni possono essere di tipo sociale e perciò scritte e definite all'infrazione di una regola corrisponde una risposta stabile o di tipo relazionale e dunque decise volta per volta. DEVO andare, DEVO fare, non POSSO ,sono frasi che se viste nell'ottica di cui sopra assumono significati semantici diversi : NON

"POSSO" E/O

NON

"DEVO"

SONO VERBI CHE IN REALTÀ SIGNIFICANO CHE ABBIAMO

DECISO DI FARE ALTRO, CIOÈ CHE NON "VOGLIAMO" FARE UNA DETERMINATA COSA.

Non lo vogliamo perché comprendiamo che la conseguenza dell'azione scelta è per noi più fruttifera di un'altra. Ciò che faccio è conseguenza della mia responsabilità (cioè della mia capacità di risposta).

Se decido di non decidere e farmi travolgere dagli eventi, se non sono responsabile, se non ho autoconsapevolezza e non so immaginare ciò che potrò fare e quali le conseguenze del mio agire, darò spazio all'insuccesso, poiché saranno gli eventi o la fortuna a decidere i miei goals.

La capacità di progettare la nostra esistenza sembra in quest'ottica una azione puramente meccanica dove tutte le nostre azioni hanno successo solo se sono legate al concreto, alla meditazione e non alla spontaneità. Il bambino vuole e non capisce ragioni se non ha.


Quando vuole non si interroga se è possibile avere e quando non ha non capisce che è colpa della sua richiesta non compatibile con le circostanze ma se la prende con il mondo che non ha risposto in conformità con i suoi desideri. Non abbiamo però la possibilità di comportarci spesso come bambini. Tutte le volte che non siamo riusciti a realizzare un desiderio e' perché non abbiamo agito consapevolmente, è perché non abbiamo progettualizzato le nostre azioni. Abbiamo voluto concretizzare dei desideri che di compatibile non avevano nulla né con le nostre possibilità, capacità, né con le situazioni che la realtà circostante presentava. Non abbiamo creato il presupposto perché tutto si potesse realizzare o perché si potesse decidere che non era possibile fare. Non ci siamo prima creati una visione, un'immagine della realtà, non ci siamo domandati prima se quel desiderio era raggiungibile per noi, non ci siamo costruiti prima il progetto per raggiungerlo, non abbiamo valutato se tutte le conseguenze alle nostre azioni erano adeguate per raggiungere il nostro goal. Percepito uno stimolo abbiamo "semplicemente" risposto. Se non tutti i desideri sono realizzabili un primo passo sarà capire quale potrà vedere la luce e quale rimarrà un sogno.

PERCEPIRE E COMPRENDERE IL FUTURO: la Situazione Desiderata La capacità più importante è crearsi una visione trascinante per se e per gli altri e fare poi in modo che si trasformi in realtà. Un desiderio per quanto forte sia non può essere raggiunto se non risponde in maniera affermativa ad una serie di domande. Potremmo desiderare di brevettare una macchina che cammina su una ruota sola e che può ospitare 5 persone? Con la nostra immaginazione, associando vari elementi della realtà avremmo la possibilità di "vederla", ma non certo di costruirla nel prossimo futuro, con le attuali tecnologie e conoscenze. Questo desiderio non risponde affermativamente alla domanda: E' CONCRETO? Con la nostra fantasia potremmo decidere anche il prezzo di vendita, ma su che basi, quanto costano i pezzi e la mano d'opera?. Non potremmo neanche stabilire un budget per costruirla. Anche questa componente del nostro desiderio non risponde affermativamente alla domanda: E' MISURABILE?


Ci sono però, è vero, dei desideri che sono concreti e misurabili ma non sono raggiungibili. Per rimanere nel mondo dell'automobile potremmo immaginare di sviluppare la nostra azienda a tal punto da farle assumere le dimensioni della Fiat che è concreta in quanto esiste è misurabile in quanto sono noti dati e parametri di produzione ed economici. Ciò per molti di noi sarà irraggiungibile per quanti saranno gli sforzi. Allora quale sarà il requisito ancor più importante che tradurrà un desiderio in obiettivo? Sarà il rispondere affermativamente alla domanda: E' COMPATIBILE? Con le nostre possibilità, con la realtà che ci circonda, con le nostre risorse, con il tempo che abbiamo a disposizione? Se risponderemo affermativamente avremo aggiunto un importante tassello alla procedura di costruzione del nostro obiettivo. Se tale desiderio avrà come requisiti la COmpatibiltà, la MIsurabilità e la COncretezza, sarà cioè CO.MI.CO., potremo progettare il nostro viaggio di avvicinamento avendo mutato il desiderio o l'idea in qualcosa di raggiungibile, in un obiettivo, appunto. Le carovane nel deserto si mettono in moto avendo di fronte un miraggio e il miraggio produce energia, volontà e diventa lo start per il cammino. I miraggi però non hanno mai dissetato nessuno. Un obiettivo è il target che abbiamo deciso esser raggiungibile perché CO.MI.CO. costruito dall'analisi della concretezza, dalla rispondenza ai requisiti di misurabilità e dall'analisi delle compatibilità.

PERCEPIRE E COMPRENDERE IL PRESENTE: la Situazione Attuale Per costruire il ponte del quale conosciamo i requisiti, dobbiamo comunque sapere da dove cominciare , come è e come deve essere attrezzata la nostra squadra di lavoro e quali risorse ci servono. Siamo in una fase di analisi o meglio in una fase altamente creativa. Andiamo alla ricerca delle nostre eccellenze e dei nostri minus. E' proprio qui, nell'analisi della Situazione Attuale, che il processo di conoscenza delle compatibilità con l'obiettivo ci pone un' ulteriore riflessione. Per definire al meglio tale aspetto ci porremo una serie di domande volte ad indagare quale è oggi la nostra posizione rispetto all'obiettivo: abbiamo le risorse che ci servono? Quanto tempo ci impiegheremo, quali problemi potremo incontrare lungo il cammino? La situazione che ci circonda è favorevole? Quanti e quali imprevisti potrebbero essere "previsti"?


Tali domande scenderanno ancora di più nell'analitico fino a toccare la nostra sfera personale: come mi sento oggi rispetto all'obiettivo? Quanto mi piace? A che punto è il mio entusiasmo e la mia energia ? E' fondamentale, credo per tutti, essere attirati da un obiettivo piuttosto che spinti verso un obiettivo e tale attrazione diventa molto più forte quanto più ci piace ciò che vogliamo perseguire. Useremo la nostra immaginazione per "vederci" ad obiettivo raggiunto e percepire come ci potremo sentire. Se sarà piacevole avremo caricato quelle pile che ognuno ha dentro di sé e che ci motivano ad agire per accorciare le distanze dalla realizzazione di ciò che vogliamo. Definito il punto di partenza (Situazione Attuale) e il punto di arrivo (Situazione Desiderata), ciò che manca sono l'insieme di azioni che si dovranno immaginare e definire e che ci permetteranno di partire da un punto per arrivare a quello voluto. Per tracciare una rotta sono infatti necessari almeno due punti (quello di arrivo e quello di partenza), ma ogni rotta non è altro che l'insieme di tanti piccoli tratti non sempre facili e alle volte insidiosi.

