Anno XIV - Numero 65 Maggio Ottobre 2009 Euro 2,50 Spedizione in abbonamento postale D.L.353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 N46) Art 1, comma 2 - DCB Roma
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Biocarburanti: a quali condizioni?
La speranza è quella di una “rivoluzione verde” nel campo dei trasporti. Non più una benzina “verde” solo perché priva di piombo, ma combustibili ecologici e naturali, puliti perché prodotti dalle piante, non inquinanti e soprattutto rinnovabili. Se i biocarburanti devono diventare la
salvifica soluzione alla nostra insaziabile fame di energia, c’è poco da sperare. Utili, invece, su piccola scala locale... >> a pagina 7
riduzione dei rifiuti
edilizia efficiente
Il vuoto a rendere sugli imballaggi, i suoi vantaggi e i suoi nemici
Il premio cubatura in edilizia: rischi ed opportunità
di sandro marano
di stefano fattor
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Inviateci le foto del vostro gruppo locale: info@fareverde.it
Pacatamente rivoluzionari. editoriale
di massimo de maio
Si aggirano tra piazze, scuole, università, luoghi di lavoro, pieni di entusiasmo e voglia di fare. D’inverno li trovate in spiaggia, di domenica mattina, a rimuovere rifiuti. D’estate li potete incrociare in montagna mentre vanno a spegnere incendi, a ripristinare vecchi sentieri oppure mentre raccontano fiabe al fresco dei boschi ai loro bambini. Li trovate in Kosovo a promuovere il dialogo e la tolleranza tra giovani di diverse etnie, utilizzando come strumento di socializzazione l’impegno comune a favore dell’ambiente. Li trovate in aule di tribunale dove si ribellano, a suon di carte bollate, ad abusi e tentativi di sopraffazione ai danni del territorio e degli ecosistemi. Li trovate negli uffici di amministratori locali e di parlamentari per convincerli a trasformare la conservazione delle risorse naturali in atti amministrativi e legislativi. Sono nelle scuole per realizzare laboratori di educazione ambientale con i nostri bambini. Scrivono articoli e comunicati stampa, gestiscono siti internet, presidiano il territorio, organizzano eventi, informano i loro concittadini, contribuiscono alla realizzazione di buone pratiche ambientali, censiscono discariche abusive. Nelle loro sedi imbiancano, traslocano, puliscono e fanno turni per tenerle aperte. E non prendono un euro per la loro opera. In piena crisi economica il loro è un comportamentento eversivo, poichè contribuiscono in maniera decisiva ad arrestare la crescita del PIL. Anche questo giornale lo riempiono di contenuti, lo impaginano, lo impacchettano e lo spediscono. Tutto completamente gratis. Solo lo stampatore e le poste italiane vengono pagati (poco). Migliaia di transazioni economiche mancano all’appello a fine anno nel calcolo del PIL. Centinaia di stipendi non vengono conteggiati nella “misura della ricchezza nazionale” e molti consumi di beni e servizi vengono a mancare nei calcoli statistici. I loro stili di vita, poi, rischiano di aggravare ulteriormente la situazione economica: evitano la produzione di rifiuti, riducono i consumi di energia elettrica, di benzina e di gasolio per i riscaldamenti. Molti di loro evitano di acquistare merci ogni volta che possono autoprodursi, riparare o riutilizzare qualcosa. Bevono l’acqua del rubinetto, ai loro bambini danno torte fatte in casa al posto delle merendine, comprano latte e detersivi alla spina, per le loro creature usano pannolini lavabili, spendendo un terzo di quanto spenderebbero utilizzando pannolini usa e getta. Spengono gli apparecchi elettronici invece di lasciarli in “stand-by”, usano lampade a basso consumo e le spengono quando non servono. Alcuni usano addirittura la bicicletta azzerando i consumi di carburante. I più arditi si cuciono qualche vestito. Molti fanno compere ai
PUNTO VERDE a cura di sandro marano << Scientificamente non può evitarsi l’ipotesi di una fine della nostra civiltà, da porsi sullo stesso piano della fine di tutte le civiltà che storicamente hanno preceduto la nostra. Non è facilmente pensabile, infatti, che la nostra civiltà,
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nata in una certa epoca, non sia destinata, come tutto ciò che nasce, a una morte più o meno prossima o remota. >> Ugo Spirito, Storia della mia ricerca La scienza, incontrando la storia, apprende la virtù della modestia.
mercatini dell’usato o si donano reciprocamente vestiti e oggetti che non usano più. I più fortunati hanno un giardino in cui riciclano gli scarti organici ottenendo fertilizzante che usano nell’orto familiare. Altri si fanno il pane in casa, spendendo meno di un euro al chilo, autoproducono marmellate, conserve, liquori trasmettendo di generazione in generazione il saper fare dei nonni. Conservano identità e tradizioni, si cibano quasi escusivamente di prodotti locali, spesso acquistati direttamente dai contadini, contribuendo a sostenere le economie agricole dei territori in cui vivono. Non hanno bisogno di ogm, preferendo il sapore naturalmente intenso dei prodotti di stagione. E mentre perpetuano l’antico sapere, maneggiano innovativi pannelli fotovoltaici e lampade a LED, parlano di cogenerazione, di microeolico e delle ultime novità nella produzione di biogas dagli scarti organici. Intanto, fanno rete su internet alimentando un vorticoso scambio di informazioni. Fondono innovazione e tradizione con una semplicità disarmante. Il loro impegno per ridurre i consumi e il PIL sta cominciando a trasformarsi in nuove occupazioni: alcuni di essi installano pannelli solari, vendono filtri per bere l’acqua del rubinetto anche in situazioni critiche, coltivano prodotti biologici e fanno gli apicoltori. Sono protagonisti di una economia rinnovata, libera dal paradigma della crescita dei consumi ad ogni costo e dello sviluppo senza limiti. Quella che stanno costruendo è una economia locale, comunitaria, del dono e delle relazioni, che riporta il mercato alla sua dimensione fisiologica limitandone l’ipertrofismo e l’invadenza. È una economia conservativa e non dissipativa, circolare e non lineare, caratterizzata dall’utilizzo di beni e non dal consumo di merci. Ottenendo grandi risparmi economici, qualcuno comincia a liberarsi lentamente dalla schiavitù del lavoro salariato, riuscendo a liberare tempo da dedicare a relazioni umane e familiari. Così, non hanno bisogno di essere precotti, prelavati, surgelati, non hanno additivi e non hanno il “pratico dispenser”. Sono genuini come il loro entusiasmo e la loro capacità di indignarsi ancora, nonostante tutto. Non sono di moda, non fanno “status symbol” eppure sono estremamente attuali. Di più, sono capaci di futuro. Si sono lasciati alle spalle il novecento con il suo carico di polverosi schematismi politico-ideologici. Sono stati fascisti e comunisti, cattolici e anarchici, scout e ultras. Oggi forse sono solo ecologisti. Non dividono, ma condividono. Saltano steccati in nome della ragionevolezza e del buon senso. Liberati dal fardello di sprechi e consumi inutili, saltano molto in alto, con leggerezza ed eleganza. Non si limitano a delegare, ma si fanno parte attiva delle loro proposte di cambiamento. Prima ancora di esprimere critiche e dissenso, si assumono le loro responsabilità in ogni piccolo gesto quotidiano. Non dicono mai no senza avere una controproposta alternativa concreta, collaudata e praticabile. Sono rimasti gli unici, insieme ai Cristiani, a chiedersi cosa avverrà dopo la loro dipartita, preoccupandosi del destino delle generazioni future. Serenamente e con il sorriso sulle labbra, stanno facendo una vera e propria rivoluzione. Sono i volontari di Fare Verde. Pacatamente rivoluzionari. Età: dai 6 mesi ai 70 anni. Ceto sociale: tutti. Distribuzione territoriale: da Bolzano a Ragusa, da Cagliari a Pristina. Una comunità in cammino verso un futuro migliore. Per tutti. Fare Verde è una comunità aperta al contributo di tutti. Per farne parte, contattaci: 06 700 5726 - info@fareverde.it
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Da una società dei rifiuti ad una società sostenibile. Il vuoto a rendere e i suoi nemici.
di sandro marano
Ogni anno in Italia produciamo circa 30 milioni di tonnellate di rifiuti solidi urbani. I soli imballaggi si avviano a costituire quasi il 50% del totale dei rifiuti. Non gravati da alcun disincentivo economico a carico di produttori e consumatori, i contenitori usa e getta hanno invaso gli scaffali di supermercati e negozi. Il deposito cauzionale sul vuoto a rendere è il mezzo più efficace per il ritiro dei contenitori ed il ritorno al loro produttore e consente ritorni oltre il 90%, percentuale irraggiungibile per le raccolte differenziate italiane di plastica, alluminio o vetro. In una famosa commedia di Jonesco intitolata “Amedeo o come sbarazzarsene” si racconta di una famiglia che, trovandosi in casa un cadavere, cerca di sbarazzarsene buttandolo fuori dalla finestra. Sennonché, a mano a mano che cerca di spingerlo fuori dalla finestra, il volume del cadavere aumenta sempre più. E’ questa una metafora del problema che la nostra società consumistica, ribattezzata in modo incisivo da alcuni autorevoli ecologi (tra cui l’italiano Giorgio Nebbia) “società dei rifiuti”, si trova ad affrontare con l’aumento esponenziale dei rifiuti. Dopo anni di dibattiti, di campagne per la raccolta differenziata, di proteste dei cittadini per la riapertura di discariche o la costruzione di inceneritori, che sarebbero la più appropriata soluzione tecnica a detta di taluni esperti e politici, i rifiuti sono ancora un problema, ed anzi una vera e propria emergenza in molte regioni italiane. Ogni anno in Italia produciamo circa 30 milioni di tonnellate di rifiuti solidi urbani. Stile di vita, precisi interessi commerciali, pressappochismo dei politici, di sinistra e di destra, impediscono un corretto approccio al problema, mentre il moltiplicarsi di imballaggi di ogni tipo, anche difficilmente riciclabili (come i poliaccoppiati, tetrapak in testa), ha portato, negli ultimi vent’anni, ad un raddoppio della produzione dei rifiuti. I soli imballaggi si avviano a costituire quasi il 50% del totale dei rifiuti. Non gravati da alcun disincentivo economico a carico di produttori e consumatori, i contenitori usa e getta hanno invaso gli scaffali di supermercati e negozi ed aggravato il sistema di raccolta e smaltimento dei Comuni. Il risultato è stato che produttori e distributori si sono alleggeriti dei costi di gestione del ritiro dei vuoti e allo stesso tempo hanno scaricato sulla collettività il costo economico ed ambientale degli imballaggi e dei vuoti a perdere, di fatto pagati due volte dal consumatore: all’atto dell’acquisto e dopo, come rifiuto, con la tassa di smaltimento. Il cuore del problema non è come smaltire i rifiuti, è molto prima, è come viene progettato il prodotto. Se i produttori si preoccupano soltanto che il prodotto costi poco, sia leggero ed attraente per il consumatore, ma se ne fregano della fine che fa dopo l’uso, continueremo a rincorrere un problema che via via avrà dimensioni e difficoltà di soluzione sempre più grandi. Eppure, come scrive Giorgio Nebbia: “i rifiuti sono merci usate, costituite dagli stessi materiali e molecole che erano presenti nelle merci nuove e che, in via di principio, potrebbero essere riutilizzate quasi integralmente.” Non dobbiamo dimenticare che la responsabilità dell’immissione sul mercato di un prodotto e di un imballaggio è di chi lo produce e lo distribuisce, non certo della collettività e dell’ente locale che subisce l’invasione. E’ proprio necessario, ad esempio, che un cioccolatino debba essere avvolto da una stagnola, adagiato in un contenitore di plastica, racchiuso in una scatola di cartone, e che questa sia a sua volta cellofanata? Non potrebbero tutti questi imballaggi essere sostituiti da uno solo? Non a caso nelle direttive europee, in particolare nella 94/62 recepita dal Decreto Ronchi, si fissa una graduatoria nei criteri di gestione dei rifiuti, che pone in primo luogo la riduzione degli imballaggi e dei rifiuti; mentre gli inceneritori sono posti in coda dopo il riuso, il riciclo e il recupero di materie prime e solo prima delle discariche! Limitarsi a costruire inceneritori, come auspicato da alcune parti politiche, magari chiamandoli in modo tartufesco termovalorizzatori per utilizzare l’energia che producono, senza una seria e complessiva politica di riduzione e di recupero dei rifiuti, vuol dire che tra alcuni anni ci troveremo a dover costruire altre discariche e altri inceneritori. Questi ultimi, infatti, non fanno che spostare il problema: riducono la massa dei rifiuti, ma le ceneri residue - circa un terzo di quanto viene bruciato - abbisognano di discariche speciali ed i fumi, malgrado le più avanzate tecnologie, contengono sostanze nocive quali le diossine. Pur non essendoci in questo campo bacchette magiche, ci sono tre proposte fondamentali per una società sostenibile elaborate dagli ambientalisti, che vanno prese in seria considerazione: il vuoto a rendere con cauzione per la riduzione a monte dei rifiuti; la raccolta
differenziata dell’organico per avviarli al compostaggio; e la leva fiscale per orientare i consumatori verso comportamenti ecologicamente compatibili. Esaminiamo in questa sede la prima proposta. Come scrive Paolo Colli, già vicedirettore dell’ARPA Lazio e fondatore dell’associazione ambientalista Fare Verde, “il principio sembra perfino banale: se vuoi che una cosa non venga abbandonata, applica sulla sua restituzione un premio a chi la riconsegna e vedrai che quella cosa verrà restituita in percentuali altissime. Il vuoto a rendere su cauzione consente ritorni oltre il 90%, percentuale irraggiungibile per le raccolte differenziate italiane di plastica, alluminio o vetro” (Troppi nemici zero resa, in Gaia autunno 2004). Il vuoto a rendere è un sistema che prevede una cauzione versata al momento dell’acquisto di una bevanda in contenitore. Tale cauzione è restituita nel momento in cui il contenitore viene ridato al venditore in modo che possa essere riutilizzato più volte senza diventare rifiuto. Il deposito cauzionale sul vuoto a rendere è il mezzo più efficace per il ritiro dei contenitori ed il ritorno al loro produttore, com’è dimostrato dai risultati eccellenti, con percentuali di resa dall’80 al 90%, raggiunti in altri paesi europei del Nord Europa, dalla Germania all’Olanda ai Paesi Scandinavi. Allo stesso tempo è un’efficiente misura di prevenzione per correggere comportamenti ecologicamente scorretti. I contenitori usa e getta (plastica, tetrapak, alluminio) si sono imposti sul mercato grazie alla loro leggerezza. Ma questa leggerezza diventa un problema subito dopo il consumo: il contenitore usa e getta fa lievitare i costi della raccolta e dello smaltimento, in particolare per i materiali non biodegradabili, come la plastica e i poliaccoppiati. Al contrario i contenitori a rendere presentano notevoli vantaggi: 1) il contenitore non diventa rifiuto, quindi non grava sui costi di raccolta e smaltimento dei rifiuti e non va ad intasare discariche e ad alimentare inceneritori; 2) fa risparmiare le materie prime che sarebbero necessarie per produrre altri contenitori; 3) la sterilizzazione delle bottiglie a rendere richiede circa 60 volte meno energia rispetto alla produzione di nuove bottiglie; 4) garantisce un corretto comportamento del consumatore indotto dalla cauzione a restituire il vuoto con percentuali superiori a quelle che può offrire la raccolta differenziata. Per quanto riguarda poi la leggerezza, che è l’argomentazione principale di chi si oppone al sistema del vuoto a rendere, va rilevato che il vuoto a rendere non è solo in vetro, ma anche in altri materiali: in Germania e in Olanda ad esempio la Coca Cola commercializza il suo prodotto in bottiglie sottoposte a cauzione in PET rigido che vengono riutilizzate tali e quali; e in Alto Adige le aziende di distribuzione del latte utilizzano bottiglie in policarbonato, che consente un riuso fino a 90 volte con una cauzione di 0,75 euro. In Italia, le esperienze del vuoto a rendere sono sporadiche e confinate a poche aree geografiche non essendo previsto, a differenza di quanto avviene nella maggior parte dei paesi europei, un sistema a rendere. Emblematico è il caso della birra: ”alcuni anni fa - scrive ancora Colli - il tentativo di introdurre in Italia il vuoto a rendere per i contenitori primari per birra - su cui erano d’accordo gli stessi produttori di birra - fu stoppato per le barricate subito alzate dalle lobbies della grande distribuzione e della plastica che con le loro pressioni sui parlamentari di tutti gli schieramenti fecero naufragare l’iniziativa al senato.” Gli avversari principali del vuoto a rendere in Italia sono alcuni settori del commercio, in particolare la grande distribuzione, che vedrebbero aumentare i costi di gestione; e i produttori di contenitori in plastica, che dovrebbero modificare i propri prodotti. I beneficiari sarebbero la stragrande parte della popolazione, altri settori della produzione (vetro, policarbonato, PET rigido) e l’ambiente. Che cosa suggerirebbe, dunque, l’interesse nazionale?
