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Corpinnat, sfida alla DO Cava

Kettmeir, i primi cento anni della Cantina di Caldaro che ha salvato i Suedtiroler Sekt

«U n enologo non deve cercare strade facili, ma deve cercare le migliori soluzioni, nuove strade senza avere paura, col solo limite di rispettare il frutto, trovando l’equilibrio perfetto fra vitigno, suolo e clima». Se mai si cercasse una interpretazione autentica del “progresso in traditione” che campeggia sul logo di Kettmeir, non ci si potrebbe basare che sulle parole di Josef Romen, enologo capo della cantina di Caldaro. Dal 1984 nel Gruppo Santa Margherita, Kettmeir ha festeggiato il suo primo secolo di vita con una nuova consapevolezza, una maturità piena, senza fronzoli, forte del ruolo che la cantina sta assumendo sempre di più: la punta di lancia della produzione spumantistica dell’Alto Adige (una bollicina su tre targata Sud Tirolo esce da queste “cave” ). Soprattutto, forte del costante flusso di investimenti che il polo veneto (la realtà che più ha investito in Italia negli ultimi anni: 242 milioni di euro in poco più di un decennio) sta garantendo da diversi anni a questa parte. Basta dare un’occhiata all’interno dello stabilimento che domina l’abitato di Caldaro – mantenuto rigorosamente nella sua architettura originaria in pieno stile atesino senza cedere alle lusinghe di un’architettura da star – per vedere quanto è cambiata la struttura. In termini di tecnologie, in termini di spazi recuperati (anche quelli riservati ai winelover), di estremo rigore nelle linee interne e in termini di sostenibilità. Davanti alla necessità di ampliare gli spazi per poter contare su una massa di produzione di metodo classico che proietti ancor più Kettmeir sui mercati, la scelta è stata quella di sfruttare in maniera ottimale l’esistente e di scegliere il geotermico come fonte di energia per stabilizzare la temperatura interna grazie a dodici sonde geotermiche a 100 metri di profondità. «Una diffusione gentile del freddo attraverso le pareti interne di calcestruzzo che azzera gli sbalzi termici nel corso dell’anno» per dirla con Romen che si coccola Futuro nel Metodo classico e nella valorizzazione del territorio

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con lo sguardo le sue cataste allineate. Vuol dire abbattere le emissioni di gas serra in atmosfera, abbattere i consumi di energia da carbon fossile ed una realtà ottimale per la maturazione dei Metodo classico: oggi, sulla produzione totale di Kettmeir di 420mila bottiglie, le bollicine rappresentano poco meno del 20% della produzione (circa 85mila bottiglie) che però debbono poter raddoppiare a breve grazie allo sviluppo dei due “base” “Athesis Brut” e “2Athesis Rosè”, alla crescita della “Riserva 1919” ed al prossimo debutto del “Pas dosè” che conosceremo nel prossimo novembre. Fondata nel 1919 da Giuseppe Kettmeir, commerciante di vino a Vienna da prima della Grande Guerra, la cantina di Caldaro nella sua storia ha raggiunto più di un traguardo: la prima nel difficile dopoguerra a puntare ai mercati internazionali aprendo, ad esempio, il mercato svizzero; la prima, nel secondo dopoguerra, a comprendere che l’Italia sarebbe potuta diventare il primo mercato per i vini altoatesini mettendo da parte le divisioni della Storia; la prima a ripensare alla tradizione del suedtiroler Sekt andato in abbandono dopo la cesura delle due guerre mondiali proponendo alla fiera del vino di Bolzano del 1965 il primo spumante altoatesino (uno charmat lungo con base Pinot bianco); la prima a scegliere la strada della stretta cooperazione coi propri conferitori legati da un patto che scavalca le generazioni che ha aggiornato le tecniche colturali, ha garantito la svolta qualitativa, ha avviato un percorso di sostenibilità ambientale e soprattutto sociale, permettendo di preservare gli eroici vigneti di montagna. Due vini per raccontare in un altro modo questa storia: il “Pinot bianco Athesis 2018” e il “Mueller Thurgau Athesis 2012”. Sempre con le parole di Josef Romen, il «Pinot bianco è per me il vero vitigno principe dell’Alto Adige. Lo è per carattere: è proprio un sud-tirolese, dove lo metti, lui sta. Non cambia, resta quello che è, esce sempre con le sue caratteristiche e le sue qualità. Ci

