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Louisa Hutton
Pensieri introspettivi da Berlino. All’inizio della pandemia di Covid-19 ci siamo trovati nel bel mezzo della progettazione di una mostra che avrebbe dovuto essere inaugurata nel nostro Museo M9 di Mestre questo maggio, in parallelo con la Biennale di Architettura di Venezia. Entrambe le aperture sono state spostate a maggio 2021. Dal momento che la mostra include circa trentasei progetti tratti dal nostro lavoro passato e attuale, ripensarci in questo momento comporta sicuramente una prospettiva più acuta e più critica sui temi della sostenibilità – sia ambientale che sociale – riguardo all’architettura, alla città e alla nostra vita in generale.
Ho scoperto che l’isolamento ci ha costretti a un grado di introspezione quasi esistenziale sia a livello personale che professionale. Il rallentamento della vita e del lavoro, la riduzione degli spostamenti, ma soprattutto le enormi e destabilizzanti incertezze che riguardano sia il futuro immediato che quello a breve
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e lungo termine, quasi tutte sembrano portare a contraddizioni apparentemente irrisolvibili.
Quella più enorme, almeno nel mondo sviluppato, è forse l’improvvisa messa in discussione degli stili di vita urbani. Mentre la maggior parte di noi vive in città per il duplice vantaggio dello scambio sociale ed economico – il 50% della popolazione mondiale vive nelle città, che forniscono l’80% della produzione economica globale – la pandemia, in una svolta decisamente antiurbana, suggerisce un movimento verso la de-densificazione che porterà a una maggiore espansione abitativa e al suo conseguente uso di auto private, così come, naturalmente, alla tentazione di coprire ancora più il nostro suolo non costruito con asfalto ed edifici. A peggiorare questa situazione, si dice che nei prossimi quarant’anni si prevede che la superficie globale pavimentata di nuova costruzione raddoppierà: una statistica piuttosto inquietante.
Un’ulteriore contraddizione riguardo all’esistenza stessa della città deriva dalla nostra dipendenza dalla tecnologia digitale: il lockdown ha visto un aumento esponenziale della comunicazione online e dei meeting virtuali di ogni tipo. Nella lettura più pessimistica entrambi sembrano mettere in discussione la necessità di spazi pubblici, di incontri pubblici e di edifici pubblici – in breve: delle città! Confidiamo però nel
comportamento umano – in fondo siamo una specie decisamente sociale –, e nel fatto che la conservazione della nostra vita e della cultura urbana sviluppatasi nel corso dei millenni continuerà a esistere, e forse sarà perfino rafforzata da nuove alleanze.
Mentre le molteplici minacce – e al tempo stesso molte drastiche conseguenze – del cambiamento climatico e la derivante perdita di biodiversità sono diventate sempre più evidenti e urgenti negli ultimi anni, è chiaramente il fenomeno improvviso del Covid-19 che ha fatto scoppiare la bolla del nostro compiacimento per il modo in cui, per decenni se non per secoli, abbiamo maltrattato il mondo: il nostro ambiente, i nostri simili e noi stessi. Siamo stati costretti, letteralmente, a “scendere sulla terra” e ad affrontare gli eccessi dei nostri consumi, e con questo l’interconnessione di tutti i tipi di scambio globale (alimentato dal turbo-capitalismo) che rendono possibili i primi. Come dice la virologa Ilaria Capua, il Covid-19 è una malattia del nostro stile di vita.
I governi di tutto il mondo hanno dimostrato come siano in grado di prendere misure immediate e drastiche nei loro vari approcci per contenere il virus, tenendo il capitalismo in sospensione, come è stato fatto. Se da un lato hanno costretto l’individuo e la sua libertà a sottomettersi al bene superiore della
società, dall’altro hanno dimostrato quali benefici si possono trarre dall’ambiente (compresa la nostra salute per quanto riguarda l’inquinamento atmosferico) con una significativa riduzione dei livelli di emissione di CO2. I cittadini hanno recuperato le loro strade e conosciuto i loro vicini e i loro quartieri.
Spero che la nostra condizione di vulnerabilità, ancora un po’ surreale, con la sua costante esposizione alla fragilità del nostro mondo, sarà sufficiente, nei prossimi mesi e anni, a forzare un sostanziale cambiamento comportamentale su molti livelli. Come individui, negli ultimi tre mesi, ci siamo lentamente abituati a uno stile di vita un po’ più semplice, certamente più “fondato”, basato sull’essenziale e privo di molte abitudini che – come comprendiamo ora col senno di poi – davamo per scontate. Il più grande compromesso è stato ovviamente la mancanza di contatti sociali a livello personale oltre che culturale. Con il graduale ripristino di tali connessioni, che sono necessarie e che migliorano la nostra qualità di vita, stiamo ora riemergendo in una posizione in cui dovremmo ricalibrare le nostre priorità.
Poiché ognuno di noi ha dimostrato empatia, rispetto e gentilezza nei confronti dei propri vicini, delle comunità locali e dei nostri Paesi e – nei migliori dei casi – dei Paesi vicini, potremmo continuare ad
accontentarci di meno non solo della nostra vita personale, ma anche di quella professionale.
La responsabilità dell’individuo nei confronti della società deve trovare eco in una nuova integrità architettonica, che rispetti il pianeta e che valorizzi il riutilizzo adattativo del patrimonio esistente, mettendo prima di tutto in discussione la necessità della demolizione. 9 giugno 2020
Louisa Hutton è fondadrice e partner dello studio di architettura e urbanistica Sauerbruch Hutton, con sede a Berlino, fondato a Londra con Matthias Sauerbruch.