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Chi inquina di più: noi o le automobili? Una automobile, per quanto inquinante possa essere, se è ferma non inquina. Non è la macchina in sé che inquina, ma quanto noi la usiamo. Se tutti utilizzassimo di più le gambe, la bicicletta, i mezzi pubblici urbani ed il treno potremmo avere ancora le vecchie automobili a carburatore che, utilizzate solo per lo stretto indispensabile, potrebbero ancora regalarci il piacere di guida che tanto ci manca. di gianpaolo persoglio
il trasporto civile privato è responsabile
12%
del delle emissioni su scala mondiale
L’altro giorno chiacchieravo con il mio amico Marco che, conoscendo il mio impegno ambientalista, mi ha posto alcune domande sulla questione automobili ed emissioni: “Io sinceramente non capisco – inizia – perché ci convincono che un’automobile acquistata non più di due anni fa adesso è già vecchia ed inquinante, e ci costringono così ad acquistarne una nuova che non risolve certo il problema, ma al massimo inquina un po’ meno. A me sinceramente piace la guida sportiva e più il tempo passa più vedo le prestazioni sacrificate, ma il problema dell’inquinamento di certo non diminuisce, anzi. Ti dico la verità, se arrivasse qualcuno e mi dicesse di comprare una automobile che fa al massimo i centodieci ma inquina zero, io sacrificherei la mia indole sportiva e lo accetterei di buon grado, ma così come vanno le cose adesso mi sembra un po’ una presa in giro.” Io l’ho guardato e abbozzando un sorriso gli ho detto: “Caro mio, adesso ti dico una gran banalità: una automobile, per quanto inquinante possa essere, se è ferma non inquina. Non è la macchina in sé che inquina, ma quanto noi la usiamo. Vuoi sapere come stanno le cose secondo me? Che se tutti utilizzassimo di più le gambe, la bicicletta, i mezzi pubblici urbani ed il treno potremmo avere ancora le vecchie automobili a carburatore che, utilizzate solo per lo stretto indispensabile, potrebbero ancora regalarti il piacere di guida che tanto ti manca.” Prendetela come una provocazione o come un paradosso, ma non si discosta molto dalla realtà. Il vero paradosso è, secondo me, quello di cui ci vogliono convincere i costruttori e non da meno i Governi e le Pubbliche Amministrazioni: che se siamo possessori di una automobile Euro 5 siamo ecologisti, di più, se ne rottamiamo una ogni due anni per adeguarci alle direttive della UE che si susseguono come i numeri della tombola, siamo dei veri benefattori per l’ambiente. E pace se percorriamo 40.000 km l’anno, se usiamo l’auto per andare a comprare il giornale a 400 mt da casa, se passiamo più tempo a colloquiare con il TomTom (a proposito, la mia si chiama Chiara) che con nostro figlio. Qualcuno pagato per pensare e prendere delle decisioni (possibilmente in questo ordine) si dimentica anche che per fabbricare automobili si impiega energia, si emette CO2, si utilizzano risorse non rinnovabili. Ci si dimentica anche che rottamare automobili significa creare spazzatura né riutilizzabile né riciclabile, in quanto l’ostracismo verso le auto con “pochi euro” disincentiva il mercato dell’usato. La legge del marketing e della pubblicità, cioè l’unica realmente in vigore nel nostro tempo in quanto l’unica che garantisce uguaglianza per tutti basta che spendano soldi e comprino qualcosa - ha capito per prima che il tema ambientale, prima che qualcuno cominci a capire qualcosa, va sfruttato per convincere la gente a spendere e a consumare di più. Ed amen se consumare in questo caso vuol dire anche inquinare: ti convinco che per tutelare l’ambiente è necessario non rispettare l’ambiente. Fantastico. Una volta su un muro ho letto: “combattere per la pace è come fottere per la verginità”.
PEDIBUS: A SCUOLA IN ALLEGRIA Il Pedibus - o Piedibus – è il modo più sano, sicuro, divertente ed ecologico per andare e tornare da scuola. Nato in Danimarca e sviluppatosi in Nord Europa e negli Stati Uniti, si sta diffondendo con successo anche in Italia. Da Aosta, Piacenza, Mestre, Ferrara, Treviso giungono risultati davvero incoraggianti. Il Pedibus è uno scuolabus che va a piedi, è formato da una carovana di bambini che vanno a scuola in gruppo accompagnati da due adulti, un “autista” davanti che regge una corda ed un “controllore” che chiude la fila. Seguendo un percorso stabilito a orari prefissati ed in punti precisi segnalati da appositi cartelli i piccoli studenti “salgono a bordo” afferrando un semplice anello della corda. I bambini devono indossare cappellino e pettorina e, una volta saliti, possono scendere solo arrivati a scuola. L’iniziativa e la disponibilità di alcuni volenterosi genitori è il motore di queste allegre carovane: grazie a loro i singoli progetti si sono già realizzati in numerose città d’Italia incontrando immediato successo. Il Pedibus consente infatti di socializzare, arrivare a scuola in allegria e superare piccole paure scolastiche, conoscere il proprio quartiere e - per chi viene da più lontano – scoprire una nuova zona della città. Neanche la pioggia li ferma: muniti di ampie mantelline a Treviso i bambini effettuano il loro percorso dando uno schiaffo morale agli automobilisti attoniti che li vedono attraversare la strada. Tutta la città ne trae beneficio: il traffico davanti alle scuole si decongestiona, l’inquinamento si riduce, una nuova generazione riscopre il piacere di camminare imparando regole di sicurezza stradale e acquisendo autonomia e consapevolezza. E la corda si allunga! Sempre più bambini vogliono partecipare, spesso coinvolti dai compagni di classe. Come recita la filastrocca del progetto Pedibus a Treviso:.. “I nostri piedi sono il motore e non facciamo mai rumore. Il nostro gasolio è molto gradito perché lascia il mondo pulito!”.
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di marina mele
I numeri sono freddi e noiosi, ma spesso ci aiutano a capire le reali dimensioni delle questioni: il trasporto civile privato (cioè le automobili che possediamo e usiamo) è responsabile del 12% del totale delle emissioni di CO2 al mondo. Il problema è che più va avanti la tecnologia più questa % tende a salire, come è possibile? Pensate che negli ultimi 20 anni siamo stati capaci, con enormi spese di ricerca e sviluppo, di fare in modo che i motori riuscissero ad inquinare fino al 92% in meno. Attenzione, quando parlo di inquinamento parlo di emissione di gas nocivi quali monossido di carbonio e ossidi di azoto, non di CO2. La CO2 non è intesa come gas nocivo in senso stretto, nel senso che non provoca danni diretti al nostro organismo, mentre sappiamo benissimo come influenza lo stato del nostro pianeta e i conseguenti mutamenti sul clima. Come già scritto in questa sede precedentemente, la produzione di CO2 dipende solo dalla quantità di carburante bruciato e negli ultimi anni le nostre “virtuose” automobili non hanno fatto certo registrare dei miglioramenti così eclatanti. Anzi, a causa della mania ad ingrandire le dimensioni (vedi i SUV) ed a rimpinzarle di gadget ed accessori le auto pesano sempre di più ed hanno dei coefficienti aerodinamici sempre peggiori, se la fisica rimane una scienza esatta, il consumo inderogabilmente aumenta. Ma non c’è solo questo: da quando nel mondo dell’economia sono apparse le industrie automobilistiche, uno dei fattori di maggiore impatto sullo sviluppo di un paese è stato sempre l’andamento della produzione e vendita di automobili. Non è un mistero che la crescita del PIL in Italia degli ultimi anni sia coincisa con il rilancio della Fiat e tutte le economie dei paesi europei sono fortemente caratterizzate dalle performances delle case automobilistiche “di bandiera”. Se tutti i governi non fanno altro che perorare la causa dello sviluppo e della crescita del PIL si può capire come non si faccia altro che incentivare l’acquisto di automobili. Il mercato sale, in Europa e in Italia in primis aumentano le automobili ed il bilancio ecologico, nonostante le tecnologie remino a favore, è sempre più in rosso. Da qui è facile capire come lo sviluppo accelerato che si registra in Asia non possa che peggiorare lo scenario a livello globale, in quanto i mercati vergini di Cina e India sono teatro di sfide tra le più grandi Case Automobilistiche per accaparrarsi le fette più grandi di una torta che di per sé è potenzialmente enorme. Di certo nella questione delle responsabilità ambientali le Case godono della visibilità maggiore e per questo sono in un certo senso obbligate a mostrarsi attente e pronte ai cambiamenti. La realtà è che il mondo dell’automobile è quello che si muove con lentezza maggiore, se pensiamo che l’efficienza energetica dei motori a scoppio, cioè quelli utilizzati nel 99% delle auto circolanti, è la stessa di inizio secolo. Certo, pesa la dipendenza dalla lobby del petrolio dalla quale non è così facile smarcarsi, ma questo è un discorso spinoso che ci riserviamo di affrontare in separata sede. Sta di fatto che la questione ambientale, che per le Case Automobilistiche poteva essere un potenziale svantaggio, si sta rivelando al contrario un eccezionale vantaggio competitivo per vendere di più. Eppure siamo noi che alla fine potremmo decidere e valutare cosa è più giusto fare, ma non siamo certo aiutati dal mondo politico che incentiva la rottamazione e l’acquisto delle Euro 5, piuttosto che indirizzare i cittadini verso il consumo critico e la scelta di stili di vita meno impattanti. Cosa succede in giro Eppure nel vasto mondo dell’automobile qualcosa si muove, magari non sempre avendo ben chiari gli obiettivi o utilizzando gli strumenti giusti ma si rilevano segnali di vita intelligente. Tempo fa il mensile Quattroruote, il più attento di tutti ai temi ambientali, pur non facendo cenno a diminuzione dei consumi e stili di vita, ha dato il la ad una iniziativa comunque meritevole, creando ed adottando una foresta di 240.000 mq nel parco del Ticino. Per informazioni potete cliccare su http://www.impattozero.it. I lettori e gli abbonati contribuiscono, acquistando la rivista, a piantare e manutenere gli alberi, Quattroruote dal canto suo si prodiga nell’elargire consigli su come, nell’uso quotidiano dell’automobile, si possono diminuire i consumi e le emissioni di CO2. Un’altra iniziativa meritevole la realizza la Renault: sempre dal mensile Quattroruote si legge che la Casa Automobilistica francese ha adeguato i suoi stabilimenti alle normative ISO 14001, sistema di certificazione ambientale che valuta tutto il processo di produzione di una automobile. Stando ai dati fornita dalla Renault l’efficientamento dei processi produttivi degli ultimi 10 anni ha portato a significativi miglioramenti: per ogni veicolo prodotto sono stati ridotti del 25% il consumo di energia, del 57% quello di acqua, del 65% il volume dei rifiuti, del 38% quello dei composti organici volatili (prodotti nelle fasi di verniciatura) e del 44% quello dei prodotti tossici nelle acque reflue. Dato che le attività dei fornitori esterni incidono per l’80% del costo di fabbricazione, anche queste aziende vengono coinvolte nel processo virtuoso.
Premio cubatura: rischi e opportunità Se non si mette mano all’efficienza del patrimonio edilizio esistente, il problema energetico in Italia non si risolverà mai: il 42% del fabbisogno energetico e il 50% del gas naturale sono fagocitati dagli edifici non a destinazione produttiva. Per questo, il premio di cubatura è uno strumento utilissimo se usato con intelligenza e per priorità vere (quelle energetiche), se sottoposto a rigorosi controlli, se limitato a specifici ambiti. Se tutto questo non c’è si tratta solo di speculazione, disinteresse del territorio, disprezzo del concetto di “bene pubblico”. Partiamo con una premessa: se non si mette mano all’efficienza del patrimonio edilizio esistente, il problema energetico in Italia non si risolverà mai. I dati dell’Unione Europea sono chiari: il 42% del fabbisogno energetico e il 50% del gas naturale sono fagocitati dagli edifici non a destinazione produttiva. L’Italia si trova ad avere uno sterminato patrimonio edilizio assolutamente obsoleto dal punto di vista energetico. Secondo l’ISTAT sono poco meno di 12 milioni gli edifici residenziali, per circa 27 milioni di alloggi, 3 milioni dei quali costruiti negli ultimi 10 anni con effetti urbanistici talvolta devastanti, come nella pianura padana oggetto di uno sprowling urbano che ha antropizzato invasivamente tutto il paesaggio, o lungo le aree costiere. Per climatizzare e servire di acqua calda questo sterminato patrimonio edilizio ci vogliono più o meno 20-25 metri cubi di metano (o altrettanti litri di gasolio) per metro quadrato all’anno. E questo a fronte di impegni economicamente onerosi che l’Italia ha sottoscritto con le Nazioni Unite (protocollo di Kyoto) e con l’Europa (pacchetto “3x20”) per l’oramai ineludibile lotta ai cambiamenti climatici i cui effetti sono sotto gli occhi di tutti. Le stime sul debito accumulato dall’Italia per un’assenza cronica di strategie energetiche variano tra i 13 e i 20 miliardi di euro che pagheranno i consumatori finali, da qui a qualche anno, in termini di aumenti di bollette energetiche e quindi, indirettamente, anche del costo finale di tutti i prodotti.
da quelli sopra il 20% della cubatura iniziale) se ne deduce che tutte queste superfetazioni non dovranno essere neppure certificate. L’unico vincolo di legge sarebbe il rispetto delle trasmittanze per tetti, pareti e finestre prescritte dallo stesso D.L. 311 che sono, per inciso, le più alte d’Europa. Ma i casi eclatanti di Veneto, Sicilia e Friuli (ma anche Lombardia e Liguria hanno poco di cui vantarsi) prefigurano l’assalto alla diligenza, dimostrandosi più realiste del re. In Sicilia il Piano Casa regionale prevede aumenti di cubatura del 45% fino al 90%, in valle d’Aosta idem, in Veneto del 20-40%, in Liguria del 50%, giusto per citare le peggiori. Il tutto senza alcuna contropartita energetica reale e con un unico vero effetto: dare ossigeno per un paio d’anni alle imprese edili a tasso di innovazione praticamente nullo.
La cosa più razionale che un governo responsabile avrebbe dovuto fare è creare un grande piano di risanamento energetico degli edifici esistenti. Dimezzarne i consumi significherebbe, infatti, uscire definitivamente dalla crisi energetica a beneficio di tutti i settori economici. Un po’ quello che il Parlamento europeo ha cercato di fare. Il 20 aprile ha votato la modifica della direttiva sull’efficienza energetica negli edifici (CE 91/2002) che costringerà tutti a costruire edifici Zero Emission a partire dal 2019 e gli Stati membri a predisporre, entro il giugno del 2011, piani di risanamento energetico delle preesistenze. Ma le difficoltà oggettive non sono poche. La caratteristica dell’edificio-tipo che necessita di un recupero di efficienza energetica (e che percentualmente rappresenta la maggiore quantità di cubatura e di consumo) è la tipologia di condominio con decine di alloggi, costruita dal dopoguerra fino a oggi. Edifici così sono caratterizzati da una proprietà frammentata economicamente, culturalmente e anagraficamente (quindi con possibilità finanziarie e aspettative di vita assai diverse), per la quale ogni intervento che necessita accordi su spese che hanno tempi di ammortamento di una decina d’anni risulta pressoché impossibile. Quindi bisogna trovare incentivi economici mirati.
In sintesi, si consentirà la sopraelevazione di un piano e l’immissione sul mercato della cubatura ottenuta al fine di finanziare il risanamento energetico di quello che c’è sotto. Il tutto con specifiche garanzie: da parte del Comune, che pretende la concessione edilizia, dell’Agenzia CasaClima che in Alto Adige è l’unico soggetto autorizzato a certificare, con un rigoroso protocollo di calcolo e un controllo su tutto il processo (progetto, cantiere, edificio finito). Senza il rispetto del quale (quindi in assenza di corrispondenza tra progetto e prodotto realizzato) non si abilita il Comune al rilascio del certificato di abitabilità. Il premio cubatura è differenziato: se si riqualifica in classe C si ottiene il 15%, 20 se si scende alla classe B. Le simulazioni fatte sono chiare, ai valori immobiliari di Bolzano (2.900-6.000 euro/mq) l’operazione sta in piedi a costo zero per i proprietari anche nelle zone di minore pregio. Un esempio: una palazzina di 40 famiglie che sopraeleva di un piano l’edificio ottiene dalla vendita degli 8 alloggi ricavati dalla sopraelevazione circa 2, 7 milioni di euro (a 3.000 euro/mq). Per montare il cappotto, sostituire tutti i serramenti e la centrale termica, nonché finanziare la sopraelevazione, la spesa complessiva è di 2,6 milioni di euro.
Pur con la buona volontà dimostrata del governo Prodi che, a partire dalla Finanziaria del 2007 ha introdotto i generosi sgravi IRPEF del 55% sugli interventi di riqualificazione energetica, si è ottenuto più il risultato di rianimare un po’ il settore edilizio e far riemergere una parte di lavoro nero, che abbassare davvero il fabbisogno energetico delle case italiane.
Con grande vantaggio per tutti; gli inquilini, che a costo zero avranno per sempre costi di gestione termica perlomeno dimezzati e una valorizzazione dell’immobile; le imprese, che avranno da lavorare per decenni tagliando fuori gli immobiliaristi puri che lucrano in sostanza solo sul valore delle aree ma che non producono lavoro; il Comune, che incrementa le entrate attraverso gli oneri di costruzione e ottiene nel complesso una città più compatta, quindi complessivamente più efficiente perché si opera in zone già abbondantemente infrastrutturate; l’ambiente nel suo complesso, perché a fronte del soddisfacimento del fabbisogno abitativo non si utilizzerà un solo metro quadrato di nuovo verde agricolo o boschivo, riducendo abbondantemente nel contempo le emissioni di CO2.
Dal canto loro, Regioni e Comuni di soldi da distribuire in qualche modo (contributi, sgravi sulle imposte locali) ne hanno sempre meno, o non ne hanno proprio più. Ma dispongono ancora di una moneta preziosissima: la disponibilità di pianificare il territorio, attraverso i Piani Paesaggistici e Urbanistici e i regolamenti edilizi. E quindi era perlomeno logico aspettarsi, da parte dell’Italia, un uso oculatissimo del premio di cubatura o di superficie in cambio del risanamento energetico. E invece arriva il Piano Casa del governo Berlusconi che fa saltare tutto in quasi tutte le regioni Italiane. A parte i casi speciali della Provincia Autonoma di Bolzano, della Toscana e parzialmente della Puglia che ne hanno, di fatto, annullato gli effetti, nel resto d’Italia succede più o meno di tutto. Il Governo, lo ricordiamo, proponeva in sostanza alle Regioni di consentire un aumento volumetrico del 20% praticamente senza nessuna contropartita energetica (la conferenza Stato-Regioni l’aveva limitato successivamente ai 300 mc e solo per edifici fino a 1000 mc), che diventava 40 se si cumulava il bonus del vicino e del 35% se si operava una demoricostruzione ai sensi di qualche generico rispetto di standard di bioedilizia. Il tutto senza concessione edilizia ma solamente attraverso l’autocertificazione. Con ciò si è riusciti ad affossare l’utilizzo potenziale del bonus cubatura come moneta di scambio del risanamento energetico. Anzi, di più; si è ulteriormente peggiorato il nostro obsoleto patrimonio edilizio. Il perché è ovvio. Incrociando, infatti, il Piano Casa con il D.L. 311/06 (che chiede la certificazione energetica per gli ampliamenti a partire
Eppure l’occasione era storica e l’esperienza del Comune di Bolzano – per il quale sono consulente energetico del Piano Urbanistico - credo stia a dimostrarlo. Lo schema normativo in via di adozione è concettualmente semplice e adatto a una città compatta come Bolzano. Non potendo o volendo di fatto intaccare il prezioso verde agricolo che la circonda, la città deve darsi una prospettiva di crescita di tipo verticale a fronte di un fabbisogno abitativo stimato di 3000 alloggi per i prossimi 10 anni.