PROGETTARE L'AZIONE: Il Piano d'Azione Se tra lo stimolo e la risposta c'è lo spazio per l'autoconsapevolezza e per la nostra decisione, tra la situazione attuale e quella desiderata c'è lo spazio per un piano d'azione. Se mancasse si vanificherebbe tutto il nostro lavoro precedente e si creerebbe il presupposto per tornare ai soliti "non è colpa mia di.........., se avessi.......io ..., saprei io cosa fare.....ma....", etc. Alibi e lamenti prenderebbero il sopravvento sulla gestione della nostra vita. Ogni volta che ci troviamo a sbagliare, che comprendiamo un nostro errore, dovremmo sorriderne poiché grazie ad essi potremo ridefinire i nostri obiettivi, rianalizzare la nostra situazione attuale e farci un nuovo e più efficace piano d'azione.

Immaginare le azioni che dovremo compiere per raggiungere l'obiettivo è la struttura portante del nostro cammino, è la traduzione del nostro sogno, della nostra visione, in realtà. Quando gli obiettivi sono vicini, a portata di mano il piano d'azione che ci faremo sarà probabilmente semplice. Quando gli obiettivi saranno lontani nel


tempo avremo più azioni e più verifiche da compiere. Ma quali azioni saranno quelle giuste? Tutte quelle che ci faranno accorciare la distanza. Come capiremo che la distanza si sta accorciando ? Verificando se l'azione prima immaginata e poi compiuta risponde ad un requisito, ovvero: produce i cambiamenti e le risposte che avevamo immaginato. Dunque, ogni volta che pensiamo ad una azione da compiere, dovremmo chiederci ...... PERCHE' questa azione e non un'altra? COSA dobbiamo produrre con tale azione? DOVE mi porterà? COME possiamo valutare se abbiamo prodotto ciò che avevamo pensato? QUANDO dovrò fare le verifiche? QUANTO ci avvicineremo al nostro obiettivo? Fisseremo lungo il nostro cammino una serie di sottobiettivi, CO.MI.CO. anch'essi, e stabiliremo delle verifiche per comprendere se tali sottobiettivi sono stati raggiunti. Creato il nostro progetto daremo seguito alle azioni reali e se avremo analizzato adeguatamente la SITUAZIONE ATTUALE, se avremo definito adeguatamente la SITUAZIONE DESIDERATA e stabilite azioni efficaci, raggiungeremo il nostro goal.

Struttura del piano d’azione Goal S V I L U P P O

Z SOTTOBIETTIVI

Y X FASI ED AZIONI CONSEGUENTI TEMPI


IL CONTATTO CON IL CLIENTE PRINCIPI DI COMUNICAZIONE

Comunicare: Far partecipe, rendere comune ad altri, dividere insieme, rendere noto, palesare, conversare, manifestare, far comune i propri sentimenti e pensieri, aver contatto, relazione... N. Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana Già a livello di semplice definizione ci rendiamo conto che "l'azione del comunicare" non è un'azione semplice ma più esattamente un "processo di azioni" diverse e correlate fra di loro. Non si tratta infatti solo di "rendere noto" qualcosa a qualcuno, ma anche di "aver contatto, relazione" con questo qualcuno. Limitiamoci, per ora, ad esaminare i soli aspetti tecnici della comunicazione, trascurando la dimensione relazionale.

La comunicazione da un punto di vista meccanico Comunicare: trasmettere e ricevere informazioni (messaggi) strutturate in un codice attraverso un canale.

EMITTENTE

messaggio

RICEVENTE

Questo è dunque lo schema di base di ogni forma di comunicazione. Emittente e ricevente sono i soggetti del processo comunicativo. Il messaggio è l'oggetto dello stesso processo ed è costituito da un insieme di informazioni di base (parole, immagini) che strutturate in un certo modo (codice) formano i contenuti della comunicazione. Il codice dunque può essere definito come la modalità di espressione del messaggio (lingua, gesti, morse...). Il codice svolge il ruolo di sintonizzatore tra emittente e ricevente: solo se entrambi i soggetti del processo di comunicazione sono a conoscenza del codice usato si rende possibile la decodifica del messaggio, quindi la realizzazione di un processo comunicativo completo. Ogni disciplina, ogni scienza, ogni cultura specifica ha un proprio codice. Quando parliamo di canale intendiamo il mezzo attraverso il quale inviamo il messaggio strutturato; per esempio, quando parliamo con qualcuno comunichiamo il nostro messaggio strutturato nel codice "lingua italiana" attraverso il canale delle onde sonore. Il computer organizza le proprie informazioni (messaggi) in determinati e specifici linguaggi (codici) che vengono trasmessi attraverso il canale degli impulsi elettrici.


Ovviamente la tipologia del messaggio e lo stesso codice scelto sono strettamente correlati con la scelta del canale usato. Se dobbiamo parlare al telefono con qualcuno non ci metteremo a mimare con gesti ed espressioni del viso le informazioni da trasmettere (codice gestuale, canale visivo) ma sceglieremo di esprimerci con il codice linguistico adeguato attraverso il canale vocale. Sappiamo anche che la migliore comprensione del messaggio si ottiene quando la comunicazione si avvale di più canali in contemporanea (per esempio la televisione: canale delle onde sonore e canale visivo). Un elemento di fondamentale importanza nei processi di comunicazione è il feedback, cioè il "nutrimento di ritorno" o il "rinforzo". Quando nell'analisi di un processo di comunicazione si prende in considerazione il feedback si esce dalla schema di base esposto in precedenza

EMITTENTE

messaggio

RICEVENTE

e si giunge a definire una dimensione circolare, dove non si è mai solo emittenti o riceventi, ma entrambi i soggetti contemporaneamente.

messaggio

EMITTENTE

RICEVENTE

feedback In effetti quando parliamo con qualcuno inviamo al nostro interlocutore una serie di stimoli (fisici e psichici) che provocano in lui una serie di reazioni (movimenti del corpo, espressioni del viso, richieste verbali, silenzi) che a loro volta si trasformano in ulteriori stimoli per noi, inducendoci a nuove reazioni e così via... Questo processo circolare, per cui si è sempre nel medesimo tempo sia emittenti che riceventi, appare assolutamente evidente nei processi di


comunicazione a due vie, quando cioè i soggetti usano uno stesso canale comunicazionale nei due sensi (quando è possibile il feedback); lo è meno nei processi di comunicazione ad una via dove chi emette il messaggio lo fa attraverso un canale a senso unico che non permette al ricevente di poter inoltrare immediatamente le sue informazioni di ritorno (per esempio, radio e TV non permettono agli ascoltatori di inserirsi direttamente nel processo di comunicazione, ma solo con un certo ritardo e attraverso canali diversi come il telefono, gli indici di ascolto e gradimento, lo share, etc.)

COMUNICAZIONE A

1 VIA

COMUNICAZIONE A

2 VIE

canale a senso unico

canale a due sensi

feedback inesistente o ritardato

feedback immediato

La comunicazione da un punto di vista relazionale L'ultimo concetto affrontato nel paragrafo precedente, il feedback, rappresenta il punto di passaggio che ci consente di affrontare la comunicazione anche da un punto di vista di interazione fra persone.

