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Francesco Repishti
Come vivere insieme? Nata per difendersi dalle malattie, la quarantena era esercitata collettivamente in un luogo “altro”, chiuso e sottoposto a regole, come per tutte le istituzioni totali. La condizione attuale appare invece capovolta a favore di una quarantena personale all’interno di uno spazio autonomo e senza regole, se non quelle dell’autodisciplina. Dunque, non più parti della città destinate alla reclusione ma, al contrario, una dislocazione diffusa di singole celle (“Lo spazio della disciplina è sempre, in fondo, cellulare”; Michel Foucault). Un cambiamento definito anche positivamente come l’avvicinamento a una soluzione di “casa-mondo” dove tutti i consumi appaiono garantiti da una consegna a domicilio, fisica o virtuale (lavoro, divertimento, alimentazione…); ovviamente senza capire che questa regressione non vale per tutti.
In questa condizione abbiamo anche osservato un cambiamento nell’uso di alcuni spazi domesti
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ci: come i balconi e i tetti-terrazze che, convertiti in palcoscenici, sono ritornati a essere luoghi di mediazione e hanno ritrovato i significati desiderati dal movimento moderno. Nel recente passato avevamo già intravisto ampliare le abitazioni con queste finalità (Frédéric Druot, Anne Lacaton & Jean Philippe Vassal), con progetti di recupero e soluzioni elaborate di superfici di interfaccia tra interno ed esterno e aree aperte destinate a svolgere proprio una funzione di “filtro” tra la dimensione intima dell’abitazione e il paesaggio urbano. Un’idea che alle piazze sostituisce una socialità intermedia e più orientata a un senso di responsabilità verso il più vicino.
Il dispositivo della quarantena non è però un rimedio sufficiente alla malattia, così un secondo pilastro è stato individuato nel distanziamento sociale e fisico, amplificato dall’informazione e dalla paura generata dalle immagini di lunghe file di camion militari. Con il solo distanziamento è stata ulteriormente cancellata ogni dimensione collettiva: un comitato di tecnici ha disciplinato sulla base di un solo principio tutta la presenza, la circolazione e la sosta negli spazi aperti. Non è stato più ammesso vagabondare e perdersi; le panchine sono state smontate; l’indice di criminalità è crollato, mentre la percezione di cosa fosse reato si è innalzata, generata da una in-
comprensione delle norme. Per il controllo di queste azioni, non farmacologiche e dirette ai “sani”, sono stati incrementati e inventati sistemi di sorveglianza e sono state definite apposite ordinanze, autocertificazioni e sanzioni, così da incutere la paura di una punizione o di essere esposti alla spettacolarizzazione televisiva. Agli spazi aperti sono stati applicati meccanismi disciplinari: per ogni individuo è stato misurato uno spazio minimo, ogni luogo pubblico è stato normato, e in prossimità di alcuni punti sono apparse disegnate sul suolo organizzazioni spaziali che garantiscono l’ordine, come in un parcheggio per auto (riquadri poi usati come abitazione per individui senza fissa dimora). Il tutto nonostante la storia ci abbia insegnato che la ripartizione ordinata di umani in schemi geometrici è, da sempre, uno dei grandi divertimenti delle dittature.
È molto facile prefigurare distopie più o meno catastrofiche, occorre invece capire come ritrovare soluzioni di partecipazione, una “poetica degli spazi pubblici dal basso”, come la definiva Aldo van Eyck, così da interrompere tali possibili distorcimenti. Ciò che conferisce un effettivo valore allo spazio pubblico sappiamo essere le persone che lo frequentano: appare così necessario ripensare a una serie di dispositivi, non più solo collettivi, ma diffusi e parte-
cipati. Come per i playgrounds si potrebbe ripartire da specifiche situazioni, dagli spazi interstiziali del tessuto urbano, da un preciso carattere o punti focali già contenuti in essi, e, soprattutto, dalla collaborazione tra i residenti.
Francesco Repishti è professore ordinario di Storia dell’architettura al Politecnico di Milano.