Per il risanamento degli edifici storici sotto tutela artistica il problema è più complesso. In una seconda fase si vuole attivare una Banca del credito di cubatura interna al Comune che dovrebbe commercializzare i premi di cubatura “virtuale” acquisiti da chi risana energeticamente un edificio storico non ampliabile. Il credito verrebbe ceduto attraverso il tramite esclusivo del Comune a chi costruisce nuovi edifici in aree di trasformazione urbanistica o a chi opera demoricostruzioni. Per concludere; il premio di cubatura è uno strumento utilissimo se usato con intelligenza e per priorità vere (quelle energetiche), se sottoposto a rigorosi controlli, se limitato a specifici ambiti. Se tutto questo non c’è si tratta solo di speculazione, disinteresse del territorio, disprezzo del concetto di “bene pubblico”. Esattamente quello che è successo, per l’ennesima volta, in Italia riconfermando la storia delle sue norme in materia energetica, a partire dalle leggi mai attuate (373/75, L. 10/91) o attuate con enormi difficoltà (vedi 192, peraltro ancora incompleta dopo 7 anni dall’approvazione della direttiva europea). La cosa grave è che quella sugli ampliamenti è un’occasione perduta che non tornerà mai più.
di stefano fattor
Sopraelevazioni per finanziare L’efficienza energetica ricavi da vendita di 8 alloggi ottenuti mediante sopraelevazione di 1 piano di una palazzina di 40 famiglie:
2,7 milioni di euro costi per sopraelevazione, montaggio cappotto su tutto l’edificio, sostituzione di tutti i serramenti, sostituzione della centrale termica:
2,6 milioni di euro
Stefano Fattor, architetto, docente presso la Ia facoltà di architettura del Politecnico di Torino, presso la facoltà di economia dell’Università di Bolzano e presso l’Agenzia CasaClima. Dal 2006 è Consulente del Comune di Bolzano per le questioni energetiche ed ambientali relative al nuovo Piano Urbanistico Comunale (PUC) Da Assessore all’ambiente del Comune di Bolzano, ha promosso “CasaClima” ovvero la certificazione energetica obbligatoria degli edifici introdotta fin dal 2001 nel regolamento edilizio del Comune di Bolzano; Bolzano è il primo comune italiano ad imporre il limite dei 70 kwh/mq/ anno agli edifici di nuova costruzione e alle preesistenze con superfici di intervento pari almeno al 50% del totale
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Dalla culla alla tomba: la metodologia LCA (Life Cycle Assessment) per calcolare l’impatto ambientale Un LCA (Life Cycle Assessment - Analisi del ciclo di vita) è una tecnica quantitativa che permette di determinare fattori d’ingresso (materie prime, uso di risorse, energia, ecc) e d’uscita (scarichi idrici, produzione di rifiuti, emissioni inquinanti) del ciclo di vita di ciascun prodotto, valutandone i conseguenti impatti ambientali. di Gustavo De Renzis
La stragrande maggioranza delle più importanti attività umane che influiscono sull’ambiente sono di fatto difficilmente controllabili, specie a livello planetario: vedi effetto serra e rifiuti. Di qui il ruolo assunto dalla pratica sempre più diffusa d’intervenire sui temi ambientali partendo dal prodotto, inteso “dalla culla”, le materie prime, “alla tomba”, lo smaltimento finale. Il prodotto è in questo modo visto come un filo d’Arianna, che consente di rintracciare in modo esaustivo gli impatti ambientali all’interno del labirinto delle attività umane, in modo da valutarli e mitigarli. La valutazione del ciclo di vita (LCA) è lo strumento che fornisce le necessarie conoscenze sugli aspetti ambientali dei prodotti. Risalgono agli anni sessanta i primi studi sull’analisi del ciclo di vita; fin da allora lo scopo fu quello di riuscire a quantificare le emissioni e gli impieghi di risorse necessari per la produzione e lo sviluppo dei prodotti. Col passare degli anni si è avuta una sempre maggior diffusione dell’impiego di tali tecniche; dovremo tuttavia aspettare gli anni ’90 perché le preoccupanti condizioni ambientali rilevate negli anni ’80, portino, durante il congresso SETAC (Society of Enviromental Toxicology and Chemistry) di Vermount in Canada, a definire compiutamente il LCA e ad impostarne necessarie metodologie di studio. Il Life Cycle Assessment fu definito come “un procedimento oggettivo di valutazione dei carichi energetici ed ambientali relativi ad un processo od un’attività, effettuato attraverso l’identificazione dell’energia e dei materiali usati e dei rifiuti rilasciati nell’ambiente. La valutazione include l’intero ciclo di vita del processo o attività, comprendendo l’estrazione ed il trasporto delle materie prime, la fabbricazione, il trasporto, la distribuzione, l’uso, il riuso, il riciclo e lo smaltimento finale”. Dalla definizione appena fornita riusciamo a comprendere come il processo LCA si fondi su un unico principio padre: un prodotto va seguito e analizzato in ogni fase della sua vita, dalla culla alla tomba, da quando è prodotto a quando è smaltito, in quanto ogni azione associata ad una fase può avere riflessi su fasi precedenti o successive. Un LCA, quindi, è fondamentalmente una tecnica quantitativa che permette di determinare fattori d’ingresso (materie prime, uso di risorse, energia, ecc) e d’uscita (scarichi idrici, produzione di rifiuti, emissioni inquinanti) del ciclo di vita di ciascun prodotto, valutandone i conseguenti impatti ambientali. Attraverso lo studio di un LCA si finiranno allora con l’individuare le fasi e i momenti in cui si concentrano maggiormente le criticità ambientali, i soggetti che dovranno farsene carico (produttore, utilizzatore, ecc) e le informazioni necessarie per realizzare gli interventi di miglioramento. Recentemente è stata pubblicata tra le norme ISO la 14040 che descrive appunto i criteri generali e la metodologia attraverso cui effettuare un LCA, definito come “una compilazione e valutazione attraverso tutto il ciclo di vita dei flussi in entrata ed in uscita nonché i potenziali impatti ambientali di un sistema di prodotto”. A differenza d’altri metodi di valutazione ambientale, il LCA si concentra sul tema economico e sui risultati che esso produce che possono essere definiti in termini di benefici, funzioni o servizi. Per produrre tali risultati, il sistema economico richiede risorse di materiali ed energia e genera emissioni nell’aria, nell’acqua e nel suolo. L’insieme delle risorse e delle emissioni rappresenta l’impatto ambientale del sistema economico Da ciò discende il ruolo della gestione ambientale: aumentare l’efficienza del sistema economico diminuendo l’impatto ambientale. Le applicazioni di LCA riguardano: • Confronto tra sistemi alternativi di prodotto e produzione con la medesima funzione. • Confronto degli impatti ambientali di un prodotto con uno standard di riferimento. • Identificazione degli stadi del ciclo di vita di un prodotto che presenta l’impatto ambientale dominante. • Confronto tra sistemi alternativi per la gestione di rifiuti. • Riduzione dei costi tramite l’individuazione d’aree dove realizzare economie o livelli maggiori d’ottimizzazione. • Comunicazione d’informazioni ambientali.
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In generale un LCA non si usa per: • Risolvere problemi di localizzazione (usare la VIA _ Valutazione di Impatto Ambientale). • Risolvere problemi ambientali di un’azienda (usare la gestione ambientale). • Risolvere problemi di uno specifico processo produttivo. • Rispondere a problemi relativi alla sicurezza e al rischio. I pannelli fotovoltaici: una soluzione davvero sostenibile? Certo che sì, sarebbe la risposta d’istinto. Perché saremmo portati a considerare le tonnellate equivalenti di petrolio risparmiate oppure la quantità di emissioni di CO2 evitate nell’arco della vita utile dei pannelli fotovoltaici. Prenderemmo in considerazione, cioè, solo le fasi di vita legate all’utilizzo dei pannelli fotovoltaici, senza analizzare gli impatti ambientali relativi alle fasi di produzione dei pannelli stessi. Se adottassimo un approccio differente, applicando, cioè, il metodo della Valutazione del Ciclo di Vita, la risposta potrebbe anche non essere positiva La domanda alla base dell’articolo è la seguente: l’energia prodotta dall’impianto fotovoltaico in quanto tempo compensa l’energia consumata dallo stesso impianto, nel suo intero ciclo di vita? Si arriva così a definire l’Energy Pay Back Time (EPBT). Se il valore risultante di EPBT è inferiore al periodo di vita utile dell’impianto, allora ne consegue che i pannelli fotovoltaici costituiscono una soluzione ambientalmente ed energeticamente sostenibile. Assumendo che: • l’energia necessaria per costruire l’impianto fotovoltaico sia pari a 15 MWh/kWp • l’impianto fotovoltaico sia installato e, quindi, produca energia elettrica, a Milano, il valore di EPBT risultante è di 6,7 anni. Considerando che il tempo medio di vita utile di un impianto fotovoltaico supera i 20 anni, ne consegue che possiamo tranquillamente confermare la risposta affermativa alla domanda del titolo. LCA e gestione dei rifiuti Altro settore molto delicato per quanto riguarda gli aspetti ambientali è quello della gestione dei rifiuti. Per utilizzare il metodo LCA a tale attività si scelgono le seguenti principali categorie di impatto: • consumo di risorse naturali (consumi energetici netti, consumi di fonti non rinnovabili, consumi di acqua, occupazione di volumi di discarica); • inquinamento atmosferico (emissioni in aria di polveri, metalli e organici, crescita dell’effetto serra, acidificazione); • inquinamento dell’acqua (scarico di metalli, solidi sospesi e sostanze organiche disciolte, eutrofizzazione); • generazione di rifiuti solidi (di varia provenienza e classe). Il LCA consente di passare da una generica affermazione sulla validità ambientale di un particolare processo di riciclo o di smaltimento, alla quantificazione oggettiva e verificabile del suo (eventuale) vantaggio ambientale... ciò implica la valutazione dei: • carichi generati che provengono, quelli diretti, dalle attività in esame (raccolta e trasporto del rifiuto, selezione e trattamento di riciclo, smaltimento in discarica o termovalorizzazione) e, quelli indiretti, che provengono dai processi di produzione, trasporto e utilizzo di tutto quanto necessita allo svolgimento delle stesse attività; • carichi evitati, ottenuti grazie al risparmio di materiali connesso alle attività di riciclo o a quello di fonti energetiche connesso ai processi di recupero energetico. Ne deriva che l’analisi del ciclo di vita di un sistema di operazioni di gestione rifiuti (o anche di una singola fase di trattamento o di riciclo) produce una valutazione ambientale positiva o negativa. E’ positiva, cioè ci sarà un impatto complessivo evitato che avrà il segno meno, quando i carichi ambientali evitati (rispetto ad un riferimento) sono più grandi di quelli generati. E’ invece negativa, cioè ci sarà un impatto complessivo generato, che avrà quindi il segno più, nel caso opposto.
dossier biocarburanti Se i biocarburanti devono diventare la salvifica soluzione alla nostra insaziabile fame di energia, c’è poco da sperare. Potranno aiutarci ad alleggerire la nostra dipendenza dagli idrocarburi solo se diventiamo consapevoli del fatto che “siamo entrati nell’era dell’energia rara”. La speranza era quella di una “rivoluzione verde” nel campo dei trasporti. Non più una benzina denominata bonariamente “verde” solo perché priva di piombo, ma più propriamente combustibili ecologici e naturali, puliti perché prodotti dalle piante, non inquinanti e soprattutto rinnovabili. Si sperava di aver individuato il carburante del futuro, in grado di farci sopravvivere alla fine del petrolio senza dolorose rinunce alla nostra intoccabile “civiltà dell’automobile”. Facendoci respirare meglio e contribuendo a ridurre le emissioni di gas serra prodotte dall’utilizzo delle fonti fossili. In effetti, il ricorso ai biocarburanti per affrontare i nostri problemi di approvvigionamento energetico costituisce una prospettiva senz’altro interessante. Tanto più in un settore, quello dei trasporti, oggi fondato quasi totalmente sui carburanti di origine petrolifera (benzina e gasolio) e che, a differenza del settore della produzione di energia elettrica, ancora non consente soluzioni alternative date dalle altre fonti rinnovabili (sole, acqua, vento, …). I biocarburanti sono carburanti prodotti dalle biomasse, cioè da produzioni vegetali. Vi rientrano sia gli alcool etilici (l’etanolo, prodotto da colture zuccherine e amidacee – canna da zucchero, ma anche mais, grano, bietola, sorgo zuccherino – ed il metanolo, prodotto essenzialmente dal legno), sia gli oli vegetali, che producono biodiesel (colza, soia, mais, grano, palma, arachidi, senape, jatropha, alghe, …). Biocarburanti sono però anche il biogas (metano sprigionato dalla fermentazione della parte biodegradabile dei rifiuti) ed il diesel ottenuto con prodotti di scarto, come grassi animali o gli oli riciclati. La loro conoscenza, e la consapevolezza di un loro possibile utilizzo, sono di vecchia data: già agli inizi del XX secolo Rudolf Diesel, inventore dell’omonimo motore, si orientava verso gli oli vegetali e all’Esposizione di Parigi del 1900 presentò un motore ad olio di arachidi. Poi, con l’accordo tra produttori di motori e la lobby petrolifera, il mercato fu dirottato totalmente verso il petrolio, comunque più economico, ed i biocarburanti caddero nell’oblio, salvo episodiche sperimentazioni. E’ con la crisi petrolifera che i biocarburanti sono tornati alla ribalta, divenendo la speranza di un mondo assetato di energia. A loro favore spingono una serie di fattori. Intanto, si tratta, si è detto, dell’unica alternativa reale alla benzina nel campo dei trasporti, un’alternativa già oggi praticabile con poche modifiche ai motori. Il loro utilizzo su grande scala consentirebbe di dare una risposta immediata alla crisi del petrolio, lasciando sostanzialmente inalterato il sistema di vita e di consumi della nostra “civiltà dell’automobile”. Si tratta di una fonte più pulita nelle emissioni inquinanti, che genera quindi un minor impatto nell’ambiente immediatamente circostante (il che la rende preferibile agli idrocarburi soprattutto per alcuni usi particolari, come scuolabus, autobus cittadini, navi). Trattandosi di fonti vegetali, sono inoltre meno pericolose anche in caso di sversamento nell’ambiente: a differenza del naufragio di una petroliera, ad esempio, la diffusione nel mare di biodiesel e affini non provocherebbe un disastro ma sarebbe assorbibile in tempi brevi. E, in linea generale, dovrebbero contribuire alla riduzione dei gas serra senza colpire le abitudini delle persone. A loro favore gioca, ancora, il fattore molteplicità. L’energia può essere infatti ottenuta da un’enorme varietà di piante, nonché dal recupero di scarti di lavorazione (oli esausti, rifiuti legnosi, grassi animali …). Potenzialmente, consente, quindi, di utilizzare al meglio le risorse locali, i sistemi produttivi e le economie già esistenti, riciclando anche rifiuti di difficile smaltimento, come gli oli e i grassi animali. 1 A differenza del petrolio o del gas, i cui giacimenti sono presenti solo in alcune aree del pianeta, pressoché ogni paese si trova ad avere potenzialità da sfruttare per produrre energia da sé, riducendo la dipendenza dall’estero. E si tratta di fonti rinnovabili, e questo costituisce un ulteriore punto di forza.
1 La valorizzazione delle colture locali ha caratterizzato soprattutto la fase di sperimentazione sui biocarburanti. I vari paesi hanno quindi puntato sulle loro produzioni più tipiche: colza per l’Europa, mais e soia per gli USA, canna da zucchero per il Brasile, jatropha per l’Africa, olio di palma in Malesia, olio di cocco per le Filippine, grassi animali in Nuova Zelanda ecc. Spesso recuperando tradizioni millenarie, come l’olio derivante dai semi di honge in India, usato per l’illuminazione già al tempo dei Veda.