sono appena 5 ettari in Alto Adige che rappresentano l’ambiente ideale – clima e suolo – per questo vitigno; ebbene di questi, 1,5 ettari li abbiamo noi. E siamo la cantina con la superficie maggiore a disposizione». L’eden di questo Pinot bianco è adagiato sulle alture di Castelvecchio a 600 metri sul livello del mare, su un terreno fatto di argilla, calcare ed una parte di porfido che garantisce intensità aromatica. Affinato totalmente in legno, questo Pinot bianco stupisce per profumi dove le note tropicali, di frutta matura, di spezie orientali danno letteralmente alla testa. Quanto al Mueller Thurgau «Lo si considera un vino facile, da aperitivo, da bere giovane perché incapace di reggere l’invecchiamento. Ebbene, chi lo dice sbaglia. Perché si accontenta delle uve che trova, non va alla ricerca della soluzione più difficile. Per me, il Mueller Thurgau che vale sta sull’altopiano di Renon, sopra Bolzano, a 750 metri sul livello del mare, un terreno povero che costringe la vite a cercare nella profondità del suolo il poco di umidità e di acqua che c’è. Un vitigno difficile da comprendere, che ti lascia una finestra di appena cinque giorni in ogni vendemmia per arrivare al frutto migliore. Ma se lo curi con attenzione, questo vitigno ti garantisce risultati eccezionali». Come saper invecchiare sei anni ed essere ancora forte e vitale come un ragazzino. «Kettmeir ha fatto la storia del vino dell’Alto Adige – sottolinea Gaetano Marzotto, presidente del Gruppo Santa Margherita - : ha aperto nuovi mercati; ha imposto un modello imprenditoriale; ha scelto con decisione, e in tempi non sospetti, la via della sostenibilità economica e sociale; ha riscoperto e fatto riscoprire la tradizione spumantistica di questa regione. Ha fatto molto, e molto farà ancora nei prossimi anni. Lo farà qui, a Caldaro, che resta il cuore e l’anima di questo grande progetto».

A Orvieto la 12.ma edizione del Challenge internazionale Euposia riservato a Champagne e spumanti Metodo classico

L’Italia cerca ulteriori conferme dopo i successi del passato. Premiati anche i migliori autoctoni e biologici

Si terrà ad Orvieto – dal 14 al 17 novembre prossimi – la dodicesima edizione del Challenge Internazionale Euposia, riservato ai vini spumanti Metodo classico, ovvero ottenuti attraverso la rifermentazione in bottiglia, ed agli Champagne. Grazie alla collaborazione col Consorzio Tutela Vini Orvieto Doc, presieduto da Vincenzo Cecci, il Challenge Euposia lascia per la prima volta la sua sede storica a Verona dove è stato lanciato nel 2007. A presiedere la Giuria – un pool di enologi e gior

nalisti provenienti da tutto il mondo – sarà, come in altre edizioni, il presidente degli enologi mondiali ed Italiani, Riccardo Cotarella. La Giuria degusterà alla cieca tutti i vini in concorso: si attendono oltre 200 campioni fra Champagne e Metodo classico provenienti da Spagna, Regno Unito, resto d’Europa, Americhe, Asia ed Oceania, Sud Africa, più Metodo classico provenienti da tutt’Italia, dalle regioni alpine alla Sicilia. Fuori Challenge, in una masterclass riservata, il panel dei Giurati degusterà anche gli Orvieto spumanti

