11 marzo 2011
Dossier Arriva l’era della mobilità elettrica? pagina 12
A Fukushima si è fusa per sempre un’illusione
L’energia che viene dalla profondità della terra. pagina 18
€ 2,50 #69/gennaio - aprile 2011
Mobility Manager: una fotografia italiana. pagina 10
bimestrale di ecologia senza compromessi
Nucleare? No grazie. Dalla parte del sole. pagina 8
Gruppo locale di Vittoria (Ragusa) - operazione “il mare d’inverno” 2011
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comunità
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7 buoni motivi per sostenere FARE VERDE non accettiamo sponsorizzazioni per preservare la nostra libertà di opinione ed espressione, non accettiamo denaro da aziende. Viviamo solo con le quote versate dai nostri soci e i contributi di Amministrazioni Pubbliche (quindi, fondi dei cittadini) che condividono i nostri progetti. siamo volontari per l’ambiente E’ una scelta culturale di impegno disinteressato per l’ambiente, ma è anche un modo per evitare che il denaro e l’economia siano l’unica misura della qualità della nostra vita. Pensaci, il nostro lavoro non retribuito crea servizi senza figurare nei conti del PIL!
riduciamo gli sprechi energetici realizziamo progetti per ridurre i consumi energetici a parità di servizi, dimostrando sul campo che il nucleare non serve.
puliamo il mare d’inverno puliamo le spiagge a gennaio, quando non servono ai bagnanti e il problema dell’inquinamento del mare non fa audience...
proponiamo il vuoto a rendere sugli imballaggi per ridurre i rifiuti, nonostante lo strapotere economico delle lobby degli imballaggi e degli inceneritori.
xFare+verde: la nostra rivista, dal 1995 senza pubblicità abbiamo scelto di non avere neanche una riga di pubblicità, per garantire l’indipendenza editoriale della nostra rivista.
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今回の東北地方太平洋沖地震において、被災された方に 心よりお見舞いを申し上げるとともに、一人でも多くの方 の無事をお祈り申し上げます。
Siamo vicini al popolo giapponese colpito dal terribile terremoto che ha sconvolto la regione del Tohoku.
人間は自然の前に無力です。 しかし、 進歩するために様々な ものを生み出すことができるのも、 また人間です。 日本が今回の地震によって被った環境的、経済的な被害 は、 世界中の全ての工業国で被りうる被害でもあります。 それだけに私達はこの遠く離れた日出ずる国の震災のニュ ースを、対岸の火事として捉えるのではなく、 自国で起こっ た事のように固唾をのんで見守っています。 今回の震災で日本のみなさんは、 あなたがたがどれほど忍 耐強く、冷静沈着で他人への思いやりにあふれているかを 私達に見せてくれました。 私達はあなたがたがこの苦境を 必ず乗り越えてくれると確信しています。そして新しい未来 のために、私達の手本となるような新しい国として再出発 してくれるでしょう。
Di fronte alle forze dalla Natura siamo piccoli e impotenti. Per migliorare le opere degli esseri umani, invece, possiamo fare molto. I problemi che il Giappone sta affrontando sono comuni a tutti i paesi industrializzati. È per questo che ascoltiamo con grande apprensione le notizie che arrivano dal Paese del Sol Levante. La compostezza ed il senso di solidarietà con cui il popolo giapponese ha affrontato questo terribile circostanza ci ha colpiti profondamente. Siamo certi che saprà superare questo momento difficile e contribuire a costruire un futuro migliore per tutti.
そのためには新しいエネルギーが必要です。 太陽は世界中の全ての人を平等に照らし、 私達が共に歩ん でいくための新しい道を照らし出してくれます。
Abbiamo tutti bisogno di energie nuove per affrontare il terzo millennio. Il Sole ci unisce, il Sole ci darà la forza per intraprendere un nuovo cammino.
日本のみなさん、 がんばってください ! 私達 Fare Verde はみなさんのすぐそばにいます。 たくさんの愛を込めて、 大きな抱擁を送ります。
Coraggio, mettetecela tutta! Fare Verde vi è vicina. Vi giunga il nostro affetto e il più caloroso abbraccio.