Trattandosi di agro-energie, i biocarburanti costituiscono infine anche un valido strumento per il recupero di terreni marginali nonché, sul piano socio-economico, un mezzo per ridare ossigeno al mondo agricolo, soprattutto in quei paesi europei dove esso soffre di limiti alla produzione, concorrenza delle importazioni extra-UE, spopolamento delle campagne. Così, da campo di sperimentazione di pochi pionieri, il mondo dei biocarburanti è divenuta la nuova frontiera dell’energia, con i maggiori governi impegnati nel raggiungimento di sempre più ambiziosi obiettivi di produzione. L’Unione Europea ha previsto obiettivi minimi del 5,75% per il 2010 e del 10% entro il 2020; gli USA puntano al consumo di 28,4 miliardi di litri entro il 2012; il Brasile punta all’obiettivo del 5% su tutto il consumo di diesel entro il 2013; l’India mira all’obiettivo del 5% di etanolo in 9 stati; la Cina sta richiedendo una percentuale del 10% di etanolo in 5 province. Una scelta strategica, portata avanti pur nella consapevolezza che il prezzo da pagare è ancora alto. A livello di costi, infatti, i biocarburanti restano generalmente più cari dei combustibili da fonti fossili.2 Un rapporto del FMI, pubblicato nell’ottobre 2007, indicava la convenienza del solo etanolo prodotto da canna da zucchero in Brasile (costo dai 23 ai 29 centesimi di dollaro al litro), mentre tutte le altre fonti, sia di prima che di seconda generazione, risultavano più care della benzina (quotata allora sul mercato USA a 0,34 dollari/litro). Più costosi risultavano anche i biodiesel: se un litro di diesel convenzionale costava 0,41 cent/litro, ci volevano 54 cent per l’olio di palma in Malesia, 66 cent per l’olio di semi di soia in USA e ben 87 cent per la colza in Europa (cfr. tab. 1). A colmare la sconvenienza economica ci pensano, comunque, i governi nazionali che sovvenzionano ampiamente il settore, facendo affluire miliardi di denaro nelle tasche dei coltivatori e di tutti gli altri operatori della filiera agro-energetica. Nel 2006, ad esempio, gli USA e l’UE hanno speso complessivamente ben 11 miliardi di dollari in incentivi al settore. Ed anche per il futuro, si prevedono generose elargizioni. Secondo una previsione dell’International Institute for Sustainable Development di Ginevra, negli USA si passerà dai 6,3-7,7 miliardi di dollari del 2006 ai 16 miliardi del 2014. Complessivamente, saranno circa 92 i miliardi di dollari dati tra il 2006 ed il 2012 sotto forma di sussidi vari a favore dei biocarburanti prodotti negli Stati Uniti.3 Un grosso aiuto all’agricoltura, in particolare ai coltivatori del Midwest, che, per inciso, costituiscono uno dei più importanti bacini elettorali degli Stati Uniti.4 Così, negli ultimi anni, il settore ha avuto un vero e proprio boom. Nel 2008, sono stati prodotti 46 Mtep (Milioni tonnellate equivalenti petrolio) di biocarburanti nel mondo (erano 32 nel 2007). E si diffonde il loro utilizzo. Dalle varie municipalità che impiegano scuolabus e autobus a biocarburanti all’associazione dei tassisti tedeschi, che ha indirizzato i suoi aderenti verso il biodiesel; dal crescente utilizzo per gli automezzi dell’esercito USA, ai treni alimentati a biogas; dalle flottiglie navali alle compagnie aeree (la Virgin, ad esempio, ha annunciato di voler utilizzare biodiesel al 20% per la sua flotta). Fino ad arrivare agli usi “fai da te”, ai vari sperimentatori che utilizzano comuni oli vegetali, in vendita presso supermercati e discount, per alimentare le loro auto diesel in maniera più pulita e più economica. Una diffusione sempre crescente, con la speranza di liberarci finalmente dalla dipendenza dal petrolio.
di giancarlo terzano Ai biocarburanti abbiamo già dedicato 2 approfondimenti (xfare+verde, n. 51, gen-feb 2006 e n. 55, nov-dic 2006, a cura di Giampaolo Persoglio). Torniamo ancora sull’argomento, per evidenziarne alcuni sviluppi e, soprattutto, le forti preoccupazioni che sono emerse sulle ricadute ambientali e alimentari di questa fonte d’energia. Alla fine, si conferma che non esistono “bacchette magiche”, e che l’unico sistema certo per ridurre l’inquinamento è quello consigliato, in premessa, al primo dei due nostri approfondimenti: usare il meno possibile l’auto.
2 A dispetto delle quotidiane preoccupazioni che accompagnano il nostro rifornimento alle pompe di benzina, in realtà tutti gli analisti concordano nel riconoscere che il petrolio costa ancora troppo poco e resta la fonte energetica più conveniente nel campo dei trasporti. 3 International Institute for Sustainable Development, Biofuel at what cost? Government support for Ethanol and Biodiesel in the United States, aggiornamento 2007. 4 Il sostegno agli agricoltori nazionali si esprime anche attraverso le politiche doganali, con l’imposizione di dazi sulle importazioni dei prodotti esteri, in particolare dell’etanolo da canna da zucchero brasiliano, economicamente meno costoso. Una politica di favore che continua a suscitare le reazioni dei paesi più poveri, dando vita ad un contrasto su cui si sono sempre impantanati i vari vertici mondiali su agricoltura e sviluppo.
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USA 0,5
biocarburanti dossier
Altri 1,0 FOOD or FUEL Agli iniziali entusiasmi per aver trovato finalmente un’alternativa al petrolio, stanno però subentrando forti preoccupazioni. La crescente diffusione delle bioenergie crea infatti seri problemi a livello sia alimentare che ambientale. Sul piano alimentare, si sta verificando la temuta competizione tra cibo e combustibili (food or fuel). Nonostante alcune varietà, infatti, possano adattarsi ottimamente a terreni marginali, la maggior parte delle coltivazioni finalizzate a etanolo o biodiesel di “prima generazione” riguarda terreni in precedenza dediti alla produzione a scopo alimentare. Per gli agricoltori (e, su scala più grande, per le multinazionali del settore) è più redditizio coltivare mais, palme, colza o zucchero da destinare ad uso carburante, che coltivare alimenti. Grazie anche alle sovvenzioni pubbliche, di cui, come detto, sono prodighi i vari governi, intenti sia a sviluppare le produzioni energetiche che a dare occasione di reddito ai coltivatori.5 Così è cominciata la corsa alle colture energetiche. In Asia e Sud America, dove, vedremo, avviene spesso ai danni della foresta tropicale. Ma anche nel Nord del mondo. Nel solo 2007, l’Europa ha visto aumentare del 13,6% le aree coltivate a colza rispetto all’anno precedente (+ 31,5 rispetto alla media 2002-2006). Negli USA, la produzione di mais per etanolo è cresciuta del 50% rispetto al 2006, e quasi quadruplicata dal 2002. E, per il futuro, le previsioni parlano di ulteriori aumenti. Secondo il Rapporto sull’Agricoltura 2007-2016, pubblicato da FAO ed OCSE, tra il 2006 ed il 2016 la produzione USA di mais per etanolo raddoppierà, passando da 55 Mt ad oltre 110; nell’Unione Europea si passerà da 4 a 20 Mt (divise tra colza per biodiesel e grano e mais per etanolo); in Canada, da 0,8 a 3,5 Mt; in Cina, da 3 Mt a quasi 8 di mais per etanolo; in Brasile, da 200 a 500 Mt di canna da zucchero. Produzioni quindi destinate a raddoppiarsi o addirittura quadruplicarsi, e che però, nella ineguale distribuzione delle risorse della società mondiale, saranno sottratte al mercato alimentare per essere destinate al consumo energetico. Eloquente, in tal senso, quanto accaduto per il mais, la cui produzione mondiale, tra il 2004 ed il 2007, è aumentata di 51 milioni di tonnellate. Tale aumento, tuttavia, è stato quasi completamente assorbito dai consumi di biocarburante negli USA (per 50 milioni di tonnellate), mentre per le accresciute esigenze alimentari è stato necessario ricorrere alle scorte, che oggi sono scese al livello più basso degli ultimi 25 anni.
Tab. 1 - Costi e benefici della produzione di biocarburanti costi
benefici ambientali
costo (dollaro USA per litro)
quota percentuale del costo della materia prima sul costo totale di produzione
riduzione percentuale di emissioni gas serra rispetto a fonte fossile
addizionale di energia creata
0,23-0,29
37
-91
1,7
mais (USA)
0,40
39-50
-18
1,22
grano (UE)
0,59
68
-47
1,1
barbabietola da zucchero (Europa)
0,76
34
-45
1,7
rifiuti di cellulosa
0,71
90
-88
8,2
0,34
73
0
0
olio di palma (Malesia)
0,54
80-85
-70 / -110
5,1
olio di semi di soia (USA)
0,66
80-85
-70
3,8
olio di colza (UE)
0,87
80-85
-21 / -38
3,8
0,40-0,65
80-85
-100 / -120
7,3
0,41
75
0
0
carburante
Etanolo da: canna da zucchero (Brasile)
benzina (mercato USA) Biodiesel da:
jatropha (India) diesel (mercato USA)
Fonte: Fondo Monetario Internazionale, World Economic Outlook (ottobre 2007) La conseguenza immediata – paradossale se si pensa che la produzione mondiale è complessivamente aumentata - è stata il grave aumento dei prezzi alimentari. Nel triennio 2005-2008, secondo la Banca Mondiale, i prezzi alimentari sono complessivamente saliti dell’83%. In testa agli aumenti sono i prodotti base dell’alimentazione: il grano, ad esempio, è aumentato del 181% (+40% nel 2007, nonostante nell’anno si sia registrato un raccolto record, con un +4,6% rispetto all’anno precedente); il riso ed il mais sono raddoppiati. Ma l’inflazione alimentare colpisce, a catena, tutto il settore. Vengono così coinvolti anche i prodotti succedanei, quelli chiamati cioè a sostituire i prodotti carenti, come il granturco al posto della soia negli USA. E vengono coinvolti i prodotti in qualche modo derivati, come carne e latte, fortemente dipendenti dalle colture cerealicole. A determinare l’aumento dei prezzi alimentari, in realtà, non è solo la competizione delle agroenergie. Anche altri fattori influiscono in tale direzione: il susseguirsi di cattivi raccolti a causa dell’accresciuta instabilità del clima, la riduzione delle scorte alimentari, l’aumento del costo 5 I maggiori sussidi diretti all’agricoltura sono quelli dei governi europei e statunitense. Nella UE, i terreni coltivati con colture energetiche godono di un contributo di 45 €/ha. Negli USA, la Federal Small Producer Tax Credit prevede un credito erariale fino a 1,5 milioni di dollari (10 cents a gallone sui primi 15 milioni di galloni prodotti) per i piccoli produttori, dove “piccoli” significa che non producano più di 60 milioni di galloni annui. Nel paese esistono comunque varie altre forme di aiuti, federali o di singoli Stati, agli agricoltori, sia diretti - come quelli sui consumi d’acqua o sui terreni – che indiretti.
8
Brasile 0,3 Italia 0,2
Francia 1,2
Germania 3,6
Produzione MOndiale di biodiesel (nel 2007, in Mtep) dell’energia e dei fertilizzanti, le speculazioni finanziarie, che non risparmiano neanche questo settore vitale. E determinante è anche l’aumento di ricchezza in alcuni paesi in via di sviluppo, Cina e India in testa, in cui sempre più crescenti fasce della popolazione chiedono accesso ad un’alimentazione “ricca”, con forte consumo di proteine animali, per produrre le quali occorrono enormi quantitativi di proteine vegetali.6 Ma tutte le analisi concordano nell’indicare nella crescente domanda di biocarburanti una delle cause maggiori dell’inflazione alimentare. Anche perché si tratta di un fenomeno che, lungi dall’esaurirsi nel breve periodo, sembra destinato a caratterizzare anche gli anni futuri, in quanto la domanda di energia sostitutiva del petrolio resterà centrale ancora per molto tempo. Così, la Banca Mondiale prevede aumenti anche per i prossimi anni, mentre solo nel lungo periodo si dovrebbe raggiungere una stabilizzazione per un adeguamento dell’offerta, comunque a prezzi più alti dai livelli del 2004. (Rising Food Prices: policy options and World Bank Response, aprile 2008). Il caro-alimenti ha portata generale, e, in un’economia globalizzata, ha colpito in tutto il mondo. Anche da noi, in Italia, con pasta, pane e derivati, ma anche carne e latte, divenuti, dall’estate 2007, più pesanti. Ma a farne maggiormente le spese sono stati i paesi (e le popolazioni) più poveri. Più una società è povera, maggiore è la quota di spesa che destina all’alimentazione. In Italia, dove la spesa alimentare incide tra il 15 ed il 20% dei consumi delle famiglie, gli aumenti dei generi alimentari si sono fatti sentire ma senza provocare, in genere, effetti drammatici. Ma nei paesi poveri, dove anche l’80% della spesa complessiva può arrivare a riguardare il cibo, gli aumenti stanno rappresentando un gravissimo problema. Al punto da sfociare in tensioni e talora sanguinose rivolte: da quella denominata delle tortillas in Messico, a quelle in Guinea, Mauritania, Marocco, Senegal, Uzbekistan, Yemen, Costa d’Avorio, e poi ancora Filippine, Burkina Faso, Haiti, l’Egitto: un lungo elenco di rivolte (sono 33, secondo la Banca Mondiale, i paesi a rischio insurrezione per il caro cibo) in nome dell’accesso al pane, al mais, alla soia, al riso, all’olio di palma, ai vari prodotti base dell’alimentazione nazionale, diventati rapidamente più cari per via della crescente domanda di biocarburanti. Gli organismi internazionali lanciano l’allarme: l’aumento dei costi alimentari rischia di compromettere i risultati finora ottenuti nella lotta alla povertà e malnutrizione.7 Durante i lavori della scorsa primavera della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, Robert Zoellick, presidente della World Bank, si presentò all’incontro con i giornalisti con un sacchetto di riso ed una pagnotta di pane, e volle ricordare come, mentre in alcuni paesi la gente si preoccupava di come riempire di carburante i serbatoi, in altri ci si preoccupasse di come riempire gli stomaci, operazione ogni giorno più difficile. Lanciando l’idea di un New Deal nelle politiche sull’alimentazione, con l’invito ai donatori per un intervento ulteriore di almeno 500 milioni di dollari di cibo per affrontare l’emergenza. Ancora più provocatorio era stato Jean Ziegler, inviato ONU per il “diritto al cibo”, quando aveva definito la conversione a colture energetiche dei terreni arabili un “crimine contro l’umanità”.8 Sulla scorta delle forti preoccupazioni ambientali e sociali, numerose associazioni ambientaliste ed umanitarie hanno chiesto ai governi, e in particolare all’Unione Europea e agli USA, una moratoria sugli incentivi e sulle importazioni di agricarburanti provenienti da grandi monocolture (anche ogm). La moratoria, che non riguarderebbe i biocarburanti da rifiuti, come il riciclo degli oli o il biogas, né quelli prodotti in modo sostenibile per il consumo di piccole comunità locali, consentirebbe anche di studiare il reale impatto dei biocarburanti di “seconda generazione”.9
6 L’aumento di ricchezza determina nuove abitudini alimentari. 20 anni fa, un cinese consumava 20 kg di carne all’anno, nel 2007 il consumo procapite in Cina è salito a 50 kg. La maggior richiesta di carne provoca un notevole aumento nei consumi di cereali; per produrre infatti 1 chilo di manzo ce ne vogliono 8 di cereali (e 3 per un chilo di maiale). 7 La Banca Mondiale cita l’esempio dello Yemen, dove il raddoppio del prezzo del grano nel 2007 rischia di vanificare tutti i progressi conseguiti tra il 1998 ed il 2005 (Rising Food Prices: policy options and World Bank Response, 2008). 8 Crimine umanitario o no, la scelta di riempire i serbatoi invece delle mense deve far riflettere. Secondo un confronto proposto dal prof. David O’Connor, dell’Università di Melbourne, per alimentare per un anno un essere umano è necessaria una produzione equivalente di 0,5 tonnellate di cereali; alimentare con biocarburanti un’automobile che faccia 20.000 km, con un consumo di 7 litri ogni 100 km, richiederà invece in un anno 3,5 tonnellate di cereali: un consumo 7 volte maggiore di quello dell’uomo! 9 Il testo della moratoria, come anche altre iniziative di mobilitazione sul tema dei biocarburanti, è sul sito www.biofuelwatch.org
Di tutt’altro avviso, del resto, sono le indicazioni del mondo economico e finanziario internazionale, che condiziona le scelte dei governi. La stessa Banca Mondiale, pur denunciando la gravità della situazione, non considera restrizioni sui biocarburanti, ma ripropone le solite riforme strutturali, l’abbassamento dei dazi, la possibilità che le merci circolino liberamente. E a favore dell’importazione di biocarburanti dai paesi asiatici, sudamericani e africani, spinge il Fondo Monetario Internazionale, che allo scopo preme sui governi europei e statunitense affinché eliminino i sussidi agli agricoltori e i dazi sull’importazione. “Si tratta di un fenomeno di mercato: deve avere un naturale decorso attraverso aggiustamenti di domanda e offerta” è la scontata opinione dei grandi economisti internazionali.11 Ma che la soluzione al problema alimentazione delle fasce più povere della popolazione mondiale possa passare per il mercato ci appare quantomeno dubbio. Perché, a fronte di un’offerta di derrate che, anche quando crescente, non sarà mai sufficiente a soddisfare richieste sempre maggiori (ai bisogni alimentari di un’umanità in crescita si aggiunge ora il crescente bisogno di energia sostitutiva del petrolio), la domanda è fortemente squilibrata, e la richiesta di benzina appare molto più forte di quella di cibo: “il mercato risponde al denaro, non ai bisogni, e chi possiede auto ha più denaro delle popolazioni a rischio di sopravvivenza” denuncia George Monbiot (Feeding cars, not people, su The Guardian, 22.11.2004), da anni attento osservatore dello sviluppo delle bioenergie. Così, se la soluzione viene rimessa alla “spontaneità” del mercato, è facile prevedere che anche nel futuro i bisogni primari dei poveri cederanno il passo ai bisogni secondari dei ricchi, e che grandi quantità di derrate alimentari diserteranno le mense povere per finire nei serbatoi dei più ricchi. Continuerà il “crimine contro l’umanità”, e con la benedizione del free trade! Il boomerang ambientale Ma non c’è solo l’allarme cibo. Oltre alle difficoltà alimentari, le colture finalizzate alla produzione di biocarburanti possono essere dannose anche sullo stesso piano ambientale, e, paradossalmente, proprio in riferimento a quelle emissioni di gas serra che si vorrebbe, tramite loro, combattere. In linea generale, quando si parla di biomasse, cioè di produzioni vegetali da usare come fonti di energia, si parla di neutralità dal punto di vista delle emissioni, in quanto l’anidride carbonica sprigionata dalla loro combustione sarebbe compensata da quella assorbita durante il loro ciclo di vita. Si tratta, tuttavia, di una contabilità abbastanza sommaria, che non tiene conto di una serie di fattori ulteriori, legati all’intero ciclo produttivo. Produrre biocarburanti in grandi quantità comporta infatti attivare colture “industriali”, che richiedono energia, fertilizzanti, pesticidi, acqua. Sia nella fase agricola, di produzione delle materie prime, sia nelle fasi ulteriori di trasformazione e trasporto del prodotto. Una corretta valutazione del contributo dei biocarburanti alla lotta ai gas serra non può quindi prescindere dal prendere in considerazione l’intero ciclo del prodotto. Con risultati, stavolta, tutt’altro che incoraggianti. Nel 2005, David Pimentel e Tad W. Patzek, due professori dell’Università di Berkley, in California, hanno comparato l’energia ottenibile dai più comuni tipi di biocarburanti con l’energia fossile impiegata per produrli. Sommando all’energia necessaria per trasformare il raccolto in etanolo o biodiesel quella utilizzata per ottenere i raccolti stessi (uso dei macchinari, irrigazione, lavorazioni, trasporti, includendo anche la produzione di pesticidi e fertilizzanti), i biocarburanti presentano spesso un bilancio negativo, necessitando di maggior energia rispetto a quella che se ne ricava (il girasole, ad esempio, richiede il 118% in più di energia fossile rispetto al carburante che ne deriva). Nel conteggio vanno considerati anche i danni derivanti dall’abuso di pesticidi, diserbanti e concimi chimici. E’ fin troppo evidente, infatti, che i freni che possono operare per le colture ad uso alimentare cedono del tutto il passo all’esigenza di massimizzare i raccolti per l’uso industriale. Impensabili, in tale campo, non solo il rispetto dei limiti dell’agricoltura biologica, ma anche altre forme di coltivazioni meno invadenti. Così i campi per le agroenergie sono inondati di sostanze pericolose, con devastanti effetti sui terreni, sull’aria, sulle acque.12 I danni dell’abuso dei fertilizzanti, tra l’altro, non si limitano all’ambiente circostante, ma investono anche il problema dei gas serra. Sconvolgenti, in tal senso, sono le rivelazioni di uno studio pubblicato nel 2007 da Paul Crutzen, premio Nobel per la chimica nel 1995 per gli studi sul buco dell’ozono. Smontando facili illusioni, Crutzen avverte che lo sviluppo dei biocarburanti porterà ad un incremento delle emissioni inquinanti anziché alla loro riduzione, a causa del protossido di azoto (N2O), un 10 E neppure risolvono, se non in parte, le problematiche ambientali, visto che la sostenibilità è richiesta solo per il raggiungimento dell’obiettivo del 10%, ma non vengono vietate ulteriori importazioni, anche se ottenute in modo non sostenibile. 11 F. Semprini, Questa stangata porterà l’inflazione in tutto il mondo. Intervista ad Allen Sinai, su La Stampa, 9 aprile 2008. 12 Notizie allarmanti in tal senso giungono, ad esempio, dagli Stati Uniti, dove l’espandersi negli Stati del Midwest delle coltivazioni di mais a fini energetici, con un larghissimo impiego di fertilizzanti chimici azotati che filtrano nel terreno e finiscono nelle falde acquifere che alimentano il Mississipi, sta provocando un’invasione di alghe nel Golfo del Messico.