Comunicare significa interagire con individui o gruppi di individui al fine di scambiarsi informazioni.

In realtà ogni attività umana che si basa su dei rapporti fra individui implica sempre un processo di comunicazione. Basta riflettere su questo punto: quando parliamo con qualcuno ci aspettiamo che questo qualcuno risponda alle nostre sollecitazioni verbali; per esempio, se chiediamo ad un nostro conoscente come si sente, ci aspettiamo ragionevolmente che egli ci risponda «bene, grazie», oppure «non troppo bene...» o in qualsiasi altro modo e questo per noi è un processo di comunicazione.


Supponiamo ora che egli non ci risponda affatto e che si giri da un'altra parte evitando di guardarci negli occhi... Come definiremo questo processo di comunicazione? Potremo dire che non vi è stato alcuno scambio di informazioni tra il nostro amico e noi? Dovremo forse ritenere che in questo caso non è avvenuto alcun processo di comunicazione? Non è forse vero che l'atteggiamento di silenzio del nostro amico vale per noi, comunque, come una risposta alla nostra sollecitazione? Non è forse vero che potremmo, per esempio, sentirci offesi per la sua maleducazione, o preoccupati per i suoi problemi di salute, indispettiti per la sua aria di sufficienza... e così via? Dire questo significa riconoscere che il nostro amico, e gli esseri umani in genere, possono esprimere la propria maleducazione, il proprio avere problemi di salute, la propria superbia (e mille altre cose) solo attraverso il silenzio! Dunque anche il silenzio è comunicazione!

Ogni comportamento in una situazione di interazione ha valore di messaggio, vale a dire è comunicazione

Comunque ci si sforzi non si può non comunicare perché comunque tutti noi assumiamo un qualche comportamento (non esiste il non-comportamento) e qualunque comportamento è comunicazione. L'attività, l'inattività, le parole o il silenzio hanno tutti il valore di messaggio, influenzano gli altri e gli altri a loro volta non possono non rispondere a queste comunicazioni e in tal modo comunicano anche loro. Da quanto sin qui esposto possiamo evincere che

ogni comunicazione definisce la relazione


Una comunicazione cioè non soltanto trasmette un'informazione (messaggio) ma al tempo stesso provoca un comportamento, in un certo senso lo impone. Quando diciamo frasi come "questo è un ordine!", "sto solo scherzando" noi stiamo in realtà trasmettendo un messaggio e contemporaneamente delle istruzioni su come questo messaggio deve essere inteso dal nostro interlocutore. Ovviamente le istruzioni su come un messaggio deve essere inteso le possiamo trasmettere al nostro interlocutore non solo con il modulo verbale (come gli esempi di prima) ma anche con il nostro stesso comportamento che è sempre comunicazione. Così posso chiedere al mio amico che guarda una bella ragazza passargli accanto per strada "cosa guardi?!" e posso accompagnare questa mia domanda con una strizzatina d'occhio ed una amichevole gomitata sul suo fianco, esprimendogli così la mia complicità; ma avrei potuto accompagnare la stessa frase con un tono della voce secco ed aspro, mettendo il dito i indice di fronte ai suoi occhi in segno di rimprovero. Questo significa che il modo in cui diciamo le cose, il comportamento non verbale con il quale (consapevolmente o inconsapevolmente) i nostri messaggi definiscono il tipo di relazione che vogliamo stabilire con il nostro interlocutore. Il contesto in cui ha luogo la comunicazione servirà a chiarire ulteriormente la relazione che si instaurerà tra i due soggetti. Appare quindi evidente quanto sia importante ella comunicazione l'aspetto non verbale della stessa; affronteremo questa dimensione nei paragrafi successivi. Proviamo a compiere una prima sintesi di quanto detto finora:

- tutto il comportamento è comunicazione e viceversa - non si può non comunicare - ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e un aspetto di relazione di modo che il secondo classifica il primo

Un'altra importante caratteristica dei processi di comunicazione riguarda l'interazione tra i comunicanti, cioè i loro scambi di messaggi in rapporto ai ruoli che essi stessi hanno stabilito di darsi. Spieghiamoci meglio. Abbiamo appena detto che il modo con il quale comunico il messaggio ad un mio interlocutore definisce la nostra relazione e classifica il


messaggio stesso. Se per esempio la moglie dice al marito «Tu non parli mai! Vivi sempre nel tuo mondo!», se questa comunicazione verbale è accompagnata da un comportamento tipico di chi brontola ed è seccato (gesti, espressioni, tono...) noi asseriamo che è questo comportamento che ci fa capire la "natura" del messaggio e quindi concludiamo: la moglie sta rimproverando il marito perché lui non parla mai. Se ora proviamo ad andare più avanti nella nostra scenetta immaginaria, potremmo ipotizzare la risposta del marito: il marito scuote la testa e non dice nulla. Questo comportamento del marito rappresenta per la moglie un'informazione di ritorno (feedback o rinforzo) che le confermerà la sua convinzione.

S T IM O L O

R IN F O R Z O

MARITO sta in silenzio

MARITO scuote la testa

MOGLIE brontola R IS P O S T A

In comunicazione questo processo viene definito come punteggiatura della sequenza di eventi: cioè, nel nostro esempio, la moglie organizza gli eventi con una punteggiatura che è tutta sua e non è affatto universale o oggettiva. La sua punteggiatura è la seguente: «io reagisco al silenzio cocciuto di mio marito arrabbiandomi e lui imperterrito continua a stare zitto!» La triade ora costruita in un processo di comunicazione, si ripete n volte in una sequenza ininterrotta di altre triadi.

MARITO sta in silenzio

MARITO scuote la testa

MOGLIE brontola

MOGLIE brontola di più


Ora il problema è questo: da dove hanno inizio le triadi? E' questa sequenza (punteggiatura) della moglie l'unica possibile? Non sarebbe il marito ugualmente legittimato a punteggiare il processo comunicazionale in altro modo? Per esempio il marito dice: «ogni volta che sento brontolare mia moglie decido di non risponderle, subisco in silenzio!»

R IS P O S T A

MARITO scuote la testa

MOGLIE brontola S T IM O L O

MOGLIE brontola di più R IN F O R Z O

In pratica il marito crede di rispondere ad uno stimolo della moglie e non di esserne lui la causa prima, esattamente come la moglie riteneva di rispondere lei ad un suo stimolo! La loro punteggiatura della sequenza di eventi è differente in quanto in un sistema circolare qualsiasi inizio è impossibile e arbitrario. Ogni elemento della triade è simultaneamente stimolo, risposta e rinforzo. La punteggiatura, buona o cattiva che sia, organizza gli eventi comportamentali ed è quindi vitale per le interazioni in corso e per la definizione dei ruoli dei soggetti (quando diciamo leader e seguace è difficile dire quale dei due viene per primo e quale sarebbe la posizione dell'uno se non ci fosse l'altro).

Spesso, alla radice di innumerevoli conflitti di relazione vi è un disaccordo su come punteggiare le sequenze di eventi. Nel nostro esempio di prima, sia il marito che la moglie avevano la pretesa di ritenere che la sequenza avesse un principio (diverso per ognuno di loro) e su questa convinzione hanno costruito dei rispettivi modelli di interazione.


