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Marina Otero Verzier
Volto e territorio ai tempi della pandemia. Oggi, durante una delle tante videochiamate quotidiane, ho deciso di disattivare la possibilità di vedermi. Non si trattava di nascondere il mio “look Covid-19/2020”. Mi sono improvvisamente resa conto che, nelle ultime settimane, mi sono guardata troppo. Costantemente, come mai prima: il mio viso stanco, incorniciato da griglie disegnate da piattaforme di comunicazione.
C’è qualcosa di inquietante nel vedersi mentre si parla con gli altri, o, più in particolare, nel guardarsi mentre si parla con gli altri.
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Con il passare delle settimane, mi sto abituando alle misure senza precedenti che gli Stati e i governi hanno messo in atto per prevenire il diffondersi della pandemia. La nostra infrastruttura digitale ha drasticamente e immediatamente cambiato le attività sociali, culturali ed economiche di milioni di persone – intervenendo per dare una continuità al contatto intimo con i propri cari e alla vita pubblica. Ciò che
mi sconvolge ora è che siamo diventati una società di volti incorniciati.
La distanza sociale ci costringe a ritirarci in ambienti politici sempre più piccoli e isolati. Abitare in città una volta implicava una continua vicinanza con gli altri, ma nel clima attuale l’incontro con gli estranei è socialmente condannabile, un capriccio praticato a scapito della vita umana. Ora la città sembra un percorso ad ostacoli d’evasione.
Questa combinazione di paura dell’altro e di sguardo costante su se stessi è pericolosa. L’allontanamento sociale ha conseguenze più profonde che separare le persone. Potrebbe essere un’arma usata per fini di consenso politico e servire da alibi per normalizzare la privatizzazione della vita pubblica, la sorveglianza illimitata della popolazione, il consolidamento delle frontiere e l’aumento del nazionalismo e della xenofobia.
A breve termine, la virtualizzazione della vita e del lavoro permette a molti di noi di mantenere il lavoro, di mantenere un certo contatto sociale e persino – alleluia – di ridurre le emissioni planetarie. Ma queste misure straordinarie non hanno ancora indebolito – né intendono indebolire – le strutture di estrazione, sfruttamento e discriminazione preesistenti.
È il momento di concepire e mettere in pratica forme alternative di organizzazione e di azione collettiva
basate sulla solidarietà, l’empatia, la ridistribuzione delle risorse e la cura per gli altri. Eppure passiamo il tempo a guardare noi stessi, intrappolati in una griglia che segmenta e separa mentre ci vende una falsa immagine di uguaglianza. Un’uguaglianza in cui siamo o volti senza corpo, separati digitalmente dai nostri volti vicini, o corpi senza volto, coperti e protetti da possibili incontri pubblici.
Non ho formule magiche per uscire da questo pantano. Per ora, sfido i privilegiati come me, che passano tutto il giorno in videochiamate, a smettere di guardarsi. Perché in realtà non guardiamo noi stessi, ma la nostra immagine piatta e mercificata. Disinnescare il volto vuol dire forse rompere i muri, uscire da se stessi, dare vita a nuovi sviluppi, relazioni, forme di solidarietà. Non guardare questa versione di sé significa vedere se stessi in relazione agli altri: vedere gli altri e immaginarsi con gli altri. È un gesto politico e creativo che ci collega al mondo in modi non ancora immaginati, senza linee che ci inquadrano e ci separano.
Questo testo è stato originariamente pubblicato col titolo Face and Territory in Times of Pandemic in “Avery Shorts”, 13 maggio 2020.
Marina Otero Verzier, architetto e curatrice spagnola, dirige il dipartimento di ricerca del Het Nieuwe Instituut di Rotterdam.