pericolosissimo gas serra, 296 volte più potente della corrispondente quantità di anidride carbonica, e il cui incremento è dovuto proprio al largo uso di fertilizzanti azotati nelle relative colture. Secondo Crutzen, solo la coltivazione di canna da zucchero per l’etanolo produrrebbe emissioni di N2O minori del quantitativo di Co2 equivalente risparmiato, mentre per le altre colture considerate (colza per il biodiesel, mais, grano, residui vegetali) il rapporto sarebbe del tutto negativo. Lo studio peraltro, tiene conto esclusivamente delle colture, e non considera il peso, in termini di emissioni, dell’impiego delle fonti fossili nell’agricoltura e nella produzione di fertilizzanti e pesticidi. Crutzen salva invece l’olio di palma e alcune altre colture bioenergetiche di seconda generazione (boschi cedui, salici, pioppi, alcuni tipi di graminacee), che richiedendo minor nitrati potrebbero avere un effetto positivo sul clima. Rinviando, tuttavia, a necessari approfondimenti che ne valutino l’intero ciclo di vita. A pesare sul piatto della bilancia è anche l’impatto idrico. Mentre alcune varietà ben si adatterebbero a terreni semiaridi e marginali (dove rappresentano anche uno strumento per combattere l’erosione dei suoli), le colture oggi più utilizzate – quelle sovvenzionate dai governi – richiedono un largo consumo di acqua. L’Istituto Internazionale per lo Sviluppo Sostenibile di Ginevra, calcola, ad esempio, che, per produrre un gallone di etanolo negli USA siano richiesti, tenendo conto dell’intero ciclo di vita, circa 780 galloni d’acqua: il 99% per l’irrigazione del granturco ed il restante 1% per la produzione finale dell’etanolo (IISD, Biofuel at what cost? ).
dossier biocarburanti
La richiesta è, tuttavia, finora caduta nel vuoto. Anche l’Unione Europea, che era sembrata sensibile all’argomento (il Commissario all’Ambiente, il greco Dimas, in un’intervista alla BBC era arrivato ad affermare che sarebbe stato meglio non realizzare l’obiettivo del 10% di biocarburanti entro il 2020 anziché danneggiare i poveri e l’ambiente) ha, alla fine, confermato la volontà di raggiungere l’obiettivo prefisso, limitandosi a chiedere il rispetto di criteri di sostenibilità ambientale che non risolvono però le questioni sociali e alimentari.10
Ma soprattutto va considerato il grave impatto ambientale di trasformare boschi, foreste, praterie in coltivazioni energetiche. Le nostre aree verdi sono veri e propri polmoni, che assorbono e ritengono il carbonio. Sopprimerle per far posto a colture energetiche significa ridurre tale fondamentale apporto. Anche a tale riguardo, numerosi sono gli studi scientifici che denunciano l’effetto boomerang delle agro energie. Nell’agosto 2007, la rivista Science ha pubblicato uno studio condotto da ricercatori dell’Università inglese di Leeds e di World Land Trust che dimostra come la sostituzione delle foreste con coltivazioni di biocarburanti porterà in 30 anni al rilascio di biossido di carbonio in quantità superiori fino a 9 volte quello rilasciato dai combustibili fossili. Al contrario, la riconversione a foresta dei terreni garantirebbe, oltre ad un maggiore assorbimento di CO2, anche altri vantaggi, come quelli climatici legati alla lotta alla desertificazione, il mantenimento della biodiversità, la regolamentazione del microclima regionale, la fornitura di prodotti della foresta (Righelato R. e D. V. Spracklen, Carbon Mitigation by Biofuels or by Saving and Restoring Forests?, su Science, 17.8.2007). Lo studio sottolinea pure come, per conseguire l’obiettivo UE del 2020 di un 10% di carburanti provenienti da colture, sarebbe necessario impegnarvi il 38% di tutto il territorio agricolo dell’Unione europea (la percentuale salirebbe al 43% per un pari obiettivo negli Stati Uniti).
Tab. 1 - Costi e benefici della produzione di biocarburanti Riduzione standard emissioni gas serra Filiera di produzione del biocarburante A. Valori standard dei biocarburanti se prodotti senza emissioni nette di carbonio a seguito della modifica della destinazione dei terreni etanolo da barbabietola da zucchero 52% etanolo da cereali (metano come combustibile di processo in caldaie convenzionali) 34% etanolo da cereali (metano come combustibile di processo in impianti di cogenerazione)
47%
etanolo da cereali (paglia come combustibile di processo in impianti di cogenerazione)
69%
etanolo da granturco, prodotto in UE (metano come combustibile di processo in impianti di cogenerazione)
49%
etanolo da canna da zucchero
71%
biodiesel da semi di colza
38%
biodiesel da semi di girasole
51%
biodiesel da olio di palma (processo non specificato)
19%
biodiesel da olio di palma (processo con cattura di metano all’oleificio)
56%
biodiesel da rifiuti vegetali o animali
83%
olio vegetale idrotrattato da semi di colza
47%
olio vegetale idrotrattato da semi di girasole
62%
olio vegetale idrotrattato da olio di palma (processo non specificato)
26%
olio vegetale idrotrattato da olio di palma (processo con cattura di metano all’oleificio
65%
olio vegetale puro da semi di colza
57%
biogas da rifiuti urbani organici come metano compresso
73%
biogas da letame umido come metano compresso
81%
biogas da letame asciutto come metano compresso
82% B. Stima dei valori tipici e standard dei futuri biocarburanti non presenti sul mercato al gennaio 2008 o presenti in quantità trascurabili, se prodotti senza emissioni nette di carbonio a seguito della modifica della destinazione dei terreni etanolo da paglia di cereali 85% etanolo da residui legnosi 74% etanolo da legno coltivato
70%
diesel Fischer-Tropsch da residui legnosi
95%
diesel Fischer-Tropsch da legno coltivato
93%
DME (dimetiletere) da residui legnosi
95%
DME (dimetiletere) da legno coltivato
92%
metanolo da residui legnosi
94%
metanolo da legno coltivato
91% Fonte: Direttiva 2009/28/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 23 aprile 2009 sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili, Allegato V, A
9
biocarburanti dossier
Non si salverà quindi il pianeta deforestando l’Amazzonia o l’Indonesia (l’ONU prevede che entro il 2022 il 98% delle foreste pluviali indonesiane sarà perduto per produrre carburanti). Nella lotta al riscaldamento del pianeta, è più efficace lasciare foreste e praterie come sono, anziché trasformarle in campi per raccogliere palme o granturco Senza contare i numerosi altri aspetti che un processo di deforestazione turba: dall’equilibro climatico e l’influenza sulle piogge (si pensi al ruolo della foresta amazzonica in tal senso) alla conservazione della biodiversità, dall’esaurimento e deterioramento delle risorse idriche all’inquinamento di terreni e falde provocato da concimi e fertilizzanti, fino ad arrivare alla sopravvivenza di specie animali (gli orangutan del Borneo portati all’estinzione dalle colture di palma) e delle comunità indigene.13 Fattori che non sempre sono oggetto di valutazione diretta, ma che andrebbero soppesati con attenzione nella valutazione d’impatto dei biocarburanti. Sul tema biodiversità, ad esempio, è noto che il proliferare delle coltivazioni agroenergetiche compromette la varietà degli ecosistemi. Per produrre carburanti in grande quantità e con minor costo, si punta su piante dalla crescita veloce e maggior resa, ma ciò provoca anche lo sviluppo delle due maggiori cause di perdita della biodiversità: la trasformazione di migliaia di ettari di foreste, savane, campi in sterminate monoculture e l’adozione di specie aliene e invasive. Un danno non da poco, per l’ambiente, per la salute umana ma anche sul piano economico, se è vero che i soli USA spendono 120 miliardi di dollari all’anno per il controllo e la riduzione dell’impatto di oltre 800 specie invasive14. Il GISP (Global Invasive Species Programe) ha chiesto ai governi di effettuare una seria valutazione del rischio prima di autorizzare la coltivazione di piante per biocarburanti, e di puntare su specie native o a basso rischio (girasole, soia, canna da zucchero, arachidi, frumento) evitando quelle specie già note come invasive (salice, jatropha, more, albero del pane, seme di colza, noci di cocco …). Ma è dubbio che i governanti seguiranno le indicazioni: eloquente, in tal senso, l’esito dell’ultima Conferenza mondiale sulla Biodiversità (Bonn, maggio 2008), dove il braccio di ferro tra paesi africani e associazioni, che reclamavano l’applicazione del principio di precauzione, e i maggiori produttori mondiali, Brasile in testa, che difendevano le loro coltivazioni, si è concluso con l’ennesimo deludente nulla di fatto. Insomma, quanto sono davvero “verdi” i biocarburanti? Davvero poco, se si confronta l’intero impatto. Uno studio svizzero del 2007, ha confrontato 26 diversi tipi di biocarburanti, calcolando sia la riduzione diretta di emissioni di gas serra, sia la riduzione delle risorse naturali e il danno alla salute umana e degli ecosistemi. Il risultato è che, seppure la maggior parte di essi (21 su 26) riduce le emissioni di oltre il 30% rispetto al petrolio, circa la metà (12) ha costi ambientali più pesanti delle fonti fossili. Ad essere bocciati sono proprio i biocarburanti più diffusi, come l’etanolo da mais degli USA e da canna da zucchero brasiliano, e il diesel da soia e da palma da olio malese. Giudizio positivo, invece, per l’utilizzo di prodotti residuali, come rifiuti, letame, oli riciclati, o l’etanolo da legno (Zah R. e altri, in How Green are biofuels?, Science 4.1.2008). Altro che rivoluzione verde e benzina ecologica: il rimedio biocarburanti può rivelarsi peggiore del male! E a peggiorare la situazione, c’è il fortissimo rischio che i biocarburanti diventino il cavallo di Troia per il dilagare degli ogm nei campi. Sotto il pretesto della necessità di aumentare le produzioni per rifornire i serbatoi delle nostre auto e liberi dalle riserve che accompagnano i prodotti ogm finalizzati ad uso alimentare, i biocarburanti potrebbero finalmente spalancare le porte alle coltivazioni biotech. In particolare in Europa, dove in alcuni governi nazionali c’è ancora la volontà politica di resistere all’invasione degli ogm. La lobby delle manipolazioni genetiche già preme in questa direzione, ed avverte che senza il ricorso agli ogm, gli obiettivi di produzione europea non potranno essere raggiunti. Trovando sponda favorevole a Bruxelles, dove la commissaria europea all’agricoltura, Marianne Fischer Boel, ha più volte espresso il suo favore verso l’agricoltura geneticamente manipolata. Avvisaglie in tal senso già si manifestano: nel 2007, le autorità tedesche del Nord Reno Westfalia hanno dovuto disporre la distruzione di 1.500 ettari di coltivazioni di colza, per le quali erano state utilizzate, ovviamente in segreto, sementi geneticamente modificate della Bayer. Un futuro all’insegna dei biocarburanti? Insomma, biocarburanti sì o biocarburanti no? Come in altri casi, la soluzione va ricercata in un giusto approccio. Nonostante i problemi sopra descritti, rimangono infatti margini di grande utilità, spazi in cui le agro-energie possono aiutarci nei nostri bisogni senza gravare l’ambiente o competere con gli alimenti. Come detto dal Presidente brasiliano Lula al vertice FAO dello scorso anno, i biocarburanti sono come il colesterolo: c’è quello buono e quello cattivo.15 Intanto, alla luce dei problemi sopra descritti, appare indispensabile essere più cauti. Anziché inseguire, volta per volta, illusioni di rivoluzioni energetiche, andrebbero studiati prima gli impatti complessivi che le nuove fonti possono creare. Come in tutti gli approcci, prima di partire con ambiziosi programmi ed impatti devastanti, prima di lasciare totale campo libero agli interessi economici, andrebbe seguito il principio di precauzione, valutando le ricadute, anche di lungo periodo, non solo sul piano economico ed energetico, ma anche su quello ambientale e sociale. Alla luce delle conoscenze attuali, va senz’altro rivisto il cammino finora percorso. Le grandi piantagioni ottenute a danno di foreste e praterie, la 13 Particolarmente allarmante, in tal senso, è la proposta di FAO e Banca Mondiale di sovvenzionare le piantagioni, equiparandole alle foreste 14 Greenreport, Quanto sono invasivi i biocarburanti, 22.5.2008 15 Richiamando le parole di Lula, non intendiamo tuttavia aderire alla sostanza del suo intervento, tutto a difesa dell’etanolo prodotto in Brasile. I biocarburanti “buoni” non sono, per noi, le piantagioni sterminate dell’America Latina, che presenteranno pure una maggior resa energetica, ma che in termini di deforestazione e crisi alimentare hanno le stesse colpe delle altre piantagioni.
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STUDI sui biocarburanti Crutzen P. J., Mosier A.R., Smith K.A., Winiwarter W., N2O release from agro-biofuel production negates global warming reduction by replacing fossil fuels, 2007 Righelato R. e Spracklen D.V., Carbon Mitigation by Biofuels or by Saving and Restoring Forests?, su Science, 17.8.2007 Searchinger T., Heimlich R., Houghton R.A., Dong F., Elobeid A., Fabiosa J., Tokgoz S., Hayes D., Tun-Hsiang Yu, Use of U.S. Croplands for Biofuels Increases Greenhouse Gases through emissions from Land-Use Change (Science, 29 febbraio 2008) GISP, Biofuel crops and the use of non-native species: mitigating the risks of invasion, maggio 2008 Greenpeace, Borneo in fiamme, 2007 International Institute for Sustainable Development, Biofuel at what cost? Government support for Ethanol and Biodiesel in the United States, aggiornamento 2007 OECD – FAO, Agricultural Outlook 2007-2016, 2007 WORLD BANK, Rising food prices: policy options and World Bank response, 2008 INTERNATIONAL MONETARY FUND, World Economic Outlook, October 2007 – Globalisation and inequality, 2007
sottrazione di buone terre arabili alle colture alimentari, l’abuso di pesticidi e fertilizzanti, l’utilizzo di piante ogm, il perseguimento di colture a bassa resa energetica, hanno dimostrato di non poter costituire una valida soluzione ai nostri problemi di approvvigionamento energetico. Consentono alle nostre auto di camminare, ma aggravano i problemi ambientali e sociali a livello mondiale. Positivo, invece, è l’apporto che può derivare dai biocarburanti di cd. seconda generazione: le alghe, il recupero della cellulosa di scarto e di altri rifiuti di lavorazioni agricole e forestali, il ricorso a varietà (come la jatropha o il miscanthus) in grado di crescere su terreni marginali e con poca acqua. Non creano competizione con la produzione alimentare, forniscono rese più elevate e possono contribuire, nei casi di utilizzo di terreni marginali, anche a combattere l’erosione dei suoli. Senz’altro positivo anche il recupero di biogas, derivante dalla fermentazione dei rifiuti organici (una pratica che si combina bene con la produzione di compost), come anche il recupero degli oli riciclati o dei grassi animali, che costituisce anche una soluzione per lo smaltimento di rifiuti di difficile trattamento. Sì, anche, alle produzioni locali, volte a soddisfare le necessità di autoconsumo di piccole comunità. Grazie alle agro energie prodotte in loco, si potrebbero rifornire i villaggi africani o indiani dell’energia che manca per cucinare, far funzionare pompe e mulini, illuminare le case … bisogni primari, ben più che l’alimentare i serbatoi dei nostri superflui SUV cittadini … perché nel valutare l’utilità del ricorso ai biocarburanti, non possiamo prescindere neanche dal considerare gli usi finali cui essi sono destinati. E si potrebbe soddisfare l’autoconsumo nel mondo rurale, magari recuperando i progetti dei pionieri austriaci, che puntavano a piccole comunità agricole autosufficienti, in grado di soddisfare da sé i propri bisogni energetici con le loro coltivazioni (o, meglio ancora, con i prodotti di scarto delle stesse). La sostenibilità di tali interventi è garantita dalle dimensioni limitate e dal costituire, le agro-energie, uno strumento di autarchia energetica e non per ricavare profitti. Appare comunque indubbio che, alla fine, è l’approccio complessivo al problema a fare la differenza. Se i biocarburanti devono divenire il nuovo business energetico, la salvifica soluzione alla nostra insaziabile fame di energia, c’è poco da sperare. Di prima o seconda generazione che siano, le agro-energie divorerebbero terreni e risorse a scapito degli altri usi, riportandoci ai problemi sopra denunciati. Non è solo una questione di varietà di piante, quanto, soprattutto, di dimensioni del problema. In realtà, come per le altre fonti rinnovabili, neanche i biocarburanti potranno sostenere una crescita illimitata dei consumi. Potranno aiutarci ad alleggerire la nostra dipendenza dagli idrocarburi, ma è del tutto impensabile che possano sostituirsi ad essi. Resta prioritario ridurre i consumi, aumentando l’efficienza dei motori16 e riducendo l’abuso dei trasporti, facilitati finora proprio dal basso costo economico del petrolio. E non sarebbe male che i lauti incentivi statali fossero dirottati, anziché ai produttori di biocarburanti, verso misure volte a ridurre il traffico su strada, a scoraggiare il proliferare dei SUV o dei voli low cost. Più che una rivoluzione nel campo dei carburanti, serve insomma una rivoluzione nel sistema di vita, con un ripensamento del nostro dispendioso stile e con l’abbandono di pratiche energivore fondate sull’illusione che sia possibile una crescita illimitata. Insomma, biocarburanti sì, ma con molta cautela. Altro che un futuro all’insegna dei carburanti verdi. All’era del petrolio non succederà un’era dei biocarburanti. In contrapposizione a tanti facili ottimismi in materia energetica, ci piace ricordare una definizione pronunciata qualche anno fa da Pierre Gadonneix, presidente dell’EdF (in sostanza l’ENEL francese), secondo cui “siamo entrati nell’era dell’energia rara”. Da usare – aggiungiamo noi - con parsimonia, consapevoli del senso del limite.
