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Orvieto DOC, un futuro sparkling
di Carlo Rossi
Orvieto Charmat: buona la prima
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Una nuova sperimentazione per agganciare il futuro di una denominazione ricca di storia. Il “sole nel bicchiere” trova oggi la sua versione spumante
Ci sono davvero pochi posti al mondo dove la Storia con la S maiuscola si incrocia così tante volte con la storia minuta, quella fatta del lavoro quotidiano, della vita di tutti i giorni di popolazioni che, generazione dopo generazione, pensano soltanto a tirare avanti nel miglior modo possibile. Uno di questi posti sono i Colli Orientali del Friuli, sull’odierno confine italo-sloveno (diventato finalmente un confine pro-forma dopo l’ingresso di Lubiana nell’Unione europea), un confine spostato a colpi di gladio, lancia e cannoni innumerevoli volte dall’Impero romano ad oggi.
Un tentativo, riuscito, di lanciare un nuovo vino che diventerà a breve Doc Orvieto: un bellissimo spumante charmat, un vino che può ridare sprint ed interesse ad un territorio magico, che ha il sole in
bottiglia, come disse Gabriele D’Annunzio, ma con una denominazione che ha attraversato momenti di scarso entusiasmo. “Benvenuto Orvieto di Vino 2019” è stata la prima kermesse voluta dal nuovo piano di comunicazione del Consorzio di tutela che ha portato sulla Rupe giornalisti e critici del vino nazionali e stranieri per un benvenuto che ha coinvolto, per la prima volta e con successo, anche il neonato charmat.
C’era bisogno di un nuovo metodo Martinotti? ci si domanda tra specialisti. In questo caso la risposta è affermativa. Una bollicina fine, elegante, che serve a rendere più accattivante e a svecchiare una denominazione forse prigioniera di un patrimonio storico anche eccessivamente importante, che sta risultando alla fine ingessante per il mercato della denomina-
zione umbra. Questo nuovo progetto è stato immaginato e realizzato sulla scorta del favore che stanno incontrando le bollicine nel mondo, in particolare quelle prodotte con metodo Martinotti.
E il successo ha arriso alla prima uscita, che si innesta sul percorso di rinnovamento nella continuità di un trend di qualità perseguito dal Consorzio Orvieto Doc. Una decisione in questa direzione, ad esempio, la richiesta del Consorzio che – spiega l’assessore all’Agricoltura della Regione Umbria , Fernanda Cecchini - ha evidenziato una situazione attuale di criticità, con un calo sostanziale degli imbottigliamenti nei primi mesi del 2018 rispetto al 2017, oltre 12mila ettolitri in meno fra Doc Orvieto e Orvieto classico, sottolineando la necessità di limitare le superfici rivendicabili per la Denominazione a origine controllata per stabilizzare il mercato del
vino Doc Orvieto attraverso un riequilibrio fra domanda e offerta.
Esiti della vendemmia 2018, in cui è stata varata la diminuzione della resa da 80 a 75 quintali all’ettaro
Sono 18 i Comuni interessati dalla produzione delle uve per la Doc Orvieto, 13 in provincia di Terni e 5 in provincia di Viterbo, con una superficie vitata di circa 2100 ettari ai quali nei prossimi anni andranno ad aggiungersi, nel territorio umbro, circa 230 ettari di nuovi impianti di vigneti derivanti dall’utilizzo degli ex diritti della riserva regionale e da nuove autorizzazioni concesse in base a un decreto ministeriale del 2015, con un incremento di circa l’11 per cento del potenziale produttivo della Doc Orvieto.
Grandi sono le aspettative su questo “neonato” che già si presenta però con una bella grinta sin dai primi vagiti. Piacevoli note fruttate, gusto cremoso,
34 fresco. Ma anche una bollicina croccante. Ampio in bocca, beva piacevole, non solo smart drinking, ma qualcosa di più intrigante.
Obiettivo di questa sperimentazione è quello di studiare il comportamento dell’uvaggio dell’Orvieto nel processo di spumantizzazione Martinotti. In questo caso, le uve sono state raccolte in anticipo in modo da garantire al mosto un basso grado alcolico e maggior tenore acido. Tutto il processo di lavorazione ha rispecchiato le più rigide procedure previste per l’ottenimento dei grandi vini spumanti come la bassa resa delle uve in mosto (50%) attraverso la pressatura di grappoli interi. La presa di spuma è avvenuta dalla fermentazione del mosto di base, mantenendo fin dall’inizio una pressione di 6 Bar. Il metodo charmat chiamato anche dei grandi recipienti, viene soprattutto utilizzato per ottenere spumanti caratterizzati da aromi primari e fruttati, che ricordano molto il vitigno di partenza, e molto freschi.
«In realtà uno stoccaggio in legno nelle grotte della Orvieto underground da sempre esisteva. Residuavano gli zuccheri e una volta imbottigliato il prodotto rifermentava in maniera naturale» riporta Riccardo Cotarella, uno dei protagonisti di questa sperimentazione.