Come sintesi finale di questo paragrafo possiamo concludere che:

La natura di una relazione dipende dalla punteggiatura delle sequenze di comunicazione tra i comunicanti.

I due soggetti possiedono due Rappresentazioni Mentali diverse intorno al loro rapporto ed i loro comportamenti dipendono e confermano le loro convinzioni relazionali. Esempio: una persona che agisce in base alla premessa “mi sento incapace” o "non piaccio a nessuno”, si comporterà in modo sospettoso, difensivo o aggressivo ed è probabile che gli altri reagiscano con antipatia al suo comportamento, confermando la premessa da cui il soggetto è partito. E' del tutto inutile chiedersi perché una persona agisca con certe premesse o fino a che punto ne sia consapevole: ci si limita ad osservare che tale comportamento dell'individuo X mostra questo tipo di ripetitività (ridondanza) e che tale comportamento ha inoltre un effetto complementare sugli altri, costringendoli ad assumere certi atteggiamenti specifici. L'aspetto tipico della sequenza (che è poi ciò che lo rende un problema di punteggiatura) è che l'individuo in questione crede di "reagire" a quegli atteggiamenti e non di "provocarli". Sembra quasi, in casi come questi, che il contenuto del messaggio non abbia alcuna importanza ai fini della reciproca comprensione.

La comunicazione non verbale Quanto tempo ci mettiamo, ad un primo incontro, a decidere se una persona ci è simpatica o antipatica? Se siamo sinceri dobbiamo ammettere che, di solito, emettiamo il nostro verdetto nel giro di pochi secondi. Quanti di noi sono in grado di ricordarsi da subito il nome della persona che ci è stata appena presentata? Probabilmente pochi! Nei primi istanti di un rapporto siamo maggiormente occupati ad osservare altre cose; mentre stringiamo la mano al nostro nuovo interlocutore, i nostri sensi si attivano in ogni direzione: com'è sudata la sua mano! che buffa voce che ha! ha una macchia sulla camicia! come è vestito bene! ha i capelli sporchi!... e chissà quante altre cose di questo genere. Ecco perché ci è difficile ricordare il suo nome: «mi scusi, come aveva detto di chiamarsi?»


Tutti noi avremmo avuto modo di osservare il comportamento di due cani quando si incontrano. Cos'è che fanno? Si annusano, si studiano con sospetto e cautela ed in base a questa annusata decidono del proseguo della loro relazione: iniziano a giocare assieme, stabiliscono dei rapporti gerarchici, si ringhiano, si accoppiano... Dobbiamo dedurne che gli uomini sono come i cani? In un certo senso sì e forse non dovremmo vergognarcene: la nostra natura animale ed istintuale reclama legittimamente un suo spazio e in certi casi ci è di grande aiuto. Quello che ci differenzia dagli animali è la nostra capacità di andare al di là del momento percettivo. Quante volte ci è capitato di dover rivedere dei nostri giudizi sulle persone ad una conoscenza più approfondita? Dobbiamo ammettere che qualche volta i nostri sensi, le nostre percezioni ci ingannano o, meglio, svolgono un ruolo che è loro proprio: un primo sondaggio della realtà sulla scorta di dati meramente emotivi, niente di più. Qualsiasi approfondimento, qualsiasi dimensione di analisi viene rimandata ad un secondo momento dove la nostra mente è chiamata a svolgere compiti qualitativamente più complessi e imposta processi razionali di critica sui giudizi emotivi, di confronto, associazioni, memoria... E' anche vero che quel primo giudizio, quelle percezioni iniziali, non solo hanno pesato enormemente sull'impostazione della relazione, ma continuano ad influire anche nel proseguo del rapporto: la mente umana è fatta in modo tale da andare a cercare quasi sempre le conferme a quanto i nostri sensi hanno percepito! E' molto più faticoso il processo di revisione e/o disconferma di quelle sensazioni iniziali. Alcuni studiosi hanno appurato che nei primi minuti di conoscenza di una nuova persona noi "decidiamo" il 90% delle cose che la riguardano. E' ovvio che l'altra persona fa esattamente la stessa cosa nei nostri confronti! Nei primi istanti di un processo comunicazionale noi percepiamo dal nostro interlocutore il 55% dei messaggi provenienti dal linguaggio del corpo (postura, mimica facciale, gesti...); 30% dei messaggi provenienti dagli elementi prosodici (tono, ritmo, pause della voce); 15% dei messaggi provenienti dal linguaggio verbale.


Come si può notare la percentuale dell'impatto del contenuto sulla comunicazione (almeno nei primi momenti del rapporto) è assolutamente trascurabile. Questo può significare che, in comunicazione, esistono delle situazioni nelle quali la forma ha un potere di impatto assai superiore al contenuto. Stressando questo concetto possiamo affermare che: Come diciamo le cose è più importante delle cose che diciamo.

.............almeno nei primi istanti di una relazione. La comunicazione verbale (C.V.) serve a scambiare informazioni sugli oggetti e a trasmettere la conoscenza; ma nel settore della relazione la comunicazione non verbale (C.N.V.) ha un peso non trascurabile, anzi spesso determinante.

Ogni volta che la relazione è il problema centrale della comunicazione, la comunicazione verbale è pressoché priva di significato. Basta pensare ai nostri comportamenti comunicazionali quando corteggiamo il nostro partner, quando amiamo, quando rechiamo soccorso, quando si combatte, quando stabiliamo rapporti con bambini piccoli o persone in preda a forti emozioni... sono tutti comportamenti espressi con il corpo, i gesti, le espressioni del viso più che con la parola. La C.N.V. è una forma di comunicazione immediata; viene dal profondo, spesso è assolutamente inconscia e proprio per questo E' facile dichiarare qualcosa verbalmente ma è difficile sostenere una bugia con il linguaggio del corpo. D'altra parte di deve anche notare che la C.V. ha un grado di complessità e precisione maggiore della C.N.V. Sarebbe infatti impossibile la trasmissione di concetti astratti e complessi senza ricorrere al linguaggio verbale (o numerico), alla versatilità della parola; di contro, il linguaggio non verbale (o analogico) è assai più ambiguo e impreciso e assolutamente inadatto per la trasmissione di messaggi complessi (ci sono lacrime di dolore, di gioia, di rabbia; sorrisi di comprensione, di imbarazzo, di disprezzo...).


L'uomo ha la necessità di combinare il linguaggio verbale con il linguaggio non verbale (come trasmettitore e come ricevitore) e deve costantemente tradurre dall'uno all'altro.

UN MODELLO PER LA SINTONIA PPEEERRRCCCH H D O V R M M O S S R N R S S A A S A B R C O N G A R D R A Z O N P O S V HÉÉÉ D DO OV VR REEEM MM MO O EEES SS SEEER REEE IIIN NTTTEEER REEES SS SA ATTTIII A AS STTTA AB BIIILLLIIIR REEE C CO ON NG GLLLIII A ALLLTTTR RIII D DEEELLLLLLEEE R REEELLLA AZ ZIIIO ON NIII P PO OS SIIITTTIIIV VEEE?? E E C H E C O S A S I I N T E N D E P E R " R E L A Z I O N I P O S I T I V E " ? C H E C O S A S I I N T E N D E P E R R E L A Z I O N I P O S I T I V E CHE COSA SI INTENDE PER "RELAZIONI POSITIVE" ?