Punto Verde
di Sandro Marano
I fumi di Fukushima Cielo oscuro, senza nuvole, i fumi di Fukushima tra la campagna e il mare si disperdono con i calcoli superbi dei tecnocrati. Sotto l’ombra di un pino la grazia di un filo d’erba osservava il saggio Ezra e considerava la misura che non ebbe l’arso Fetonte, né il Guercio, quando al tramonto per sfizio tirava frecce ai contadini (il suo urlo spaventevole odi nel maestrale che butta e torce l’ulivo). Cielo oscuro, senza stelle, tra i fiocchi di neve il silenzio è un grido a Fukushima come concrezione di rocce nel buio d’una grotta.
gambatte kudasai
Lettera aperta al popolo giapponese.
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sommario
3 Lettera aperta al popolo giapponese 5 Tecnologie italiane capaci di futuro 6 Chernobyl? Da noi non sarebbe potuto accadere 8 Nucleare? No grazie. Dalla parte del sole 10 Mobility Manager: una fotografia italiana 12 Dossier: arriva l’era della mobilità elettrica?
#69/gennaio-aprile 2011
18 L’energia che vie dalla profondità della terra 21 I rifiuti in Campania. Qualche dato a confronto 24 Quando il sud già si preoccupava di salvaguardare l’ambiente 25 Aiuti e cooperazione nel continente africano 28 Dolori da errori posturali? L’osteopata può aiutarti! 30 Recensione: Briganti e Pellerossa 31 Prendiamo iniziativa
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Alla redazione di questo numero hanno collaborato gratuitamente: Eduardo Zarelli, Giancarlo Terzano, Giampaolo Persoglio, Marianna Gambino, Marina Mele, Massimo De Maio, Paolo Giordano, Patrizia Forte, Regina De Maio (traduzione Italiano - Giapponese), Sabrina Spaghi, Sandro Marano, Simone Bargelletti
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L’Unità d’Italia guardando al futuro: sono italiane le tecnologie che ci permetteranno di uscire dall’era fossile.
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Solare termodinamico, cogenerazione, biogas da scarti organici, motori solari, lampade a basso consumo, fotovoltaico organico. L’Italia sta indicando da anni la strada per il futuro dell’energia. Per i 150 anni delll’Unità d’Italia, vogliamo celebrare il genio italiano nel campo dell’energia: uomini e aziende che indicano, oggi più che mai, al mondo intero le strade tecnologiche per uscire dall’economia basata sulle fonti fossili e sul nucleare. Tutto il mondo riconosce agli Italiani la capacità di pensare fuori dagli schemi. Gli anglosassoni dicono “think out of the box”, “pensare fuori dalla scatola”. È questa capacità che ci permette da decenni di generare innovazione in tutti i campi, compreso quello dell’energia. La ricerca in Italia può contare su risorse esigue rispetto agli investimenti di altri paesi europei ed industrializzati. Eppure, il numero di ricerche prodotte per ciascun ricercatore italiano è il più alto d’Europa. E le ricerche degli Italiani sono le più citate da altri studi. Non è un caso. È la natura degli Italiani. Molte delle tecnologie che ci daranno l’energia del futuro sono state ideate da Italiani. Eppure, pochi conoscono nomi, facce, aziende che hanno scritto e sempre più scriveranno la storia dell’energia nel mondo. E pochi sanno che le idee Italiane per il futuro dell’energia sono già oggi sfruttate commercialmente da aziende straniere. È vero, era Italiano anche colui che ha inventato il nucleare. È proprio vero. Abbiamo inventato quasi tutto noi. Il peggio e il meglio. Ma per i 150 anni delll’Unità d’Italia, vogliamo dare voce all’Italia migliore. Quella che ci permette di dire, molto più della paura per il disastro atomico giapponese, “no, grazie” a tutti coloro, Governo e gruppi di potere economico, che vogliono mettere il destino energetico della nostra Nazione nelle mani dell’industria nucleare francese. Una industria di stato, alla faccia del liberismo. Un “no, grazie” gioioso e illu-
