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Eric Bunge

Questo non è un ufficio; questa non è una casa. Ricordo a malapena la sensazione di trovarmi nel nostro ufficio ormai vuoto di Brooklyn, per non parlare dell’idea stessa di ufficio. Durante il primo breve ritorno per recuperare la mia sedia da ufficio, settimane dopo l’evacuazione, come da una nave che affondava, a metà marzo 2020, mi sono sentito circondato da fantasmi. Sullo sfondo di modelli semilavorati in attesa di un futuro incerto, schermi di computer senza corpo sfarfallavano in tempo reale, controllati a distanza dal nostro personale disperso. Come sembra lontano il passato recente!

L’immenso investimento – concettuale, emotivo, logistico e finanziario – che abbiamo fatto sullo spazio fisico dell’ufficio è parallelo al nostro investimento sull’idea stessa di spazio. Come ci ricorda Adrian Forty in Parole e edifici. Un vocabolario per l’architettura moderna, il nostro attuale uso del termine “ufficio” nell’ambito della disciplina architettonica risale a poco più di un secolo fa. Nel prendere in considerazione le varie riformulazioni

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dell’ufficio che sono state annunciate – il lavoro a distanza, la capacità ridotta, i turni alternati, la divisione dell’ufficio che fa di nuovo capolino, l’ufficio non come luogo di lavoro ma come luogo di incontro, nessun ufficio… – mi è venuto in mente che l’idea dello studio di architettura non è molto più vecchia. L’architettura ci sorprende in qualche modo per la sua capacità di continuare a funzionare, anche se lo spazio fisico dell’ufficio rimane un fantasma. Questo non è un ufficio, mi sono detto mentre chiudevo a chiave la porta del nostro spazio vuoto. È solo uno spazio. L’ufficio siamo noi.

Tornato a casa, mi sono messo alla scrivania con la mia sedia recuperata. La nostra casa stava diventando tutto: la sede di nArchitects, la scuola per i nostri figli, la scuola remota per i nostri studenti di architettura, il centro di preparazione pasti non-stop e, naturalmente, a intermittenza, una semplice casa. Ho pensato, abbiamo forse bisogno solo di uno spazio non assegnato? Per molto tempo ho avuto dei sospetti sulla nozione di programma in architettura – un inconsistente comando dall’alto secondo cui dovremmo usare uno spazio così come prescritto. È così facile sovvertire un comando del genere, perché l’uso di uno spazio si discosti dalle intenzioni originali. E adesso sembrerebbe che l’idea di programma sia ancora più fragile di quanto pensassimo.

Se utilizzassimo meno il programma, che ne sareb-

be allora della zonizzazione? Se, a quanto pare, da un giorno all’altro una casa può diventare un ufficio o una scuola, l’abitazione potrebbe facilmente diventare anche un ospedale o un albergo – tornando alle sue origini collettive – o perché no, un edificio per uffici? Da qualche tempo assistiamo a una convergenza e a una divergenza paradossale e simultanea degli usi in architettura: la tendenza al generico si è accompagnata alla specializzazione, mentre le ramificazioni programmatiche minori si affermano rapidamente come paradigmi. Il Covid-19 farà pendere l’ago della bilancia verso lo spazio generico?

Come abbiamo visto in tutte le crisi della storia, queste hanno accelerato, se non del tutto rivelato, le tendenze latenti della società. Per l’architettura alcune di queste fanno paura, quali la messa in discussione della collettività e la potenziale diminuzione dell’importanza dello spazio. Ma nonostante le previsioni contrarie, i cambiamenti culturali e tecnologici spesso riposizionano piuttosto che sostituire: probabilmente non ne usciremo con una nuova idea di collettività e di spazio, ma con diverse idee contraddittorie. Per alcuni un ufficio sarà ancora una volta un ufficio, e una casa una casa.

Brooklyn, 25 maggio 2020

Eric Bunge è cofondatore insieme a Mimi Hoang dello studio nArchitects e professore associato al GSAPP, Columbia University.

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