Grandi le possibilità offerte dal disciplinare per valorizzare le sfumature dell’ Orvieto spumante, che una zonazione futura, con la successiva identificazione in etichetta, potrebbe ulteriormente concorrere a esaltare opportunità di mercato che possono contare anche su una narrazione unica.
Le uve sono di buone prospettive e concrete possibilità di sviluppo, anche sull’altra sperimentazione enologica sul comportamento del Trebbiano Biotipo T34, vitigno storico dell’Orvieto e più rappresentativo dell’uvaggio della Doc.
Del resto, da sempre i contadini allevano in campo ben cinque varietà di uve bianche. Un metodo che un po’ ricorda una specialità viennese, il Gemischter Satz, un vino prodotto con uve diverse dello stesso vigneto, che offre possibilità di avere sempre uva per vino svincolandola dalle problematiche ambientali.
«A distanza di un mese dall’imbottigliamento è stata valutata l’evoluzione dei vini, ottenuti dalla vinificazione del Trebbiano Biotipo T34, coltivato nelle aree caratterizzate da differenti origini: vulcanica, argillosa, alluvionale e sabbiosa. Interessanti anche per una futura zonazione. I primi risultati fanno già emergere una buona diversità sensoriale che ha permesso ai degustatori di individuare le caratteristiche riconducibili ai terreni di origine. I quattro vini sinora prodotti mostrano differenze sostanziali in termini aromatici, di struttura ma soprattutto stilistici» dice Paolo Nardo, responsabile della Cantina Bigi – Gruppo Giv – consigliere del Consorzio e membro della commissione scientifica in seno al progetto Martinotti Spumante Orvieto Doc .
Moscato Canelli verso la DOCG: 100 ettari ed oltre 500mila bottiglie
Il Moscato Canelli si prepara a diventare una Docg. Un sogno che si realizza per l’Associazione Produttori Moscato Canelli impegnata da anni a promuovere questa giovane, ma vivace denominazione. L’iter è stato avviato in primavera con un provvedimento del Consorzio dell’Asti, approvato all’unanimità, che apre la strada della Denominazione di origine controllata e garantita all’attuale sottozona del Moscato d’Asti. Grande la soddisfazione: «Fatto il primo e fondamentale passo – dice Gianmario Cerutti, presidente dell’Associazione Produttori Moscato Canelli – nei prossimi mesi la pratica dovrà passare in Regione, a Roma e poi a Bruxelles» Per avere la prima bottiglia di Canelli docg, bisognerà aspettare la vendemmia 2020. Intanto, i numeri parlano di una crescita: l’imbottigliato del primo semestre del 2019 sfiora le 200 mila bottiglie, un più 30% rispetto ai primi 6 mesi del 2018. «L’obiettivo delle 500 mila bottiglie nel 2019 è ormai un dato quasi certo – annuncia Cerutti – anzi ci sentiamo di dire che puntiamo al milione di bottiglie in pochi anni, contando le sole aziende dell’associazione».
La lieve flessione di bottiglie tra il 2017 e il 2018, scese da 410 mila a 390 mila, non deve ingannare: «È un dato che risente della scarsità della vendemmia 2017 – spiega Cerutti – Con la vendemmia 2018 sono aumentati del 20% gli ettari di superficie vitata destinata al Canelli: ormai siamo vicini ai 100 ettari e il potenziale di vino prodotto è di 850 mila bottiglie». I dati storici raccontano che nel 2014, si producevano 95 mila bottiglie, diventate 123 mila nel 2015, 220 mila nel 2016, 410 mila del 2017, 390 mila dell’anno scorso.
Una crescita costante, fermata solo in parte da una vendemmia scarsa, che in pochi anni segna un incremento del 90%. Piccoli numeri ma un segno di grande appeal per il Canelli, confermato dall’export: il 50% delle bottiglie vengono consumate sui mercati esteri. «Il numero di aziende che credono e scommettono sul Canelli cresce costantemente – dice il presidente – e insieme cresce sempre più la convinzione di essere sulla giusta strada. Fare Canelli non è una scelta semplice per le regole che ci siamo dati: si sceglie di produrre Canelli perché è un progetto concreto per il futuro. Oggi siamo 19 aziende nell’Associazione, ovvero l’80% degli attuali produttori di Moscato Canelli».
Il primo anno di produzione del Moscato Canelli fu la vendemmia 2011. La zona di produzione comprende 23 comuni tra il Sud Astigiano e la Langa, in Piemonte, in un’area ad alta vocazione per la coltivazione dell’uva moscato bianco e “core zone” Unesco tutelata come Patrimonio dell’Umanità. Le uve spesso sono coltivate nei “surì”, ovvero quell’eccellenza piemontese di filari eroici di alta collina ben esposti al sole ma con pendenze tali che richiedono lavorazioni quasi esclusivamente manuali.