Cerchiamo, inizialmente, di rispondere a queste domande. Qualcuno potrebbe dirci che stabilire buoni rapporti con gli altri é, in assoluto, una cosa "giusta" e non potremmo dargli torto. Ma quand’è che una cosa è "giusta" ? Non é facile rispondere; non è mai facile rispondere quando si è costretti ad entrare nella sfera "etica" dei nostri comportamenti. Ognuno di noi possiede un proprio mondo di valori. La dimensione morale é fondamentale per ciascun essere umano ma é anche assolutamente soggettiva.

E allora ? Correndo il rischio di apparire cinici potremmo dire che stabilire dei rapporti positivi con gli altri, significa cercare di rendere, gli stessi rapporti, UTILI. Utili a che cosa ? In relazione a cosa ? Certamente utili all'obiettivo che intendiamo raggiungere. Il concetto di utilità è strettamente collegato al concetto di obiettivo, così come lo è il concetto di "efficacia". Possiamo ritenerci dei "comunicatori efficaci" non quando parliamo "bene" o diciamo cose "giuste", ma quando raggiungiamo il nostro obiettivo comunicazionale: cioè quando diremo e faremo cose utili per il raggiungimento dell'obiettivo. Allo stesso modo possiamo ritenerci dei "venditori efficaci" quando raggiungeremo gli obiettivi di vendita che ci eravamo prefissati e saremo dei


"gestori di uomini efficaci" quando faremo raggiungere ai nostri uomini i risultati che volevamo e così via... Quando ci sentiamo in "sintonia" con un'altra persona significa che sia noi che l'altro ci sentiamo bene e a nostro agio; significa darci reciprocamente maggiori possibilità di esserci "utili". Quando compriamo qualcosa, di solito, ci piace farlo con un consulente commerciale che ci sta simpatico, che ci ha messi a nostro agio consentendoci di spiegare bene ciò che desideravamo ! Ecco perché, stabilire la sintonia con gli altri diventa un passaggio obbligato e non delegabile nel cammino verso il nostro obiettivo: tutto diventa più facile e possibile Ciò è indispensabile che avvenga tanto tra consulente commerciale e cliente, quanto tra marito e moglie, tanto tra capo e collaboratori, quanto tra genitori e figli. Il modello che abbiamo chiamato R.I.P. (Relazioni Interpersonali Produttive) si fonda su ricerche e statistiche, condotte su campioni reali, molto serie ed approfondite, ma è pur sempre un modello e come tale non può essere sovrapposto meccanicamente alla realtà: è indispensabile elaborarlo ed inserirlo dentro la nostra esperienza di tutti i giorni. Perché per stabilire una sintonia con gli altri può esserci utile un modello ? Soprattutto perché può aiutarci a ritardare di una attimo il nostro giudizio emotivo sui comportamenti degli altri. Spieghiamoci meglio: molto spesso non riusciamo a raggiungere la sintonia con gli altri perché (quasi sempre inconsapevolmente) abbiamo degli altri una percezione negativa. Il loro modo di comportarsi, di parlare, di gesticolare, di presentarsi; le espressioni del viso, persino gli odori e mille altre micro/sensazioni, fanno sì che ci costruiamo immediatamente delle Rappresentazioni Mentali negative e, come sappiamo, ciò determina i nostri comportamenti. Questo processo automatico rischia di diventare una "trappola" per noi stessi. Infatti, se le R.M. che ci andiamo a costruire saranno negative i nostri


comportamenti (le nostre azioni) saranno conseguentemente negative (mentre il nostro Stile, cioè il "come" facciamo le cose, rimarrà pressoché costante). Ora, il nostro interlocutore percepirà a sua volta il nostro output negativo, cioè i nostri comportamenti negativi e reagirà di conseguenza alimentando così la "catena negativa". Ma esiste la possibilità di interrompere questa catena attraverso dei processi razionali; infatti e' proprio a livello di R.M. che si può intervenire per modificare il processo automatico. Un computer agisce come noi, tranne che nell'area del giudizio. Un computer non si forma idee personali sui dati che riceve e i suoi output sono "neutrali" e non condizionati. Per fortuna noi siamo comunque ben diversi da un computer; possediamo risorse infinitamente superiori anche al più sofisticato software ovvero: la capacità di combinare i dati attraverso modalità analogiche e creative (associazioni, salti logici, pensiero laterale). Ciò non toglie che si debba prioritariamente rinunciare ad innestare processi razionali nel nostro schema di approccio alla realtà. Se, per esempio, riuscissimo a ritardare i nostri giudizi sulle situazioni e sulle persone? Se provassimo ad allargare ed arricchire le nostre Rappresentazioni Mentali? Lo schema potrebbe essere cosi modificato. A questo può servirci il modello RIP. Ci supporta nel leggere il comportamento degli altri, in termini un po’ meno emotivi così da riuscire ad individuare con precisione lo Stile Sociale dei nostri interlocutori. Lo stile Sociale non è altro che l'area di agio all'interno della quale ci sentiamo tranquilli e comodi. Se riusciamo ad individuare lo Stile Sociale (leggere il comportamento) di una persona possiamo comprendere ciò che la mette a proprio agio e ciò che invece gli crea problemi: capire lo Stile Sociale di un altro significa trovare con lui la SINTONIA. Gli studiosi sono pressoché unanimemente d'accordo nell'isolare due dimensioni principali nel comportamento:


A

comportamenti messi in atto dal soggetto (consapevole o inconsapevole) per influenzare gli altri (RAPPORTO CON GLI ALTRI)

B

comportamenti messi in atto dal soggetto (consapevole o inconsapevole) per gestire le proprie emozioni/sentimenti (RAPPORTO CON SE STESSI).

Se collochiamo su un asse orizzontale la prima dimensione (RAPPORTO CON GLI ALTRI) avremo:

?

! interrogatività

affermatività

Nell’estremità di sinistra i comportamenti di quelle persone che nel rapporto con gli altri vengono percepite come scarsamente motivate ad "influenzare": sono infatti interlocutorie, interrogative, non si impongono volentieri, tendenzialmente calme, lente, riflessive. All'altro estremo abbiamo invece le persone che vengono percepite come altamente motivate ad "influenzare" gli altri e lo fanno con forza e determinazione, affermando piuttosto che interrogando, con rapidità, energia e forte sintesi. In realtà nessun essere umano è totalmente disinteressato ad "influire" nel rapporto con gli altri: siamo solo di fronte a due modi diversi di farlo, a due modalità comportamentali differenti; da una parte il massimo di interrogatività, dall'altra il massimo di affermatività (in mezzo le diverse gradazioni). Possiamo essere, caratterialmente parlando, persone molto orgogliose e sicure di noi stessi, persone a cui non piace aver torto e, nonostante ciò, potremmo avere modalità comportamentali interrogative ed interlocutorie (è valido, ovviamente, anche l'esempio contrario). E' importante sottolineare che quando si parla di COMPORTAMENTO si intende qualcosa di assai diverso dai concetti di CARATTERE o di PERSONALITÀ.