16 Interessante, al proposito, è l’approccio del nuovo Presidente USA Obama, che prima ancora di confermare gli obiettivi di consumo dell’etanolo previsti dal piano Bush (12 miliardi di galloni nel 2010) ha imposto alle case automobilistiche un aumento dell’efficienza del 40%, imponendo, entro il 2016, uno standard di 15 km a litro (senz’altro un passo avanti per le auto americane, ma ancora al di sotto degli standard europei, che, partendo già nel 2008 da una situazione di 16 km al litro, puntano per il 2015 a obiettivi di 19,6 km litro per le auto a benzina e di 21 km/l per le auto a diesel).
biocarburanti: IL QUADRO DI RIFERIMENTO IN EUROPA L’Unione Europea da anni ha deciso di puntare sui biocarburanti. Con un occhio rivolto agli obiettivi di riduzione sottoscritti a Kyoto e, con l’altro, alla necessità di differenziare l’approvvigionamento d’energia e alleggerire la dipendenza dal petrolio. In Europa, oltre il 20% delle emissioni di gas serra proviene dal settore trasporti. Si tratta, per altro, di un dato in crescita: in controtendenza rispetto ad altri settori (produzione d’energia, industria, agricoltura), dove il raggiungimento di una maggiore efficienza energetica ha portato a sensibili riduzioni delle emissioni inquinanti, le emissioni dovute ai trasporti sono in costante crescita, a causa del continuo aumento del numero delle auto circolanti, che annulla i vantaggi derivanti dal progressivo svecchiamento del parco auto. E il 98% dell’energia usata per i trasporti viene dal petrolio. L’Unione Europea, così, da anni ha deciso di puntare sui biocarburanti. Con un occhio rivolto agli obiettivi di riduzione sottoscritti a Kyoto e, con l’altro, alla necessità di differenziare l’approvvigionamento d’energia e alleggerire la dipendenza dal petrolio. Senza trascurare, per altro, l’opportunità di dare nuove possibilità di reddito e di occupazione nelle zone rurali. Dopo le prime sperimentazioni nei singoli Stati (in prima fila Austria, Germania, Francia e Italia, volte soprattutto alla produzione di biodiesel), è il 2003 l’anno di svolta, in cui la UE mostra di voler puntare seriamente sui biocarburanti. In tale anno viene innanzitutto approvata un’apposita Direttiva per la promozione dell’uso dei biocarburanti nei trasporti (Dir. 2003/30/CE), che individuava quali carburanti potessero essere considerati rinnovabili e fissava alcuni obiettivi minimi: entro il 31 dicembre 2005, gli Stati membri avrebbero dovuto assicurare che una quota minima del 2% di tutta la benzina ed il gasolio immessi in circolazione per i trasporti fosse costituita da biocarburanti; entro il 2010, tale quota avrebbe dovuto raggiungere il 5,75%. Nello stesso anno, altri due provvedimenti puntavano a favorire l’utilizzo dei biocarburanti. Ai fini della certificazione, necessaria per convincere produttori di auto e consumatori sulla qualità del prodotto, veniva approvato uno standard europeo di qualità per il biodiesel (il DIN EN 14214, ottenuto congiuntamente da industrie di veicoli, settore petrolchimico e produttori di biocarburante). Sul piano economico, poi, veniva approvata la Dir. 2003/96/ CE che, disciplinando in maniera unitaria la tassazione dei prodotti energetici, prevedeva apposite agevolazioni a favore dei biocarburanti. In effetti, uno dei maggiori ostacoli alla diffusione dei biocarburanti è il loro costo, senz’altro più alto rispetto alle fonti fossili. Nel 2006 la Commissione Europea riconosceva che “anche con le tecnologie più avanzate, difficilmente il costo dei biocarburanti prodotti nell’UE li renderà concorrenziali rispetto ai combustibili fossili. Con le tecnologie attuali, il costo del biodiesel prodotto nell’UE diventa interessante se il petrolio si stabilizza attorno a 60 euro al barile, mentre il bioetanolo diventa competitivo solo con il petrolio a circa 90 euro al barile” (da “Una strategia per i biocarburanti”). Da qui la necessità di misure di supporto in grado di promuovere i biocarburanti. Due sono fondamentalmente gli indirizzi seguiti, anche cumulativamente: da un lato, l’imposizione di quote minime a carico dei produttori di combustibili fossili, in conformità al principio “chi inquina paga”, per cui chi vuol vendere benzina e gasolio dovrà assicurare che una quota dei combustibili sia costituita da biocarburanti. Dall’altro lato, la leva fiscale, attraverso la defiscalizzazione, totale o parziale, dei biocarburanti, in quantità illimitata (Germania) o secondo contingenti (Italia, Francia). Per favorire, altresì, la produzione locale di biocarburanti, limitando l’importazione e fornendo nuove possibilità di reddito e occupazione agli agricoltori comunitari, la UE ha anche previsto un contributo di 45 € per ettaro ai coltivatori e la possibilità di utilizzare per colture energetiche i terreni messi a riposo (set aside).
di giancarlo terzano
Tali misure non sembrano tuttavia aver raggiunto i risultati sperati. Nel 2005, solo due Stati (Germania e Svezia) avevano conseguito e superato l’obiettivo minimo del 2% di biocarburanti, mentre la media europea si poneva all’1,2%. E’ altamente probabile, quindi, che l’obiettivo del 5,75% fissato per il 2010 non sarà raggiunto. Alla luce anche di tali difficoltà, l’UE ha predisposto nuovi interventi. In Una strategia per i biocarburanti (2006) venivano individuate 7 direttrici su cui sviluppare una nuova direttiva in materia. Trovano spazio, nella Strategia, anche le preoccupazioni ambientali, per risolvere le quali si propone, tra l’altro, la fissazione di norme ambientali per la produzione delle materie prime (valide sia per le coltivazioni in Europa che per le importazioni da paesi terzi), la costruzione di un nesso tra gli incentivi ai biocarburanti e il loro apporto in termini di riduzione di gas serra, lo sviluppo della ricerca (dalla quale ci si attende una riduzione dei costi di produzione del 30% dopo il 2010), lo sviluppo di bioenergie cd. di seconda generazione, sottratte alla competizione con l’uso alimentare e meno impattanti (biomasse ligneocellulosiche, rifiuti organici, oli di cucina, grassi animali …). Con il Pacchetto Energia proposto nel 2007, l’UE ha rilanciato. Di fronte all’obiettivo di ridurre entro il 2020 le emissioni di gas serra almeno del 20%, è stato fissato per la stessa data un obiettivo minimo del 10% di biocarburanti rispetto alla quantità totale di benzina e gasolio immessi al consumo. Con la Direttiva 2009/28/CE dell’aprile scorso, l’Unione Europea ha confermato l’obiettivo del 10%, precisando che esso dovrà essere raggiunto da ciascuno dei 27 Stati membri, ma nel rispetto di alcuni criteri di sostenibilità. Tre, in particolare, sono i requisiti base per la sostenibilità: a) i biocarburanti impiegati devono assicurare un livello minimo di riduzione dei gas serra del 35% (percentuale che salirà al 50% e al 60%, rispettivamente nel 2017 e 2018); b) le materie prime utilizzate non devono provenire da terreni ad alto valore di biodiversità, quali le foreste primarie, le aree designate per la protezione della natura, praterie ricche di specie e non degradate; c) le materie prime utilizzate per i biocarburanti non devono provenire da terreni ad alto valore di deposito di carbonio, come le zone umide, le torbiere vergini e le zone boschive continue, cioè con dimensioni di almeno 1 ettaro e alberi con altezza superiore ai 5 metri. I criteri di sostenibilità andranno applicati tanto alle produzioni interne, quanto alle importazioni da paesi extraeuropei. Un’amara annotazione: i biocarburanti “non sostenibili” secondo i suddetti criteri non sono vietati dalla direttiva, ma semplicemente non concorreranno all’obiettivo minimo del 10% e non potranno godere di incentivi. Nonostante l’allarme suscitato dalla deforestazione nei paesi tropicali, Bruxelles lascia le mani libere agli Stati membri, che potrebbero quindi utilizzare, legalmente, anche prodotti ottenuti in spregio della sostenibilità ambientale per la quota eccedente l’obiettivo minimo! Non sono stati accolti, quindi, i richiami che invitano ad una maggiore ponderazione. Nella passata primavera, anche il Comitato Scientifico dell’EEA (l’Agenzia Europea per l’Ambiente), aveva chiesto all’UE di sospendere l’ambizioso obiettivo del 10%, in attesa di nuovi e più ampi studi sui rischi e benefici dei biocarburanti, puntando semmai su obiettivi più moderati. L’EEA, in particolare, rilevava l’indisponibilità di terreni coltivabili, nei paesi europei, sufficienti al raggiungimento dell’obiettivo del 10%, e considerava inevitabile il ricorso a grandi importazioni da paesi terzi, su cui però non è possibile il controllo della sostenibilità
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GREEN PUBLIC PROCUREMENT E RISPARMIO ENERGETICO Il 27 marzo 2009 si è tenuta, nella Sala Zuccari del Senato, la cerimonia di premiazione della prima edizione del Premio “Progetti sostenibili e green public procurement 2009”, promosso dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e dalla Consip. Assegnati tre premi e menzioni speciali per il premio “Green Public Procurement 2009”. Fra i vincitori il Ministero della Giustizia per le buone pratiche adottate in 40 istituti penitenziari. di Marianna Gambino Impianto solare termico installato sui tetti del penitenziario di Rebibbia
Il Green Public Procurement (GPP) è definito dalla Commissione europea come “... l’approccio in base al quale le Amministrazioni Pubbliche integrano i criteri ambientali in tutte le fasi del processo di acquisto, incoraggiando la diffusione di tecnologie ambientali e lo sviluppo di prodotti validi sotto il profilo ambientale, attraverso la ricerca e la scelta dei risultati e delle soluzioni che hanno il minore impatto possibile sull’ambiente lungo l’intero ciclo di vita”. Si tratta di uno strumento di politica ambientale volontario, che intende favorire lo sviluppo di un mercato di prodotti e servizi a ridotto impatto ambientale attraverso la leva della domanda pubblica. Il ricorso allo strumento GPP viene incoraggiato da alcuni anni dall’Unione Europea che ne parla diffusamente sia nel “Libro Verde sulla politica integrata dei prodotti” del 1996, sia nel Sesto Programma d’Azione in campo ambientale e sviluppato nella Politica Integrata di Prodotto (IPP - Integrated Product Policy). È però la direttiva 2004/18/ CE del 31 marzo 2004, relativa al “coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture, di servizi e di lavori” che, a livello normativo, riconosce la possibilità di inserire la variabile ambientale come criterio di valorizzazione dell’offerta. In Italia il Green Public Procurement non è obbligatorio, però esistono alcune norme che ne sollecitano l’introduzione stabilendo dei requisiti specifici o degli obiettivi per l’acquisto e/o utilizzo di determinati prodotti o servizi. Il Decreto Ronchi (D.Lgs. 22/97, art. 19), modificato dalla L. 448/01, stabilisce l’acquisto di almeno il 40% del fabbisogno di carta riciclata; il DM del 27/3/98 indica che una quota del parco autoveicolare deve essere costituito da veicoli elettrici, ibridi o ad alimentazione naturale dotati di dispositivi di abbattimento delle emissioni; la Finanziaria del 2002 (L. 448/01, art.52) sancisce l’obbligo di riservare almeno il 20% del totale all’acquisto di pneumatici ricostruiti, il DM 203 del 8/5/2003 invita le Regioni a definire norme, affinché gli enti locali coprano il fabbisogno annuale di manufatti e beni con una quota di prodotti ottenuti da materiale riciclato nella misura non inferiore al 30%. Il decreto prevede inoltre che i destinatari adottino in sede di formulazione di gare per la fornitura e l’installazione di manufatti e beni, e nella formulazione di capitolati di opere pubbliche, criteri tali da ottemperare al rispetto delle quote previste dal decreto. Il Premio nasce dall’esperienza e dall’impegno sulla sostenibilità ambientale degli acquisti pubblici, messi a punto nel Programma per la razionalizzazione degli acquisti nella Pubblica Amministrazione (P.A.). Il progetto ha messo in luce realtà di eccellenza nelle P.A. centrali e locali e nel mondo delle imprese. Nel corso dell’evento di marzo sono stati proclamati vincitori del Premio Green Public Procurement (GPP) 2009, identificati dalla Commissione di valutazione tra tutti i partecipanti, due Amministrazioni ex aequo ed un’impresa: il Ministero della Giustizia - Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (Dap), la Regione Sardegna, la Cisco Systems Italy. Le carceri diventano “verdi” e il premio viene assegnato al Ministero della Giustizia per i progetti sulle rinnovabili elaborati dal Dap “per aver saputo coniugare in modo efficace innovazione tecnica, promozioni delle fonti rinnovabili, risparmio energetico e formazione dei detenuti in un progetto di elevata innovazione ambientale e grande valore sociale ” così recita la motivazione ufficiale della Commissione di valutazione che ha assegnato al Dap il premio per il miglior progetto sostenibile. Su i tetti della casa di reclusione di Rebibbia gli stessi detenuti hanno impiantato i pannelli solari termici che forniranno acqua calda almeno ad un paio di padiglioni del penitenziario. Ma quello romano non è un caso isolato, perché sul fronte delle rinnovabili e delle buone pratiche il Dap, che gestisce oltre 200 carceri d’Italia, ha raggiunto livelli d’avanguardia da nord a sud. Questo programma di solarizzazione nasce nel 2001 dall’’allora sottosegretario alla Giustizia Franco Corleone e dall’allora Ministro dell’ambiente Edo Ronchi e si caratterizza per una duplice esigenza. Una squisitamente economica, rappresentata dalla bolletta che il Ministero paga ogni anno per le utenze dei penitenziari, che oscilla da 60 a 70 milioni di euro. L’altra è rappresentata dall’esigenza di elaborare piani di sviluppo, studiati a partire dal 2001, attinenti alle misure previste dal protocollo di Kyoto. I progetti sono stati affrontati istituendo un gruppo di studio per l’utilizzazione delle energie alternative, che ha adattato le diverse tecnologie a seconda del contesto geografico di applicazione: pannelli solari termici, fotovoltaici, impianti di coogenerazione, coltivazione di bio-masse ed eolico. Attualmente sono 40 gli istituti coinvolti in almeno uno di questi progetti, ma per tutti sono state dettate delle linee guida generali, che prevedono che ogni intervento di ristrutturazione miri al risparmio energetico: utilizzo di vetro ed acciaio, impiego di materiali isolanti per la pavimentazione e gli infissi, lampade a basso consumo, caldaie ad alta efficienza termica, tinte a basso impatto ambientale per i muraglioni interni, valvole termostatiche per regolar la temperatura. Il finanziamento arriva da terzi, ed impegna l’appaltatore a farsi carico delle spese per la realizzazione degli interventi, delle attrezzature e forniture previste dal capitolato in cambio del pagamento di un canone per un periodo limitato di tempo.
