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Pippo Ciorra
Il mio ovvio desiderio, immagino globalmente condiviso, è che le cose tornino progressivamente alla “normalità”. Ci vorrà tempo e ci saranno danni economici, culturali e psicologici con cui fare i conti. Conviveremo a lungo col new normal, ma certamente – in questi casi torna sempre in mente Hobsbawm – il progresso umano si basa anche sulla propensione a dimenticare il dolore degli errori e delle sconfitte subite e andare avanti. L’alternativa non potrebbe che essere paralisi e regressione. Tuttavia, il trauma prolungato che stiamo vivendo non è di quelli da cui si esce velocemente e con facilità. È un po’ come una guerra – uno stato di stress intenso e prolungato, ben diverso per esempio da quello di un terremoto. Non si riesce a recuperare se non riusciamo collettivamente, come genere umano, a imparare dall’esperienza vissuta e a trasformare quello che impariamo in un seme di innovazione positiva, quale che sia il campo di applicazione di questo progresso. Questo breve testo è allora un’occasione per indicare
tre campi d’azione nei quali la pandemia potrà probabilmente lasciare tracce interessanti nel nostro ambito culturale, tutti e tre (inevitabilmente) localizzati nella sfera dell’abitare e della sua relazione con la vita lavorativa e sociale dell’individuo.
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Il primo e più ovvio ha a che fare con lo spazio della casa. In rete, sui giornali, sulle news televisive troviamo già centinaia di progetti-lampo di architetti e designer che ci fanno vedere come grazie agli arguti ed eleganti dispositivi che ci propongono possiamo facilmente trasformare casa nostra in un mini-ufficio, mini-palestra, mini-giardino, mini-bar, eccetera. Tutto utile e interessante, almeno quello che non arriva a irritare i nostri nervi e la nostra sensibilità, se non altro perché stimolerà gli architetti a rimettersi a fare ricerca sul tema dello spazio domestico, decisamente negletto negli ultimi decenni in favore di concetti più astratti come residenza o tipologia. Tranne però che tutto sommato, ed è forse ancora più interessante, le nostre case, piccole o grandi, urbane o “nei borghi”, si erano a quel punto già dimostrate capacissime di tollerare l’espansione delle funzioni verso lo spazio di lavoro, di socialità e svago virtuale, di cura a allenamento del corpo, eccetera. Ancora una volta l’architettura della casa si è dimostrata la più duttile e la più resiliente, nonostante sia tutto sommato la stessa da alcuni millenni. D’altronde già in passato
ha più volte dimostrato la sua capacità di assorbire con discreta indifferenza shock sociali, sanitari, tecnologici, climatici, religiosi e antropologici ancora più profondi di quello procurato dal Covid-19.
Come in passato, infatti, la sfera delle dotazioni che potrà cambiare più radicalmente nelle nostre case e luoghi di lavoro non sarà probabilmente quella spaziale, o quella delle relazioni architettoniche con l’esterno, ma piuttosto – ancora una volta – quella delle infrastrutture. Tornando per un momento alle innovazioni accelerate dalle guerre, anche in quel caso l’innovazione avvenne soprattutto nel campo delle reti e degli strumenti necessari per governarle. Sembra evidente che sarà così anche questa volta. Nel breve periodo le città avranno il problema di gestire il conflitto tra la paura persistente e il bisogno di recuperare progressivamente il livello di interazione fisica che permette a una società di vivere e sostenersi. Insomma quello strano ibrido che in Italia cominciamo a vivere in questi giorni, sovrapponendo “vita digitale” e “vita virtuale”. Più avanti, quando ci saremo riassestati ma vorremo aver imparato qualcosa da questa catastrofe, inclusione vorrà per esempio dire che tutte le case devono essere dotate di banda extra-larga e connettività garantita. Non credo si tratti solo di fare lezione agli studenti su una piattaforma Cisco o Zoom, o di gestire buona par-
te dei rapporti di lavoro “da casa”. Mi chiedo se un operatore non potrà per esempio gestire il robot che assembla il suo pezzo di Panda da casa. O se un chirurgo non potrà operare più spesso – già avviene – in remoto. Tecnologia e nuove infrastrutture dovranno anche aiutarci a combinare la difesa da virus come questo con politiche ecologiche più mature, nella convinzione che salute pubblica e salute del pianeta devono coincidere e possono comporre una straordinaria alleanza.
Il terzo punto è certamente il meno pragmatico, ma investe, almeno per un boomer e un “curioso delle idee” come chi scrive, un aspetto particolarmente interessante del significato spaziale della pandemia. Si tratta infatti di riconsiderare il concetto di distopia e di metterlo in relazione con quello di smart. Quello che abbiamo appreso in questi mesi è che i due concetti sembrano andare molto più d’accordo di quanto immaginassimo. Stiamo infatti familiarizzando con un’idea della distopia molto lontana da quella con cui ci siamo gingillati con piglio millenaristico negli ultimi decenni del secolo scorso. Niente caos, nessuna tenebra alla Blade Runner, niente displacement in stile J.G. Ballard (il nostro Calvino). Quello che ho visto ancora ieri sera attraversando Roma poco prima dell’ora di cena, ma in piena luce del giorno, è l’immagine di una città svuotata e pulita, dominata dal silenzio, dalla maestosità indisturbata dei
monumenti, dall’aria trasparente e priva di inquinamento. Tornavano in mente, mi si perdoni il sacrilegio preservationist, le fotografie di Paolo Monti che sostanziavano i piani di Cervellati per la conservazione dei centri storici emiliano-romagnoli. Là giorni di lavoro per togliere ogni traccia di vita (moderna) e costruire il canone della bellezza. Qui uno scenario spettrale nel quale i rapporti – sociali, di potere, economici – che siamo abituati a vedere rappresentati nello spazio si sono trasferiti altrove, in un altrove fatto di reti e dispositivi. Dispositivi che singolarmente vediamo e utilizziamo ma che gestiscono dati e relazioni che ci rimangono invisibili. Sapevamo già che il mondo smart implica una cospicua perdita non solo di privacy ma anche di controllo. È una battaglia che abbiamo implicitamente dato per persa, ma questa pandemia può forse risvegliarci un po’ e ricordarci che non dobbiamo accontentarci del suono politically correct della parola resilienza ma cercare allo stesso tempo di costruire una salda resistenza, almeno a livello di consapevolezza ed elaborazione concettuale. Ragion per cui sarà importante sia tornare nelle strade, spazio congenito della democrazia, sia agire con consapevolezza disturbante nel mondo digitale.
Pippo Ciorra è Senior curator per l’architettura al MAXXI di Roma e professore ordinario di Progettazione e Teoria dell’architettura presso la SAAD di Ascoli Piceno.