L'area di indagine del RIP è la dimensione più esterna dell'uomo: quella visibile ed osservabile a prescindere dalle cause interne. Se collochiamo su un asse verticale la seconda dimensione (RAPPORTO CON SE STESSI) avremo: interne (non mostrano, controllate)

esterne (mostrano) all'estremo in alto le persone che vengono percepite come estremamente controllate e poco espressive: la loro postura è rigida, gesticolano poco, le espressioni facciali non mutano spesso. Dall'altra parte abbiamo persone che vengono percepite come più aperte ed espressive. Non si tratta, ancora una volta, di esprimere valutazioni caratteriali (introversi ed estroversi, timidi e disinibiti ...), ma piuttosto di individuare due diverse TENDENZE COMPORTAMENTALI (con particolare riferimento al "linguaggio del corpo" e agli elementi "prosodici" della comunicazione), l'una più orientata al controllo delle proprie emozioni/sentimenti; l'altra più orientata all'apertura e all’espressività (spesso le due tendenze sono assolutamente inconsapevoli). Se incrociamo i due assi, formiamo una matrice comportamentale con quattro tipologie di base, persone percepite come:

interne/interrogative ANALITYCAL

AMIABLE esterne/interrogative

interne/affermative DRIVER

EXPRESSIVE esterne/affermative


Da questa prima divisione in 4 aree si può approfondire l'analisi comportamentale giungendo ad individuare fino a 16 quadranti (4 quadranti e 12 sottoquadranti) Durante la nostra vita siamo in grado di mutare spesso i nostri comportamenti a seconda delle situazioni, della nostra maturità e delle Rappresentazioni Mentali che volta per volta ci costruiamo. Alle volte riusciamo anche a smussare alcuni lati del nostro carattere: ciò che invece si ritiene scarsamente modificabile sono proprio le nostre MODALITÀ COMPORTAMENTALI o, come sempre più spesso viene chiamato, il nostro STILE SOCIALE. Lo Stile Sociale, quindi, diventa una specie di "impronta digitale" attraverso la quale siamo riconosciuti dagli altri anche se poi chi ci osserva avrà una percezione soggettiva (e reazioni emotive conseguenti) del nostro Stile. Come già detto, dagli Stili Sociali, possiamo comprendere ciò che i nostri interlocutori gradiscono o non gradiscono (la loro area di agio) e quindi, avere la possibilità di andare loro incontro. Andare incontro ad uno Stile Sociale di un'altra persona non significa rinunciare al proprio modo di comportarsi, alle proprie modalità comunicative: si tratta solo di abituarsi a compiere dei "movimenti" più o meno marcati sugli assi della matrice. Se, per andare incontro agli altri finissimo per uscire fuori dalla nostra area di comodo, prima o poi dovremmo fare i conti con un pericoloso accumulo di tensione e di stress. Lo stress, a sua volta ci porterebbe ad assumere comportamenti inaccettabili da un punto di vista sociale. Questa capacità di movimento sugli assi si chiama VERSATILITÀ' La versatilità non è una dote innata, ma una capacità situazionale (che varia cioè da situazione a situazione, da giornata a giornata) e che possiamo sempre migliorare nel corso della nostra vita. Non esiste uno Stile Sociale più buono di un altro: tutti hanno i loro punti di forza e di debolezza. La matrice del RIP valuta lo Stile Sociale, descrive solo il comportamento, mai l'intelligenza, la capacità o l'esperienza.


Proponiamo di seguito un piccolo specchietto riassuntivo delle dimensioni comportamentali tipiche dei 4 Stili Sociali.

ANALITYCAL PRIORITÀ’: essere preciso, avere un metodo logico metodico serio preciso maniacale riflessivo

pignolo lento rigido indeciso

DRIVER PRIORITÀ’: prendere iniziative risoluto decisionista schietto rude controllato freddo rapido secco indipendente individualista

basa le proprie azioni basa le proprie azioni su sui dettagli, prove e dati obiettivi immediati e risultati (analisi logico(sintesi logica) scientifica) AMIABLE

EXPRESSIVE

PRIORITÀ’: essere accettato e accettare

PRIORITÀ’: essere riconosciuto

amichevole consigliere influenzabile disponibile remissivo prudente pauroso graduale pedante

loquace manipolatore estroverso caotico improvvisatore dispersivo intuitivo approssimativo entusiasta invadente

debole

basa le proprie azioni sul rapporto personale (analisi valutativa)

basa le proprie azioni su fantasie, intuizioni, entusiasmo (sintesi analogica)


Possiamo individuare gli Stili Sociali di una persona tramite l'osservazione diretta delle sue modalità comunicative evitando di esprimere giudizi immediati. Non é un'operazione semplice. La nostra abitudine ad etichettare subito i comportamenti degli altri a seconda del nostro istintivo senso di gradimento o non gradimento è molto radicata. E' necessario "allenarsi" realmente all'osservazione neutrale del comportamento.

LA SCOPERTA DEI BISOGNI Nella vendita dei servizi è presente una fase definita la fase di scoperta, in cui si deve indagare su quelle che sono le motivazioni, le esigenze e le aree di sensibilità del cliente. Questa fase sembra spesso scontata, in realtà non è così. Infatti il colloquio di vendita è la fase più importante di ogni visita perché a questo livello si definiscono i presupposti dell’analisi dei bisogni e delle aree di sensibilità del cliente. Il colloquio risponde ad un’esigenza esplorativa del consulente commerciale che ha come strumento a disposizione delle tecniche, che in particolare gli consentono di rendere il colloquio di vendita espressione di un dialogo. La fase di scoperta è strutturata in tre parti: avviso, intervista e accordo, che analizzeremo in modo dettagliato. Avviso: Le persone spesso assumono atteggiamenti di diffidenza e di chiusura di fronte alle domande che vengono loro poste. Tutto ciò nella fase di colloquio di vendita può complicare la relazione cliente-consulente commerciale. Proprio per questo diventa fondamentale avvisare l’interlocutore che gli verranno poste delle domande, che serviranno a scoprire meglio le sue esigenze e a fornirgli un servizio personalizzato. Un esempio potrebbe essere: “Se per lei va bene, vorrei farle alcune domande per capire meglio quale potrebbe essere il servizio più adatto a lei”. Intervista: Le domande iniziali cercano di identificare un’esigenza del cliente di tipo abbastanza generale e procedono poi sempre più verso aspetti specifici, personalizzando così l’azione di scoperta.


