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Gianluca Didino

Se qualcosa rimarrà di questa pandemia saranno i sogni: l’attività onirica stranamente vivida di cui ha fatto esperienza tutto il mondo durante e dopo il lockdown, una rete di simboli grande quanto il globo, una versione-ombra del nostro presente. È mai successo prima d’oggi che tutta l’umanità sognasse la stessa cosa?

Durante la quarantena, chiuso nel mio appartamento londinese di cinquanta metri quadri, mi è tornato in mente quanto scriveva Gaston Bachelard nella Poetica dello spazio: “la casa protegge il sognatore, la casa ci permette di sognare in pace”. Durante la pandemia la casa ci ha protetto dalle minacce del mondo esterno, ma i suoi confini, irrigidendosi, ci hanno anche separati gli uni dagli altri, barricandoci nel sospetto reciproco. La soglia di casa è diventata un muro: tutto ciò che entra ed esce deve essere controllato, vagliato, sanificato.

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Con l’eccezione dei sogni: attraverso i sogni la minaccia dell’esterno è penetrata nelle pareti di casa (in

questa capacità di attraversare i muri, come sapeva già Schopenhauer, i sogni sono simili ai fantasmi). Allo stesso tempo, grazie ai sogni ci siamo aperti all’esterno inaccessibile nella vita diurna. La casa permette al sognatore di sognare, ma i sogni non sono mai pacificati.

Mi è anche tornato in mente un altro interprete francese dello spazio, Georges Perec, e il suo tentativo di scrivere una “autobiografia notturna” nei 124 sogni raccolti nella Bottega oscura. L’attività onirica di Perec data gli anni compresi tra il 1968 e il 1972, anni in cui a Parigi il sogno aveva valenze politiche. Oggi i nostri sogni sembrano avere invece un significato diverso, quello dell’elaborazione collettiva di un trauma. Sono, come scriveva James Hillman, prodotto del “lavoro della morte”, che non ha più spazio nel mondo illuminato dalla luce del sole. Durante una pandemia, sembra logico che questo lavoro richieda più energie, che i rapporti di forza tra mondo diurno e notturno si ribaltino.

Chiuso in casa durante le ore del giorno per conformarmi alle regole del distanziamento sociale ho cominciato a fare passeggiate la notte: lunghe camminate tra le colline del sudest di Londra, piccole case addormentate, parchi vuoti illuminati solo dalla luce spettrale della luna piena. Un mondo simile a quello

di tutti i giorni, ma al contrario. Per le strade quasi nessuno. In lontananza, oltre il fiume, i grattacieli del distretto finanziario di Canary Wharf vuoti da settimane, il respiro della macchina capitalista che si è fatto quasi impercettibile nel sonno a cui è stata costretta. Mi chiedo se sia possibile scrivere la biografia notturna di una città, la sua storia-ombra.

Gli unici compagni di queste passeggiate sono le volpi, che escono da un giardino vuoto e rimangono a guardarti in mezzo alla strada, attente ai tuoi movimenti. Nel primo episodio di Sogni di Akira Kurosawa, al piccolo protagonista viene impedito di uscire di casa per paura delle volpi, che nel simbolismo giapponese non solo possono tramutarsi in uomini e manipolarne la volontà ma anche penetrarne i sogni rendendoli indistinguibili dalla realtà.

A volte, nella città deserta, mi viene da chiedermi se questa sia la realtà e non un sogno. Come Zhu āngzǐ, non posso mai essere certo di essere un uomo che sogna una farfalla e non viceversa. Tantomeno adesso, in questa città irreale, in questi tempi irreali.

Gianluca Didino è un giornalista e scrittore italiano e vive a Londra.

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