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A Rebibbia i pannelli sono stati montati materialmente da una ventina di condannati che, grazie ad un corso di formazione durato 600 ore, sono divenuti ufficialmente operatori nell’istallazione e manutenzione. Una qualifica importante per trovare lavoro e reintegrarsi nella società, quando avranno scontato la loro pena. Intanto si occupano della manutenzione dell’impianto e del monitoraggio dei 250 mq di terrazzo tappezzati di pannelli solari. In Sardegna è in piedi un piano per creare un parco con pannelli fotovoltaici, biogas, coltivazione di biomasse, che renda del tutto autonomo la casa di reclusione di Mamone (Nu) e al tempo stesso riduca la spesa energetica di tutti gli altri istituti sardi. Anche in questo caso c’è il reinserimento lavorativo dei reclusi, affidati alle dipendenze dell’impresa aggiudicataria per la coltivazione dei vegetali più idonei per la produzione di olio combustibile. Ad oggi però il piano paesaggistico regionale impedirebbe la costruzione di un sito eolico nell’area. Il Dap dispone di una colonia agricola di 2.700 ettari, utilizzata in prevalenza per l’allevamento del bestiame e il pascolo naturale, ma essendo una zona priva di interesse turistico, in cui l’unica attività praticata è la pastorizia, ci sarebbe la disponibilità della Giunta regionale attuale a discutere il progetto ed esaminare il piano di fattibilità stilato dal gruppo di studio del Dap. In Sicilia c’è da menzionare un esperimento sul fotovoltaico in atto al Pagliarelli di Palermo, il progetto prevede l’installazione su 13 edifici di 2.353 pannelli. Una volta collaudato e a regime, sarà in grado di fornire oltre mezzo milione di Kw, un sesto del fabbisogno annuo dell’istituto. In Piemonte, Toscana ed Emilia Romagna ci sono progetti in fase più avanzata basati sulla cogenerazione, che prevede la produzione combinata di energia elettrica e termica a partire da un’unica fonte. L’efficienza nasce dal recupero del calore che nei sistemi tradizionali per la produzione di energia elettrica viene disperso. Il risultato è la diminuzione dell’impiego di combustibile. Sono 14 gli istituti coinvolti fra Piemonte, Toscana ed Emilia Romagna. Le prossime regioni coinvolte saranno Lombardia e Lazio. “Paghiamo un canone annuo che è del 20% inferiore alla cifra che fino allo scorso anno spendevamo per l’approvvigionamento di combustibile”, così spiega Vincenzo Tricarico, coordinatore del progetto di risparmio energetico in ambito penitenziario. La ditta beneficiaria del canone si occupa della manutenzione degli impianti, che dopo sette anni diventano dello Stato. Continua Tricarico “la ditta inoltre matura crediti in quanto produttrice di energia da fonte rinnovabile, nel caso del biocombustibile, e inoltre può vendere quella prodotta in surplus”. Questi programmi sono un importante esempio di buone pratiche perché uniscono alla riduzione dell’impiego di fonti fossili per produrre calore, l’inserimento lavorativo e professionale dei detenuti, che hanno manifestato interesse nella partecipazione ai progetti. Le motivazioni per l’assegnazione degli altri premi sono riportate di seguito per la Regione Sardegna e la società Cisco Systems Italy “La Commissione di valutazione assegna il premio ex equo per il miglior progetto di implementazione del Green Public Procurement alla Regione Sardegna per aver promosso una grande azione di cambiamento e sensibilizzazione sulla sostenibilità e sul GPP, ponendo molta attenzione all’attivazione di tutte le sinergie possibili sul territorio attraverso la collaborazione con tutti gli attori interessati interni all’amministrazione regionale e esterni, promuovendo un approccio organizzativo innovativo ed efficace.” “La Commissione di valutazione assegna il premio alla migliore politica aziendale sulla sostenibilità alla Cisco, per l’approccio organizzativo innovativo e per la continua ricerca ed innovazione di prodotto e di processo volta al risparmio e all’efficienza energetica, promuovendo la responsabilità sociale come ulteriore elemento di integrazione della sostenibilità nelle strategie aziendali.” La Commissione - composta dal Ministero dell’Ambiente, Ministero dello Sviluppo Economico e Confindustria, oltre che da Ministero dell’Economia e Consip - ha ritenuto così alto il livello delle domande di partecipazione da assegnare anche sette menzioni speciali per i progetti presentati dal Comune di Ferrara, Provincia di Cremona, Comando Generale delle Capitanerie di Porto, Corte dei Conti e dalle imprese Xerox, Palm e 3M. Dando uno sguardo generale, nel mese di gennaio in Italia sono state rilevate 24.893 “centrali” fotovoltaiche, molte delle quali sono state censite dal Gestore dei servizi elettrici. Da dire che la maggior parte non sono vere e proprie centrali, ma microimpianti, come il tipico pannello sul tetto di casa. Un sistema a rete, che incrementato porterebbe ad una possibile indipendenza dalle grandi centrali di energia nazionali e non. Un boom di crescita dovuto al Conto Energia (il quale finanzia 19.810 impianti pari a 157,6 megawatt) che fa correre gli investimenti ed ha giustificato le proteste, arrivate da ogni lato, quando il Governo ha ipotizzato di annullare (anche sugli investimenti già fatti) l’incentivo fiscale sulle spese, per migliorare il rendimento energetico degli edifici. Il sistema normativo Italiano è spesso miope o distratto da false soluzioni, come quella tanto dannosa del nucleare e non sempre le Regioni hanno la forza o la volontà di pianificare programmi energetici in sintonia con gli attuali investimenti internazionali che guardano anche alla tutela ambientale.
la provincia di roma promuove la blud banca del latte umano donato “Oro bianco”: la Banca del Latte Umano Donato (BLUD) ha l’obiettivo di favorire l’allattamento naturale. Ci sono aspetti dell’esistenza umana che restano totalmente ignoti fino a quando non ci riguardano, nel bene o nel male, direttamente. Uno di questi è l’allattamento di un figlio. Improvvisamente si genera per la madre un vero e proprio stato di “schiavitù” provocato dall’esigenza di una creaturina di nutrirsi. La Scienza e la Tecnica forniscono valide alternative al latte materno e – spesso – le genitrici, che hanno anche una propria vita da gestire, preferiscono, ove possibile, rinunciare all’allattamento al seno. Senza purtroppo considerare anche l’importanza psico-affettiva di tale intimo rapporto madre-figlio. Addirittura ci sono coppie di genitori che si fanno vanto di essere riusciti a “far saltare” da subito la poppata notturna. Alcune madri, invece, con totale sacrificio ed Amore incondizionato per il figlio, affrontano con caparbietà la dura battaglia dell’allattamento. Costoro sono ben consapevoli del fatto che il latte materno non è solo un semplice alimento, ma una vera e propria miscela di ingredienti sapientemente combinati da madre Natura. Paradossalmente, quindi, la concreta prospettiva di sopravvivenza per i 50 mila bambini prematuri che ogni anno vengono alla luce in Italia non viene dai laboratori, dove si sviluppano tecnologie d’avanguardia, ma dalla fonte alimentare più antica del mondo: il seno materno. Tale alimentazione, inoltre, è una vera e propria terapia salvavita per i bambini affetti da malattie rare. Ed ecco che mentre il mondo corre verso l’innovazione, la globalizzazione e la tecnologia esasperata, in Italia sono presenti ben 21 banche del latte umano. La prima fu istituita 20 anni or sono dall’Ospedale Pediatrico Bambin Gesù di Roma.
Il 23 luglio 2009 è stato sottoscritto, per la prima volta in Italia, un protocollo unico nel suo genere tra la Provincia di Roma, la polizia provinciale e la protezione civile per la raccolta del latte umano. Lo scopo è di triplicare le scorte di “oro bianco” passando dai 130 ai 390 litri di latte donato ogni mese. Le donatrici saranno visitate a domicilio, in qualunque parte del territorio nazionale, dalla polizia provinciale che consegnerà un tiralatte e dei contenitori sterili. Il latte verrà ritirato dopo opportuna anamnesi fatta al momento della donazione per conoscere le abitudini alimentari e di vita delle donatrici. Sarà garantita quindi la “qualità al momento” ed un medico, responsabile della selezione, attesterà l’idoneità delle mamme. Il prezioso alimento sarà portato al “lactarium”, verrà pastorizzato, congelato e/o liofilizzato. La Banca del Latte Umano Donato (BLUD) diventerà, così, un centro di stoccaggio e distribuzione in grado di soddisfare anche le esigenze di strutture esterne al Bambin Gesù. Non può essere ignorato che a questa campagna di sensibilizzazione specifica sul latte, con cui si da’ un particolare risalto alla cultura della donazione, la Provincia ha unito anche una campagna di sensibilizzazione sulla sicurezza, facendo omaggio a tutte le donatrici di un seggiolino da viaggio per bimbi. Un modo per scongiurare tragedie e denunciare che ogni anno muoiono circa 130-150 bambini a causa della mancata applicazione delle basilari regole di sicurezza. L’iniziativa è nata da un’idea di un’agente di polizia, Pamela Ciucchi, che è stata anch’ella donatrice. Di sicuro questa madre è un lodevole contr’altare a chi si gloria dell’essersi affrancato (per scelta o per costrizione) dalla “schiavitù” dell’allattamento al seno.
di Paolo Giordano
Osteopatia: una medicina ecologica per non inquinare il nostro corpo L‘osteopatia è ecologica poichè non prevede l’utilizzo di farmaci: la cura è nelle mani, utilizzate con sapienza L’osteopatia può essere definita una medicina ecologica perché ha un approccio alla salute e al benessere della persona che di per sé non prevede l’utilizzo di farmaci, non inquina il nostro corpo e quindi neanche l’ambiente, poiché non induce al consumo e produzione di rifiuti speciali. Facciamo un esempio per chiarirci le idee. Abbiamo un dolore localizzato a livello lombare, o una cervicalgia o una cefalea (…l’elenco è lungo!), insomma un “sintomo”. L’osteopatia esamina il corpo del paziente con piccoli test di mobilità, per capire quali distretti articolari, ma anche viscerali (cioè organi interni come stomaco, fegato, intestino, utero, colon, etc…) possano rendersi responsabili del sintomo, indipendentemente che questo distretto sia sostenuto o meno da un’infiammazione. Così, per esempio, arriviamo a scoprire che un dolore lombare di oggi ha avuto origine da una caduta dall’altalena quando eravamo bambini. Cosa è successo? Siamo caduti sulle natiche e questo ha creato un trauma a livello delle articolazioni del bacino e/o del tratto lombare, che sul momento risentiamo solo per una settimana, ma in realtà ha ridotto la mobilità delle nostre articolazioni. Quando diventiamo adulti, siamo meno elastici e quindi quella perdita di mobilità comincia a farsi sentire: cominciano i primi mal di schiena. I muscoli e le articolazioni si infiammano e il dolore che è stato tenuto a bada più volte da antinfiammatori o antidolorifici, non va più via. Impauriti ma soprattutto sfiniti e abbattuti anche per la minore effica-
cia del farmaco, facciamo le prime analisi che ci danno la “sentenza”, magari una discopatia lombare o un inizio di un’ernia! Riflettiamo! Se la nostra colonna lavora già da 10/15 anni con una mobilità articolare inferiore a quella che in realtà doveva, è chiaro che i nostri dischi (cuscinetti ammortizzatori tra le vertebre) avranno avuto la tendenza ad usurarsi. A questo punto andiamo dall’osteopata che riconosce, con i suoi test manuali, che abbiamo preso una bella “sederata” qualche anno addietro. A questo punto l’osteopata, utilizzando sempre e soltanto delle tecniche manuali, cerca di aiutare i tessuti (articolazioni, legamenti e muscoli) a ritrovare la loro originaria capacità di movimento. Accade così che in qualche giorno l’infiammazione vada a spegnersi e il disco, così come i muscoli e i legamenti, tornano a respirare.
di Patrizia Forte
Con delle piccole pressioni o spinte ben localizzate effettuate dalle mani, l’osteopata aiuta il corpo a ritrovare l’equilibrio perduto e non dovremmo più ricorrere così spesso ai medicinali per “sopravvivere” al dolore. Tutto ciò con sentiti ringraziamenti dal nostro stomaco, fegato, reni che sono messi a dura prova durante l’utilizzo dei farmaci. Il nostro corpo è meno inquinato e noi ritroviamo il nostro benessere in modo ecologico. Se avete domande alle quali vorreste trovare una risposta nel prossimo numero inviatele all’indirizzo info@fareverde.it (patrizia.forte@roi.it) Per conoscere l’osteopata qualificato più vicino a voi consultare il sito www.roi.it
GPP E RISPARMIO ENERGETICO a rebibbia L’impianto di Rebibbia, inaugurato il primo Ottobre 2002, è a circolazione forzata e prevede due circuiti idraulici separati. Il trasferimento dell’energia termica dal circuito primario al secondario viene realizzato tramite uno scambiatore di calore a piastre in controcorrente. L’impianto è stato progettato e installato dalla ditta STAES di Roma, che ha vinto la gara d’appalto, in collaborazione con il CIRPS – Università di Roma “ La Sapienza ” e gli stessi detenuti. I principali dati progettuali in base ai quali è stato dimensionato l’impianto sono: 1. acqua calda sanitaria necessaria: 20.000 kg/giorno; 2. temperatura di acqua fredda di rete: circa 10 °C ; 3. temperatura dell’acqua calda sanitaria: 48 °C ; 4. energia utile: 760.000 kcal/giorno = 3182,1 MJ/giorno;
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saline joniche (RC)
Un’immersione sulla Laura C, alla scoperta della storia e della biodiversità marina La Calabria, stupenda Regione che si affaccia sul Mediterraneo, abbracciata dai due mari che la cingono, lo Ionio ed il Tirreno, da sempre crocevia delle rotte navali commerciali e militari, custodisce nei suoi fondali i segreti di tanti relitti, che vi giacciono silenti diventando delle vere e proprie isole di biodiversità. di francesco pacienza
Nelle acque joniche della provincia di Reggio Calabria, il 3 luglio del 1941 la motonave “Laura Couselich”, salpata dal porto di Venezia e diretta in Africa per rifornire le truppe italiane, incrociò sulla sua rotta il sommergibile inglese “Upholder” che, silurandola, l’affondò. La nave “Laura Couselich”, ribattezzata “Laura C”, nel giro di pochi minuti, si adagiò sul fondo sabbioso antistante il litorale di Saline Joniche. Sin qui nulla di insolito se non fosse che tra le oltre 5000 tonnellate di merce trasportata dalla motonave, tra cui bottiglie di Chianti, bottiglie di Campari, calamai contenenti l’inchiostro per scrivere ed altro, vi era presente una gran quantità di esplosivo, per l’esattezza 1.500 tonnellate di tritolo (TNT). La nave dopo il siluramento venne rimorchiata e si incagliò a circa cento metri dall’attuale linea di battigia, nel tratto di spiaggia della frazione di Saline Ioniche. Per molti anni la sua prua affiorante ne ha segnalato la presenza; oggi essa, insieme a buona parte della zona prodiera, giace sommersa dal fondale sabbioso da cui si eleva, a circa 18 metri di profondità, il maestoso albero che si innalza per circa 5 metri verso la superficie. I relitti, se opportunamente bonificati, diventano delle vere e proprie oasi di ripopolamento e sviluppo per la biodiversità dei fondali marini svolgendo un ruolo importantissimo, quasi un polo d’attrazione, per una gran moltitudine di specie viventi. Importante è, pertanto, che l’intero ecosistema sia preservato e tutelato affinché la vita possa trovare dimora tra le sue strutture. Questo relitto che giace su un fondale situato vicino a due zone SIC (Siti di Interesse Comunitario), ossia aree che contribuiscono in modo significativo a mantenere o ripristinare le tipologie di habitat o a mantenere in uno stato di conservazione soddisfacente una delle specie tipiche della zona, dovrebbe contribuire in modo significativo al mantenimento della biodiversità dell’area in cui si trova.