E’ importante ricordare, quindi, che nel corso di un colloquio la forma e il contenuto delle domande possono contribuire ad influenzare il clima della relazione interpersonale. Ma prima di entrare nel merito della conduzione dell’intervista è utile capire bene l’utilizzo della tecnica delle domande, che costituisce lo strumento cardine per sondare aree di sensibilità e bisogni. Un'attenzione particolare deve essere rivolta alla forma delle stesse; infatti, la forma delle domande può essere di vari tipi: domande aperte, domande chiuse, domande motivate, domande spalancate e domande di verifica. Vedremo ora nel dettaglio la loro costruzione e l'effetto che producono. Le domande aperte ammettono molteplici possibilità di risposta, sono in grado di ampliare il colloquio e aiutano il consulente commerciale a definire il percorso logico che dovrà seguire durante l’intera intervista. La caratteristica del costrutto di questa domanda è che inizia con: come, cosa, quando, perché. Un esempio tipico può essere: “Come giudicherebbe la qualità dei nostri servizi?”. Risposta:"abbastanza buona, anche se sarebbe opportuno bla ….bla …". Le domande chiuse, invece, sono formulate in modo tale che il cliente abbia soltanto una possibilità di risposta, tipicamente si o no. Possono essere usate per rivolgersi a clienti diffidenti, introversi, restii ad aprirsi al colloquio. La caratteristica del loro costrutto è che iniziano con un verbo. Un esempio potrebbe essere: “Le capita spesso di viaggiare in treno?”. Risposta: "Sì/No". La terza tipologia è costituita dalle domande motivate; si chiamano così perché anticipano nel loro costrutto il motivo della domanda stessa. Per questo sono considerate facilitatrici del dialogo in quanto indirizzano la risposta e sgombrano il campo da possibili diffidenze. Un esempio è: "Credo di non aver capito bene quello che ha detto, potrebbe ripetere per favore?". Un quarto tipo sono le domande spalancate, che servono ad ottenere ulteriori notizie in più a quelle che già si possiedono. Un esempio è: “C'è dell'altro?”. Un'ultima tipologia è costituita dalle domande di verifica, che vengono utilizzate per riepilogare e verificare la correttezza delle informazioni acquisite. Un esempio è: "Quindi, se ho ben capito, le sue esigenze sono…". Le domande, dunque, servono per orientarsi nel colloquio, ma anche per permetterci di conoscere l'altro. Quest'ultima asserzione ci fa comprendere come ascoltare sia fondamentale. Spesso pensiamo che esista una sola modalità di ascolto, mentre, anche senza accorgercene possiamo attuare tre tipologie di ascolto, ossia l'ascolto passivo, selettivo e attivo.


L'ascolto passivo è una forma di "non ascolto", che si verifica ogni qual volta ci troviamo a non prestare attenzione a ciò che l'interlocutore ci sta comunicando. L'ascolto selettivo quando, pur non interrompendo l'interlocutore, concentriamo la nostra attenzione soltanto su alcune notizie da lui fornite e di nostro interesse. Infine, l'ascolto attivo è una sospensione momentanea del giudizio sui contenuti che ci sta trasmettendo l'altro al fine di recepire al meglio tutte le informazioni. Risulta estremamente efficace nei processi comunicativi, come ad esempio la vendita, all'interno dei quali abbiamo bisogno di orientare e guidare l'interlocutore verso risposte che ci diano ulteriori informazioni sui bisogni, le esigenze, le aree di sensibilità e la tipologia del cliente stesso. Accordo Nella fase di accordo si effettua una verifica di quelle che sono le esigenze e le aree di sensibilità del cliente, utilizzando domande di verifica del tipo " Allora da quello che ho capito Lei ha bisogno di…è vero?". LE AREE DI INDAGINE E LE AREE DI SENSIBILITÀ DEL CLIENTE Come abbiamo appena detto, le domande hanno una loro forma che indirizza l'intervista di vendita su vari versanti, come sappiamo però oltre la forma esiste un contenuto ed è proprio su questo che fermiamo la nostra attenzione. Il contenuto, ovvero ciò che si dice, influenza a sua volta la risposta e dunque il proseguo del dialogo di vendita. Pertanto, anche il contenuto delle domande deve seguire delle regole ben precise. Appare chiaro che nella fase di scoperta sono i bisogni e le aree di sensibilità del cliente che debbono essere indagati e i bisogni da fare emergere sono quelli che si collegano ai prodotti/servizi che si è è in grado di collocare. I servizi, infatti possono soddisfare diverse esigenze. Esistono viaggiatori attenti agli aspetti "economici", altri maggiormente sensibili al comfort del viaggio o a status del loro ruolo, altri ancora interessati alla velocità del trasferimento o alla certezza degli orari di partenza e arrivo. Così come esistono agenzie più propense a proporre ai propri clienti/target pacchetti rigidi e chiusi ed altre che preferiscono lasciare libertà di decisione e proporre soluzioni più aperte e meno vincolanti ….. insomma, la nostra intervista di vendita deve tenere presenti tutti questi elementi e svilupparsi su aree di indagine:


l’area DECISIONALE, che cerca di comprendere chi può definire accordi l'area di ATTUALITA', che cerca di comprendere quale il mercato a del cliente L'area di SVILUPPO, che mette in evidenza quali le azioni future del cliente Come potete osservare, queste aree sono fondamentali per ottenere notizie preziose e per poter selezionare e presentare nel modo ottimale i vantaggi di un prodotto. Ma ci siamo mai domandati quali sono i motivi che spingono un cliente ad acquistare un servizio piuttosto che un altro? E' importante porsi questo quesito perché dietro ad ogni acquisto esiste un livello razionale ed un livello emotivo e queste due dimensioni sono strettamente correlate e quasi non distinguibili. I clienti di qualsiasi mercato hanno comunque un denominatore comune: non acquistano solo per ragioni razionali. Dietro ogni scelta di acquisto si muovono anche dei vissuti dei vissuti non espressi. La vendita, quindi, è anche capacità di cogliere questo sommerso e questi desideri. Questi "voglio" interni non sono quasi mai palesi; è difficile, infatti, che un cliente venga da noi dicendo: "Vorrei questa servizio perché mi fa apparire prestigioso agli occhi degli altri". Capiterà più facilmente che egli abbia trasformato i suoi voglio razionalizzandoli in espressioni più adatte al linguaggio di un adulto. Ma allora, da dove nascono tutti questi voglio, che influiscono in maniera così rilevante sui comportamenti d'acquisto? Sono espressioni di un "linguaggio infantile", proprio del mondo del bambino. Vi siete mai soffermati ad ascoltare le espressioni più ricorrenti in un dialogo tra un bambino ed un adulto? Il bambino dice spesso: "Lo voglio anch'io!"; "Il mio è più bello del tuo", ecc… Queste sono solo alcune delle espressioni che appartengono al mondo interno del bambino.


I principi che regolano il modo di sentirsi e di esprimersi: il principio di piacere si riferisce al fatto che il bambino desidera una cosa e non si cura di possibili problemi o ritardi legati al raggiungimento di quello che vuole. Una frase tipica di questo principio è " Lo voglio subito...". Il principio di vanità si riferisce al piacere che prova il bambino nel mostrare il suo modo di essere, di apparire, facendo continui paragoni con il modo di essere degli altri. Una frase tipica è "il mio è più bello del tuo". Il principio di abbandono si esprime quando il bambino ha la sensazione di essere abbandonato e manifesta il suo disagio attraverso il pianto," non voglio rimanere da solo ". Il principio di imitazione si manifesta nel momento in cui il bambino desidera qualcosa che appartiene ad altri. Una frase tipica è "Lo voglio anch'io". Il principio di ricerca del colpevole si manifesta ogni volta che il bambino tenta di attribuire colpe ad altri. Una frase che esprime questo principio può essere " E' colpa sua". Il principio di semplicità si esprime tutte le volte in cui il bambino prova a semplificare tutto ciò che percepisce come complesso. Un esempio è quello del bambino che smonta i giocattoli per comprendere meglio il loro funzionamento, " voglio capire e lo voglio gestire ". Il principio di accumulo è l'espressione del desiderio di conservazione. Il bambino, infatti, accumula le cose che ritiene importanti e che lo interessano (pezzi di carta, parti di giocattoli, ecc…), " piu' cose mi rimangono più mi sento tranquillo ". Questi principi che sono tipici dell'infanzia vengono razionalizzati nell'età adulta assumendo forme diverse più coerenti con l'età stessa.


