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Cynthia Davidson

Ho lasciato la città che amo la sera del 12 marzo con mio marito, il mio gatto di venti anni, il computer e due valigie di vestiti e di libri. Con il sindaco di New York che parlava di chiudere le attività non essenziali per contenere la diffusione del coronavirus in città, sembrava importante non soltanto lasciare il mio solito treno affollato di pendolari ma concedersi l’auto privata, anche se soltanto per un soggiorno di due settimane nella casa in Connecticut dove di solito trascorro i fine settimana.

Quelle due settimane sono ora diventate tre mesi, e ancora non è finita; tuttavia il tempo non ha una forma reale, con le ore che si fondono in giorni senza nome, e lo spazio, quando non è contrassegnato a intervalli di due metri nei negozi di alimentari, si è ora appiattito alla schermata di Zoom. Grazie a Zoom, vado a New York almeno due volte a settimana, riducendo 130 chilometri e un viaggio di due ore a un click su un link – e anche a Los Angeles, Denver, Zurigo e Milano. Tele

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trasportami, Scotty.

Adesso è la natura, non il ritmo della città o la puntualità di una sessione su Zoom, il mio vero legame con lo spazio e con il tempo. In questo ambiente bucolico ho osservato la primavera insinuarsi furtivamente nel paesaggio, poi esplodere d’improvviso nel canto degli uccelli e nelle fioriture. Esco andando incontro alla freschezza, al vento, all’umidità, al sole o alla pioggia, e sempre agli alberi, gli alberi che sono lì da decenni, addirittura secoli.

Forse è questo riavvicinamento alla natura che mi ha portato a ripensare alla scoperta da parte del cacciatore di libri Poggio Bracciolini, nel 1417, del De rerum natura di Lucrezio, scritto intorno al 50 a.C. Per coincidenza, il De rerum natura finisce con i particolari sanguinosi di una pestilenza mortale ad Atene, ma quello che mi interessa è l’idea di Lucrezio dello scarto, del cambiamento di corso. Scrive: “Ma se non solessero declinare, tutti [i corpi primi] cadrebbero verso il basso / Come gocce di pioggia, per il vuoto profondo. Né sarebbe nata una collisione, né urto si sarebbe prodotto tra i primi principi, / Così la Natura non avrebbe mai creato nulla”. O come descrive Stephen Greenblatt, nel suo libro The Swerve: How the World Became Modern, collisioni casuali che, per quanto minuscole, – come, per esempio, un virus microscopico – costituiscono il

nostro mondo, la nostra natura.

Il coronavirus è un fenomeno della natura. Il suo impatto sulla vita umana è devastante e la corsa per trovare un vaccino ci ricorda la nostra continua lotta non solo per comprendere ma anche per controllare la natura. Il ruolo dell’architettura nel plasmare lo spazio e il tempo ha fatto parte di quella lotta, e con il “distanziamento sociale” – in realtà il distanziamento spaziale – che entra nell’equazione per progettare lo spazio pubblico, cerchiamo ancora una volta di tenere a bada la natura.

Se il coronavirus è uno scarto, allora la sua stessa visibilità può essere considerata un’allerta, un avvertimento per chi di noi lavora nel campo dell’architettura, chi progetta spazi e sceglie materiali e tenta di offrire un riparo civilizzato, del fatto che dobbiamo trovare un nuovo modo per venire a patti con la natura. Perché il prossimo scarto, probabilmente insito nel cambiamento climatico, potrebbe essere molto più devastante.

Un giorno riprenderò il treno di pendolari per Manhattan; abbraccerò di nuovo amici e familiari. Per ora, abbraccio e ascolto gli alberi.

Cynthia Davidson è executive director e editor di Anyone Corporation, Log, Writing Architecture Books, Anyspace a New York.

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