Metodo Martinotti (ovvero vini spumanti ottenuti attraverso la rifermentazione in autoclave). Verranno degustati e sottoposti a giudizio organolettico gli Orvieto Classico 2018 dei soci del Consorzio che aderiranno all’iniziativa. Verranno altresì degustati i vini oggetto di sperimentazione del Consorzio derivati dalla vinificazione del Trebbiano T34 derivante da 4 territori del comprensorio orvietano diversi per composizione chimica-fisica dei suoli. A presiedere questa nuova degustazione del Challenge sarà l’enologo Roberto Cipresso. Un’ occasione per il Consorzio Tutela Vini Doc di Orvieto che ha così voluto ulteriormente qualificare la decisione di ospitare il Challenge Internazionale Euposia, cogliendo l’opportunità di valorizzare le proprie produzioni di qualità. Il Challenge internazionale Euposia – avviato dalla rivista Euposia oggi “The Italian Wine Journal” - ha ottenuto in questi anni numerosi primati: è stato il primo a scoprire ed a proporre all’attenzione della critica internazionale i Metodo classico del Regno Unito (oggi uno dei capitoli vincenti dell’enologia mondiale grazie ad uno sviluppo inarrestabile ed allo sbarco delle grandi maison dello Champagne oltre Manica), quelli dell’Asia (India, Giappone e Cina) e delle Americhe: dall’Oregon sino alla Patagonia. Per l’Italia, il Challenge ha contribuito a lanciare produttori e denominazioni di alta qualità, ma di produzioni contenute, nonché ad affermare la validità delle più blasonate produzioni italiane (Trentodoc, Franciacorta, Alto Adige, Alta Langa ecc) nei confronti degli Champagne e delle maggiori, per volumi, produzioni internazionali. Un Challenge che è diventato una vera e propria case-history dando vita ad un nuovo “filone” di concorsi ed eventi sugli spumanti. Il Challenge assegna il titolo di Campione del mondo per i vini Metodo classico bianchi e rosé, per quelli biologici e quelli realizzati con vitigni autoctoni, nel

le versioni brut, extra-brut e pas dosé. L’Albo d’Oro del Challenge vede l’Italia con 16 titoli mondiali, seguita dalla Francia con 7, dal Regno Unito con 5, dall’Austria con 2. Chiudono la classifica Germania, Spagna e Sud Africa con un titolo mondiale ciascuna. Vengono assegnati anche Premi nazionali e Regionali. «Una manifestazione che ha il pregio di essere aperta al mondo, con pochissimi costi per le aziende, un’esperienza italiana d’eccellenza, che si svolge in forma indipendente non poteva non incontrare l’interesse del nostro territorio, da sempre terra di relazione. L’opportunità di ospitare esponenti prestigiosi tra giornalisti e degustatori rappresenta per noi un volano importante nell’ambito della nuova strategia di comunicazione del nostro Consorzio che ha nell’internazionalizzazione un elemento portante. Al contempo, questa collaborazione rappresenta anche uno sforzo congiunto di tutti gli operatori collegati che hanno come denominatore comune il rilancio di un territorio magico e bellissimo, da visitare. Il vino diventa così fulcro per il rilancio non solo della Denominazione. Si tratta di una sinergia tra enti ed istituzioni pubbliche di alto spessore culturale. Il Consorzio, sempre di più, guarda al futuro del nostro vino come risorsa per l’intera economia di Orvieto» sottolinea Riccardo Cotarella. «Siamo onorati di venir accolti ad Orvieto, una terra con una tradizione millenaria nella coltivazione del vino, nel cuore dell’Italia, e di portare all’attenzione dei winelover e dei professionisti dell’Umbria il meglio della produzione spumantistica mondiale e di contribuire, al contempo, la diffusione della conoscenza delle eccellenze vinicole di questa terra» sottolinea Severino Barzan, del Grand Jury Européen, uno dei fondatori del Challenge internazionale Euposia con Carlo Rossi, Luigi Bortolotti e Beppe Giuliano.

Cava: 1,14 miliardi € per le bollicine catalane che si salvano con l’export. Mercato iberico a meno 12%.

Cava, produttori divisi: arriva lo sboom?

1,14 miliardi € come fatturato della denominazione, in sostanziale tenuta rispetto al 2017 (meno 0.2%); 244 milioni di bottiglie vendute (meno 3.2%); tenuta dell’export a 165 milioni di bottiglie (più 1.8%); crollo del mercato interno (meno 12.1%) sceso a 79 milioni di bottiglie vendute nel 2017 contro i 90 milioni del 2017: sono finalmente usciti i dati del report 2018 della DO Cava, particolarmente attesi per conoscere l’impatto della crisi politica in Catalogna e quanto questa può aver influito sulle bollicine catalane, una delle grandi portabandiera della produzione vinicola spagnola. Partiamo dai dati “fondiari”: la superficie vitata è leggermente cresciuta avvicinandosi ai 38mila ettari coltivati; le tre uve autoctone macabeu, xarel-lo e pa-