L'evoluzione dei principi nel processo d'acquisto Le aree di sensibilità Vediamo quindi come tali principi si trasformano in aree di sensibilità e come a ciascuna di queste corrisponda una particolare tipologia di cliente. Il principio di piacere si evolve nell'area di sensibilità definita Efficienza-Rapidità. La tipologia di cliente che presenta quest’area di sensibilità è più interessata ad un servizio rapido, efficiente, efficace (che raggiunga i risultati attesi). Il principio di vanità e quello di imitazione si trasformano nell'area di sensibilità Immagine-Estetica. A questa appartiene una tipologia di cliente molto interessata all’esclusività dei prodotti offerti. Il principio di abbandono e quello di ricerca del colpevole evolvono verso un'area di sensibilità definita Sicurezza. A quest'area appartengono tutti quei clienti che non amano il rischio e che vogliono garanzie. Il principio di semplicità diventa Praticità-Comodità. Il cliente tipo è quello che cerca chiarezza e linearità. Il principio di accumulo si trasforma nell'area di sensibilità definita in Redditività-Costi/Benefici. Il cliente sensibile in quest’area è maggiormente interessato al risparmio e al guadagno. Tutto questo ci serve per affermare che dietro ad ogni acquisto c'è un bisogno da soddisfare e che le scelte che vengono fatte sono influenzate dal modo di essere.


SELEZIONARE E PRESENTARE IL PRODOTTO/SERVIZIO

LA VENDITA DEI BENEFICI

Questa è la fase più importante del colloquio perché è il momento in cui il consulente commerciale, avendo compreso esigenze e aree di sensibilità del cliente, deve effettuare la vendita dei benefici. Infatti, un beneficio diventerà tale agli occhi del cliente quando sarà strettamente collegato dal venditore alla sua area di sensibilità prioritaria. Infatti orientarsi al cliente significa anche questo: dare delle risposte precise al cliente, vendendogli non i nostri prodotti-servizi, ma i benefici che i nostri prodotti-servizi rappresentano per lui. Un esempio potrebbe essere:  nel presentare un servizio o un pacchetto-servizio viaggi ad un cliente appartenente alla tipologia Area di sensibilità Sicurezza, sarà utile individuare le caratteristiche del servizio stesso che corrispondono, in termini di vantaggio, alla sicurezza e vendere come beneficio il fatto che, ad esempio, in caso di smarrimento bagagli chi acquista quel servizio potrà usufruire di una polizza assicurativa… Pertanto, il consulente commerciale deve conoscere bene la gamma dei prodotti/servizi e deve essere abile nel selezionare tra questi, quelli che possono soddisfare le esigenze del cliente. Avendo poi, individuato l’area di sensibilità e lo stile del cliente, potrà argomentare la vendita personalizzandola e collegare, così, i vantaggi alle aree di sensibilità e vendere i benefici. Ci può essere utile, a questo punto una sintesi di quello che bisogna tenere in considerazione in ogni fase di scoperta: Sapere cosa vuole il cliente (quali sono i suoi bisogni o quelli della sua clientela)

Sapere cosa cerca, in realtà, il cliente da questo prodotto/servizio (i vantaggi)

Sapere quali sono le motivazioni di acquisto di questo cliente? (le aree di sensibilità).


LA CONCLUSIONE

la gestione delle obiezioni Spesso si tende a trascurare la conclusione della vendita, che è invece uno dei momenti più importanti, perché è anche da questo che si determina il buon esito della relazione commerciale. In questo momento il cliente pone ancora qualche resistenza, esprimendo delle obiezioni, che possono essere reali, ossia dettate da un bisogno di maggiori chiarimenti prima di orientarsi verso l'acquisto. Questo potrebbe derivare dal fatto che il consulente potrebbe non aver dato ulteriori e definitive rassicurazioni sul passo che il cliente sta per compiere e su ciò che seguirà all'acquisto (assistenza post-vendita). Un'espressione tipica è "Questo aspetto che lei mi propone forse non è adatto alle mie esigenze…". Le obiezioni, invece, possono essere anche emotive e costituiscono uno strumento attraverso il quale il cliente trasmette al consulente commerciale una sua perplessità. Il motivo di questa resistenza trova spiegazione nell'insicurezza di dover prendere una decisione in un periodo relativamente breve, assumendosene completamente la responsabilità. Il cliente esprime la sua necessità di essere rassicurato sia in maniera implicita che esplicita con l’atteggiamento, con domande o con obiezioni apparenti. Forse questa sua necessità deriva dal fatto che il consulente potrebbe aver generato una sensazione di diffidenza, che lo porta a prendere tempo. Un'espressione tipo potrebbe essere: "Ecco, vorrei pensarci meglio", Il consulente commerciale spesso presta poca attenzione a questo momento, poiché ha fretta di concludere la trattativa. Capita che dica: “Allora che ne pensa? Cosa intende fare? Possiamo concludere?”. Frasi come queste possono suscitare dubbi, perché lasciano intendere che una certa esitazione si è impadronita del consulente commerciale, il quale, per timore di una risposta negativa rinuncia ad aiutare il cliente nella decisione da prendere ed esercita su di lui una certa pressione, spingendolo verso la conclusione della trattativa. Invece, nel momento della decisione lo stato d’animo del cliente è piuttosto instabile e può trasformarsi in un atteggiamento di chiusura.


Proprio perché esiste questo meccanismo di chiusura a tutto ciò che è nuovo, così come lo sono le informazioni che da il consulente commerciale, è bene: comprendere il vero motivo dell’obiezione (reali o emotive); rispondere al cliente con tecniche opportune che recuperino il suo interesse. Il consulente commerciale deve adeguarsi ai diversi stati d’animo del cliente infondendogli fiducia ed interesse. Per riportare il cliente al suo tono normale e per ripristinare una relazione collaborativa, il consulente commerciale dovrebbe attenersi ad alcuni principi. Vediamo insieme una tecnica che ci può essere di grande aiuto a gestire le obiezioni dei clienti: la tecnica ARCEA, che si struttura in 5 azioni, ossia Ascoltare- Riconoscere- Chiarire- Esporre- Attivare L’assunto sul quale si basa è quello di individuare le motivazioni dell’obiezione cercando di mostrare strade alternative e integrative rispetto alle divergenze di opinione. Per far questo bisogna:

Ascoltare

per capire la motivazione insoddisfatta che ha fatto sorgere

l’obiezione.

Riconoscere

la legittimità della sua opinione dal punto di vista emotivo, senza essere necessariamente d’accordo.

Chiarire, cioè cercare i punti in comune con il nostro punto di vista, allargando dove possibile la rappresentazione mentale del cliente.

Esporre

i vantaggi che questo mutamento di ottica potrebbe comportare per

lui.

Attivare, cioè passare a fatti concreti.


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