Dati rilevati su 94 schede al 29/08/2009 Colonizzazione delle strutture Spugne Tunicati Alghe Gorgoniacei Posidonia Presenza di materiali inquinanti Buste Suppellettili Bottiglie Vetro Lattine Plastica Pneumatici Pile e Batterie
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Presenza di biodiversità Pesce di taglia piccola Pesce di taglia grande Pesce NON del Mediterraneo Tipologie di biodiversità Nudibranchi Ricci Cernie Seppie Stelle marine Barracuda Polpi Murene Dentici Crostacei Aragoste Meduse
Sulla base di queste premesse, la presidenza regionale calabra dell’Associazione Fare Verde Onlus ha promosso un Progetto teso al monitoraggio ambientale sul relitto della Motonave “LauraC” e sui fondali ad esso circostanti al fine di valutarne gli effetti sull’ecosistema marino e sullo sviluppo della biodiversità. Tale progetto è stato autorizzato dalla Capitaneria di Porto di Reggio Calabria e si avvale della fattiva collaborazione del diving Megale Hellas di Marina di Gioiosa Ionica, giovane punto mare della FIAS, per il supporto logistico necessario allo svolgimento delle immersioni di monitoraggio e rilevamento scientifico. A tale campagna di monitoraggio hanno aderito, condividendo appieno le finalità istituzionali e scientifiche proposte da FARE VERDE, l’Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”, istituzione dalla indiscussa professionalità nel settore, che si avvale dell’esperienza scientifica del professor Aldo Viarengo preside della Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali e l’ARPACAL, l’Agenzia regionale calabrese per la Protezione dell’Ambiente. I due Enti hanno evidenziato, nelle motivazioni che li hanno portati ad aderire al progetto, come la presenza dei relitti, ossia il risultato di eventi fortemente impattanti, possono produrre eventi forieri di riproduzione e conservazione della biodiversità marina diventando, essi stessi, nuovi ecosistemi marini. All’iniziativa ha aderito anche la sede provinciale di Reggio Calabria dell’associazione Marevivo condividendo con Fare Verde l’impegno e le finalità di tale campagna di monitoraggio ambientale. Tra i partner tecnici che hanno deciso di aderire al progetto vanno menzionati: la Easydive, azienda leader nella fabbricazione di custodie subacquee per telecamere e macchine fotografiche, le cui custodie sono state scelte per la realizzazione delle riprese documentali sul relitto; la Underwater Film, casa di produzione dei noti documentari “Missione Relitti”, distribuiti e messi in onda sui maggiori network internazionali, che ha aderito al progetto impegnandosi a realizzare un documentario su questo affascinante relitto e sulla sua importante funzione nell’ecosistema dei fondali marini. Immergersi su un relitto è come immergersi nella Storia che ne ha contrassegnato la vita fino all’istante stesso del suo affondamento; immergersi sulla “Laura C” è un’esperienza a cui molti subacquei, appassionati di relitti, vorrebbero partecipare. Il relitto della “Laura C” rappresenta un vero e proprio ambiente a sé stante, quasi un’oasi di vita isolata e diversa su questo che è un fondale sabbioso dall’aspetto desertico per la quasi totale mancanza di vita bentonica e sessile; un luogo ideale per lo studio e la conoscenza del mondo sommerso e della fauna marina a cui il relitto offre molte opportunità. Dai dati raccolti dai subacquei, che hanno volontariamente aderito al progetto, sono state compilate circa cento schede di rilevamento oltre ad essere scattate decine di foto e realizzate alcune riprese video, emerge che le sue strutture sono ricoperte da madreporari e spugne di vario genere, oltre a tunicati; gli Anthias (Anthias anthias) ed i Saraghi (Diplodus sp.) insieme alle Castagnole (Cromis cromis) creano delle vere e proprie nuvole che avvolgono e circondano l’intera struttura della nave. Nelle zone buie è facile scorgere gli occhietti furtivi di centinaia di Gamberetti (Pleionska narval) che ci osservano timidamente da questi loro nascondigli. La prima cosa che sorprende il subacqueo, dopo l’ingresso in acqua, è il fondale privo di Posidonia oceanica e con qualche masso ricoperto da forme di vita unicellulari come l’Ombrellino di mare (Acetabularia acetabulum) e qualche Coda di pavone (Padina pavonica). Sul fondo, nonostante l’intera area sia interdetta a qualunque forma di attività, esclusa la ricerca scientifica ed ambientale, vi sono nasse disseminate sia davanti la riva a pochi metri di profondità sia in prossimità delle strutture del relitto oltre alla presenza costante di imbarcazioni di ogni genere: insomma, la sistematica violazione dell’ordinanza di interdizione n° 17/2005 del 05/05/2005. Le strutture del relitto sono colonizzate da una gran quantità e varietà di forme di vita sessili come le spugne nere (Spongia agalicina, Spongia officinalis, Cocospongia sp), idrozoi plumulari (Eudendrium, Aglaophenia), sulla fiancata di dritta della nave vi sono dei madreporari a cuscino (Cladocora caespitosa). L’ambiente circostante il relitto risulta essere quasi desertico ed il substrato è ricoperto da una sottilissima polvere che, secondo noi, impedisce il proliferare della vita sessile. Questa polvere, presumibilmente residuo dei lavori di cementificazione delle stive, la si trova fin dai primi metri, in modo particolare dove ancora giacciono i resti delle tubature e dei supporti alle stesse, fino alla quota più profonda a cui si trova la parte poppiera del relitto. Di certo l’esperienza del Progetto promosso da FARE VERDE della Calabria permette di unire fascino della Natura e scienza, Idea ed Azione, Uomo e Natura in sensazioni uniche di difficile narrazione. Emozioni da provare per crescere e …. contribuire a conoscere e difendere il Creato dai vari “inquinamenti”, riscoprendo la tranquillità e la capacità di stupirsi.
campi estivi 2009 Quest’anno, da metà luglio alla fine di agosto, sotto le insegne di Fare Verde sono stati realizzati tre campi estivi di volontariato: in Puglia, a Bitonto (BA), dal 17 al 31 luglio; a Gjakove/Djakovica (Kosovo) dal 1 al 15 agosto; a Villetta Barrea (AQ), località Camosciara, dal 3 al 16 agosto.
Il campo estivo nell’incantevole paesaggio della Camosciara In Abruzzo, presso il Casale Antonucci a Villetta Barrea (AQ), località Camosciara, dal 3 al 16 agosto 2009 si è svolto il Campo nazionale per la protezione della Natura realizzato in collaborazione con il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise. Quest’anno il campo, giunto alla terza edizione, è stato caratterizzato da una forte affluenza di famiglie con bambini, anche esterni all’associazione, che ci hanno contattato telefonicamente e tramite internet, così durante la seconda settimana i bambini formavano quasi una scolaresca! Un campo adatto a tutti. Ogni mattina prima di partire per i sentieri o impegnarsi nelle molte attività, i volontari hanno fatto colazione con il latte crudo, appena munto, acquistato in una fattoria vicina. Una delizia! L’acqua da bere si prendeva in una fontanella presso il paese vicino, dove ci si riforniva anche del vino alla mescita, un ottimo Montepulciano! Banditi contenitori in tetrapak e acque minerali, nel rispetto delle buone pratiche di consumo. Tanti i compiti da gestire e organizzare fra i volontari. Abbiamo assicurato la cura e la manutenzione di diversi sentieri, liberandone i tratti invasi dalla vegetazione e ripristinandone la segnaletica secondo gli standard internazionali. Da menzionare il ripristino dello storico tracciato del “regio tratturo” nel tratto che attraversa la Val Fondillo ed una “rinfrescata” alla segnaletica sul sentiero F10, su Monte Marsicano, dove nei giorni precedenti si erano persi alcuni escursionisti. La mattina c’era il controllo degli accessi: l’ingresso alla Camosciara, meta di turisti in cerca di posti per il picnic, e i due sentieri ad accesso limitato che portano al Monte Amaro, visitabile nel periodo estivo solo con le guide del Parco e a numero chiuso. Nel pomeriggio la cura del giovane frutteto posizionato alle spalle del Casale, recintato per proteggerlo dagli animali selvatici. Il frutteto è un progetto sperimentale del Parco, il cui fine è quello di dare nutrimento agli orsi, per evitare che vadano a rovinare i campi coltivati dagli agricoltori locali. I volontari di FV avevano il compito di ripulirlo dalle erbe ed irrigarlo ogni sera, con una procedura particolare di valvole e tubi. Un pomeriggio, i volontari hanno potuto ammirare un daino che passeggiava e si nutriva vicino al casale. Poco distante dal casale c’era anche una grande gabbia al cui interno si trovava una lince, austera e meravigliosa, che trascorreva lì la sua convalescenza dopo aver subito un’operazione. Molte le attività per i bambini. La cosa più difficile era metterli a letto! Ma per il resto sono stati entusiasti di trascorrere delle giornate di vita semplice, lontani dai ritmi frenetici che ormai attanagliano anche i bambini. Insieme ad altri coetanei, hanno passeggiato fra sentieri e ruscelli, imparando a rispettare la natura. Con la supervisione degli adulti, hanno impastato dolci, creato la carta, irrigato il frutteto, colto foglie e radici
per l’erbolario, accompagnato i turisti all’interno del Centro Visite di Pescasseroli …: una proficua educazione ambientale Un’esperienza positiva per grandi e piccini. Un modo per donare all’ambiente qualche giornata delle nostre vacanze ma anche per riflettere e migliorare, imparando a mettere in pratica le nostre teorie anche quando si è in tanti e si crea confusione nell’organizzazione. Una scuola di vita, di buone pratiche, di vita comunitaria, di condivisione del lavoro e della “carne alla brace”. In definitiva, un tocca sano per riposare occhi, cuore e mente.
L’impegno (contro il fuoco) lascia il segno. I campi estivi antincendio Fare Verde ha ormai un’esperienza ventennale nei campi di tutela ambientale e di prevenzione incendi. Ottimo il servizio svolto dai volontari, che nei due campi regionali della Puglia e del Kosovo hanno rappresentato un efficace presidio territoriale contro la piaga degli incendi boschivi. In Puglia, presso Bitonto (BA), dal 17 al 31 luglio 2009 si è svolto il 3° Campo regionale di tutela ambientale e prevenzione incendi “Paolo Colli” realizzato con il Patrocinio del Parco Nazionale dell’Alta Murgia. In Kosovo, presso Gjakove/Djakovica, dal 1 al 15 agosto 2009 si è svolto il 3° Campo estivo di volontariato ambientale organizzato da Fare Verde Kosovo. Per più di cento volontari giovani e meno giovani provenienti da diverse parti dell’Italia e dal Kosovo, le attività estive di Fare Verde sono state l’occasione per impegnarsi in prima persona e in modo del tutto disinteressato nella conservazione di preziose risorse naturali. I campi sono stati anche occasione di socializzazione con amici vecchi e nuovi, in contesti naturali di rara bellezza ed inestimabile valore per la vita nostra, delle generazioni future e di tutti gli esseri viventi. I volontari hanno vissuto a contatto con ecosistemi spesso aggrediti dai roghi estivi ed assediati da cemento, incuria e interessi dell’uomo, che riesce ormai a dare valore solo a ciò che è quantificabile da un punto di vista monetario. Ecosistemi che non sono quotati in borsa, che non hanno giornali, televisioni, banche, sindacati e lobby in Parlamento, ma che sono di fondamentale importanza per la nostra stessa sopravvivenza su questo piccolo pianeta. Ci auguriamo che l’esperienza dei campi estivi, che Fare Verde organizza ormai da circa vent’anni, abbia lasciato, come già accaduto in passato, un segno positivo nell’animo dei volontari ed abbia rafforzato le loro motivazioni ad impegnarsi per la difesa dell’ambiente e del territorio anche nei contesti urbani in cui noi tutti viviamo per il resto dell’anno.
campobasso
Campobasso, COLLINA MONFORTE: RIPULITo DAI VOLONTARI un luogo simbolo della città Tra i rifiuti ripescati, plastica, imballaggi, usa e getta, batterie e pneumatici d’auto. E i calcinacci,…. dove li butto?? Si è svolta il 4 ottobre 2009 l’iniziativa di volontariato promossa da Fare Verde per ripulire un tratto della collina Monforte altamente contaminata dalla presenza di rifiuti di ogni tipo nascosti tra la vegetazione. Tanti i volontari che hanno risposto all’appello di Fare Verde, tra i quali vanno citati gli amici del neocostituito circolo della Decrescita Felice di Campobasso, e numerosi cittadini. Scarsissima, quasi nulla, nonostante gli appelli, la presenza di amministratori cittadini. Durante i lavori, sono stati estratti dalla vegetazione, centinaia di sacchi colmi di rifiuti di ogni genere, migliaia di bottiglie di vetro, materiali ingombranti, mobilia, rifiuti altamente pericolosi come numerose batterie di auto esauste, pneumatici, fusti di vernici e solventi, scarti edili ed anche numerose tracce del pericoloso Eternit. Come al solito, la plastica, in particolare sottoforma di bottiglie, flaconi, imballaggi vari ed inutili oggetti usa e getta, la fa da padrona nella classifica degli oggetti rinvenuti; un preoccupante segnale del sempre crescente aumento del ritmo di produzione rifiuti e di un errato stile di vita eccessivamente “sprecone” e consumista che, unito allo scarso senso civico di chi se ne disfa in maniera incivile, costituisce una vera e propria emergenza ambientale.
prendiamo iniziativa
civitella alfedena (AQ) - Bitonto (BA) - Gjakove/Djakovica (kosovo)
Tutto il materiale “ripescato” dalla pineta è stato, in maniera provocatoria, accantonato lungo il ciglio di viale del Castello, in bella mostra e pronto per essere ritirato da chi di dovere. Un modo per fare vedere a tutti cosa si nascondeva tra la vegetazione, e richiamare l’attenzione sull’abbandono in cui versa un sito così importante per la nostra città. Con l’auspicio che l’esempio ancora una volta dato da un gruppo di volenterosi cittadini, induca ad un maggior rispetto per l’ambiente e per la città intera sia da parte dei cittadini, sia delle amministrazioni che hanno il compito di vigilare sulla tutela del patrimonio ambientale.
I gruppi locali di Fare Verde possono inviare notizie e comunicati sulle attività locali via email o via fax: info@fareverde.it Fax 06 700 5726 La rassegna stampa locale va inviata periodicamente in busta chiusa a: Fare Verde onlus via Ardeatina 277 00179 Roma
Inoltre, la presenza impressionante dei “calcinacci” e scarti edili, che formano un vero e proprio substrato nella pineta, come peraltro riscontrato anche in altre zone della città, evidenzia l’assoluta necessità di regolamentarne il conferimento creando una isola ecologica a norma accessibile anche dai privati cittadini e non solo dalle imprese edili regolarmente accreditate. E’ opportuno ricordare che i rifiuti inerti sono considerati rifiuti speciali ed il loro conferimento è consentito, a pagamento, solo presso appositi siti privati autorizzati, ma solo per le imprese edili. Ma è noto che non tutti si servono di imprese per effettuare lavori edili; ne consegue che il cittadino che “in proprio” effettua dei lavori producendo calcinacci, non ha maniera alcuna di disfarsi degli scarti in maniera “pulita”; nel migliore dei casi infatti verranno gettati “a rate” nei cassonetti, nel peggiore saranno disseminati in fossi, cunette o pendii, come nel caso della collina Monforte.
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Centrale Nucleare in supposte - ex art. 15 DDL 1441-ter/2008
Composizione: Centrale Nucleare in supposte contiene: Principi attivi: - uranio 235 ottenuto con processi di estrazione e lavorazione caratterizzati da elevato impatto sull’ambiente e la salute. Si consiglia di usarlo con parsimonia: la sua disponibilità non è infinita e il suo prezzo negli ultimi anni è cresciuto più di quello del petrolio; - acqua in grosse quantità prelevate nella maggior parte dei casi da fiumi e spesso restituita contaminata; - cemento armato in quantità elevate, ottenuto creando cave di enormi dimensioni e arricchendo spesso organizzazioni criminali. Eccipienti: mancanza di una politica energetica basata sulle risorse nazionali (sole, acqua, vento, calore della terra, biomasse disponibili in quantità sufficienti e in modo equamente distribuito dalle Alpi alla Sicilia - capacità degli ingegneri italiani, da Leonardo ad oggi, di sviluppare tecnologie innovative); interesse dell’azienda elettrica di stato francese EDF ad esportare all’estero la propria tecnologia nucleare, utilizzando la leadership raggiunta nel settore. Indicazioni terapeutiche: consumi di energia elettrica superiori fino al 46% rispetto al proprio fabbisogno dovuti ad incapacità cronica di utilizzare l’energia in modo razionale ed efficiente. Controindicazioni: radioattività accertata che può verificarsi per periodi più e meno lunghi in base al tipo di scorie prodotte. Attenzione: ogni centrale nucleare produce scorie di tutti i tipi. Le scorie “di terzo grado” (ad alta radioattività) possono richiedere anche 100.000 anni per abbassare il loro livello di pericolosità. In casi gravi, la radioattività può assumere la forma di una nube tossica e spargersi per molti chilometri intorno alla centrale oppure concretizzarsi in sversamenti di materiale radioattivo in fiumi, laghi e tratti di costa. Forme di radioattività più lievi ma estremamente più frequenti si verificano in un raggio più ridotto intorno alla centrale, ai depositi di scorie e agli impianti per l’arricchimento dell’uranio. Con il manifestarsi di crisi energetiche, le centrali nucleari possono portare alla creazione di mercati caratterizzati da scarsa flessibilità e competizione e, di conseguenza, prezzi elevati in bolletta (poche grosse centrali e pochi operatori possono imporre il loro prezzo senza concorrenza). La centrale nucleare può servire a scopi bellici o diventare bersaglio di attacchi terroristici. L’uranio impoverito ottenuto dai processi per l’ottenimento del combustibile per la centrale (arricchimento) può essere sparso attraverso proiettili letali in zone di guerra creando un numero di morti per leucemia o tumore difficilmente quantificabile (informazione rilevata mediante recenti sperimentazioni effettuate in Iraq e Kosovo). Effetti indesiderati: l’elenco dei seguenti effetti indesiderati si basa su circa 60 anni di sperimentazione effettuata su 439 centrali nucleari attive in 31 paesi (dato aggiorato al 2007):
- occultamento dei costi di gestione delle scorie e della sicurezza dell’impianto; - sperpero di denaro pubblico dovuti agli alti costi di progettazione, realizzazione e mantenimento in sicurezza degli impianti, e di gestione delle scorie; - forte dipendenza dall’estero per uranio arricchito e tecnologia; - insensibilità verso le future generazioni cui si lasciano scorie pericolose da smaltire; - pigrizia mentale, che si manifesta in mancanza di creatività e tendenza a riproporre tecnologie del passato; - cronicizzazione della tendenza allo spreco e dell’incapacità di usare l’energia in modo efficiente; Precauzioni: se Centrale Nucleare in supposte è somministrata nelle vicinanze di centri abitati, si consiglia di: - tenere d’occhio pecore e vitelli. In prossimità della centrale spenta del Garigliano si sono verificati diversi casi di malformazione; - di tanto in tanto evitare di bere e lavarsi, fare il bagno in fiumi vicini alla centrale, mangiare pesce pescato nell’area della centrale. Se le autorità lo riterranno opportuno e se l’area non è coperta da segreto militare, vi informeranno dell’ennesimo “incidente lieve”, ma ugualmente nocivo (vedi recenti incidenti in Giappone, Slovenia, Spagna, Francia, Belgio); - controllare frequentemente i propri valori tumorali. Uno studio condotto in Germania ha evidenziato un aumento dei tumori nelle zone vicine alle centrali. Dosaggio e tempi di somministrazione: per rendere economica la cura, se il paziente è italiano si consigliano almeno 10 Centrali da 1.500 MW corrispondenti ciascuna ad 1/5 dell’energia che un paese come la Gran Bretagna sarebbe in grado di produrre con pannelli solari e altri sistemi di microgenerazione (studio del Governo Britannico, giugno 2008). Una volta iniziata la cura, questa tende a protrarsi indefinitamente nel tempo: pur essendoci molte centrali nucleari chiuse, non esistono al mondo centrali completamente smantellate. Anche dopo l’eventuale smantellamento della centrale, occorre mettere in sicurezza le scorie (tutti i pezzi della centrale sono radioattivi). In tutto il mondo non esistono depositi definitivi per le scorie nucleari. La stessa costruzione della centrale ha tempi difficilmente quantificabili. Tenere fuori dalla portata delle persone di buon senso. Non disperdere dopo l’uso le scorie radioattive nell’ambiente.
meglio oggi attivo che domani Radioattivo
contro il nucleare sostieni fare verde
Per cure alternative, rivolgersi a Fare Verde Onlus T/F 06 700 5726 - www.fareverde.it - info@fareverde.it Fare Verde Onlus è riconosciuta dal Ministero dell’Ambiente ai sensi Art.13 L.349/86