rellada rappresentano la stragrande maggioranza degli impianti lasciando allo chardonnay appena 3mila ettari (l’8% del totale) ed al pinot noir 873. La produzione complessiva è stata di quasi 326 milioni di kg d’uva che hanno generato, appunto, 244 milioni di bottiglie di Cava. I produttori sono 224, meno 2,6%, e dopo l’uscita di Raventos i Blanc dalla DO Cava per lanciare la DO Riu d’Anoia, altri sei big hanno preso le distanze avviando Corpinnat, una propria associazione: Gramona, Llopart, Torellò, Recaredo, Nadal, Sabatè i Coca, Can Feixes, Julia Bernet e Mas Candì. Del resto, l’arrivo di Henkell con l’acquisto di Freixenet ha reso evidente la divisione “filosofica” fra il big player del mercato – una grande multinazionale fra Germania, Spagna e Italia – ed i produttori più di qualità. Il mercato complessivamente registra la contrazione suindicata che stride col risultato positivo del 2017 che aveva registrato una crescita del 3% rispetto al 2016. Il crollo è tutto del mercato interno che oramai vede soltanto Aragona, Catalogna e Comunità Valenciana con un forte radicamento del Cava fra i consumatori assorbendo ben il 46% delle vendite interne. Madrid – sarà un caso? – arriva a malapena al 6% di cui 2 punti buoni sono legati alla fortissima presenza internazionale sulla capitale; appena si esce dalla città, la percentuale crolla infatti al 4%. Le esportazioni sono in larga parte extra-UE per 115 milioni di bottiglie ed una crescita del 2,3%. Nella classifica dei maggiori importatori guida ancora la Germania con 32 milioni di bottiglie, più 2,2% (ma nel 2012 comprava quasi 40 milioni di bottiglie); al secondo posto ancora il Belgio (ma perde il 4.8%) con 27,2 milioni di bottiglie; al terzo posto salgono gli Stati Uniti con 21,7 milioni di bottiglie (10 milioni in più rispetto al 2012) superando così il Regno Unito dove il Prosecco fa strage, tanto che le bollicine catalane perdono 6.4 punti percentuali. Prosecco ultra competitivo anche in Francia dove la contrazione del Cava è del 10.9% assorbendo comunque 10.4 milioni di bottiglie.

Il dato italiano L’Italia oramai ha detto addio al Cava: appena 247 mila bottiglie vendute (erano poco più di un milione una decina d’anni fa) con una ulteriore contrazione del 19%. Battaglia persa? Non ancora. Anzi, qualche segnale interessante c’è. E sta nella qualità del prodotto Cava. L’Italia è il 35.mo mercato del Cava Tradicional (9 mesi sui lieviti), ma è 30.mo nei Cava Reserva (15 mesi sui lieviti), 29.mo nel Gran Reserva (30 mesi sui lieviti) e 21.mo mercato al mondo nei Cava de Paraje Calificado (36 mesi sui lieviti e cru dichiarati). Cosa vuol dire? Che spazi per una proposta di qualità ci sono; che il Cava base non ci interessa (e si capisce fra Trentodoc, Franciacorta, Oltrepo, Durello e la corazzata Prosecco…), ma il giudizio cambia se si va alla scoperta di bollicine di alta o altissima qualità anche se il fattore prezzo porta molti a preferire il più conosciuto (e sicuro) Champagne. Il resto del mondo se ne fotte ampiamente di tutto questo e cerca il Tradicional, 213 milioni di bottiglie vendute, pari all’87% delle vendite; poi vuole Reserva, per 26 milioni di bottiglie, l’11% del totale. Infine cerca la Gran Reserva, 4,7 milioni di bottiglie, e attende la crescita del Cava de Paraje Calficado che oggi vende 130mila bottiglie. Il Cava resta un vino bianco, il Rosé è una fascia di produzione di appena l’8,4% (essenzialmente è tutto Tradicional) e questo mette la produzione catalana in affanno rispetto al boom delle bollicine rosate che vedono Italia e Francia leader di mercato. La produzione bio coinvolge il 4.3% del mercato del Cava, ma con una crescita del 73% rispetto al 2017, ed un posizionamento importante su Reserva e Gran Reserva che quasi raggiungono il peso del Tradicional.

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