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Jean-Christophe Bailly
Speranza? La speranza di vita dell’architettura si tende su un arco che va dal cantiere alla rovina. Se si tende ancora quell’arco si ha, prima del cantiere, tutto lo spazio di ideazione e, oltre la rovina, quello della scomparsa. Ora, con la crisi che ha scosso il mondo intero, questa dilatazione continua del periodo di esistenza dell’architettura ha appena subito una significativa interruzione. Mentre si profilava in lontananza lo spettro di una generalizzata rovina indicizzata sul registro della catastrofe, per settimane i cantieri hanno cessato di esistere: le città, svuotate di abitanti visibili, non solo hanno preso ad assomigliare alle scenografie di un film che nessuno più poteva girare, ma hanno anche dovuto lasciare che si spegnessero al loro interno le aree, grandi o piccole, collegate alla loro permanente trasformazione. Forse questa esperienza della città immobilizzata, al di là di quello che ha potuto avere di spaventoso o di affascinante, potrebbe diventare uno spunto di riflessione che inda
ghi sulle ragioni stesse dell’architettura? A tutti i settori di attività si pone oggi, in modo del tutto nuovo, la domanda sul loro futuro, che è caratterizzata dal famoso e universale prima/dopo. Anche per l’architettura, la domanda è brusca e semplice: deve puramente e semplicemente riprendere relegando all’oblio l’episodio della sua interruzione? Oppure, alla luce di quanto è apparso nella sfera sociale con la crisi della pandemia, deve riconsiderare le sue prestazioni? Va da sé che è proprio su questo fronte che esiste per essa la possibilità di una ripresa veramente fondata, che sia in sintonia con il mondo. Poiché, lo vediamo, l’entusiasmo e la cattiva fede tecnocratici hanno generato ovunque nel mondo una quantità di architetture prive di intelligenza, che si sono accontentate di eseguire serie solitarie invece di pensare collettivamente accordi. La dilatazione del grande, la sopravvalutazione simbolica, le logiche dell’oggetto che fosse un grande oggetto, il gusto della prodezza – tutto si paga: il risultato, si sa ma non si osa veramente dire, è quello di un duplice impoverimento – della forma della città e del mestiere di architetto. Si tratta certo di una questione etica e di comportamento, ma che implica in primo luogo decisioni relative allo spazio e alla suddivisione dei volumi nello spazio. L’abbiamo appena visto e vissuto, una città non attraversata, non
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percorsa, è una città morta. Che cos’è dunque l’attraversabile? Proprio questa domanda attraversa tutti gli ambiti dell’architettura, a cominciare dai terreni edificabili, in cui il rapporto di forza tra pubblico e privato deve essere interamente rivisto, evidentemente nella direzione di una forma a sciame, inventiva e diffusa di uno spazio pubblico integralmente ritrovato e in cui mai l’architetto giocherebbe la carta di ciò che la burocrazia e i media chiamano, come se fosse scontato, “distanziamento sociale”.
Parigi, 2 giugno 2020
Jean-Christophe Bailly, scrittore, poeta e drammaturgo francese, insegna all’École de la Nature et du Paysage di Blois.