minato dalla creatività e dalla capacità di innovazione degli Italiani. Non è la paura, ma la capacità di futuro che ci muove. Giovanni Francia, con le sue intuizioni e sperimentazioni presso la Stazione solare di S.Ilario, nell’arco di meno di vent’anni, richiamò l’attenzione di tutto il mondo su Genova, che a metà degli anni settanta poteva essere considerata “capitale mondiale del solare”. Progettò e costruì il primo impianto solare a concentrazione nel 1968. Era capace di produrre 1MW di energia elettrica. Molti anni dopo, nel 1981, nel Sud della California la sua tecnologia fu perfezionata in un impianto da 354 MW. Mario Palazzetti nel 1973 ideò presso il Centro Ricerche Fiat il primo esempio di cogeneratore. Utilizzava il motore di una 127, di 903 cm3, modificato per funzionare a gas o biogas. Il motore azionava un alternatore di 15 kW che forniva all’utenza l’energia elettrica. Il calore generato dal motore, solitamente disperso mediante i gas di scarico ed il corpo del motore stesso, veniva invece utilizzato per scaldare l’acqua usata poi per il riscaldamento degli ambienti e per usi sanitari. La accurata progettazione consentiva un recupero del 90% della energia introdotta con il combustibile, e la sua modularità consentiva la installazione di molteplici unità controllate elettronicamente. Molti anni dopo, è possibile acquistare cogeneratori non dalla FIAT, ma da Volkswagen, Totyota e Mitsubishi. I giovani ricercatori del Polo solare organico dell’Università Tor Vergata di Roma, hanno avviato nel 2009 la fase di industrializzazione di una nuova generazione di pannelli fotovoltaici senza silicio. Hanno utilizzato
il succo di mirtillo, perchè nel sottobosco quelle piante hanno sviluppato più di altre la capacità di sfruttare la poca luce del sole di cui dispongono. Lo hanno fatto con poche risorse e le capacità di uno straordinario gruppo di giovani scienziati. Tutti Italiani. Mauro Mengoli, allevatore di Castenaso, alle porte di Bologna, ha realizzato uno dei primi impianti capaci di ricavare metano da liquami e scarti agroalimentari. Lo ha fatto quando ancora non c’erano incentivi economici per le energie rinnovabili. Lo ha fatto da solo, riprendendo e perfezionando tecnologie messe a punto da contadini italiani negli anni 70. Alessandro Cascini, ingegnere aeronautico che lavorava per Maserati e Ferrari e che ora, con la sua MAC T , si è riconvertito alla produzione di piccoli impianti eolici, alti tre metri e con l’elica in legno lamellare, conformata come una piccola scultura. Alternativi all’eolico impattante da 120 metri. Che uniscono design e tecnologia nel miglior spirito del “made in Italy”. La Archimede Solar, del Gruppo Angelantoni, azienda attiva nel settore dell’alta tecnologia, è l’unica al mondo che produce tubi per il solare termodinamico a concentrazione. Lo fa su brevetto ENEA. Oggi è partecipata dalla Siemens, che, mente usciva dal progetto nucleare EPR francese, ha scelto la tecnologia italiana per realizzare il progetto Desertec: impianti solari nel deserto del Sahara. L’elenco potrebbe continuare. Ma è inutile dilungarsi, il senso di queste parole è uno solo: il nucleare è una tecnologia contraria agli interessi dell’Italia sotto tutti i punti di vista. Non si tratta solo di mettere in mani straniere il destino energetico della Nazione, ma di fare una scelta di campo: essere terra di conquista di gruppi economici multinazionali oppure svolgere un ruolo di guida a livello internazionale per aiutare Francia, Giappone e Germania ad uscire dal tunnel del nucleare. Io scelgo l’Italia.
tecnologie italiane
di Massimo De Maio
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Chernobyl? Da noi non sarebbe potuto accadere...
nucleare
di Giancarlo Terzano “Da noi non sarebbe potuto accadere”. Ce lo siamo sentiti dire tante volte, quando ricordavamo la pericolosità degli impianti nucleari ed il rischio di nuove Chernobyl. Roba da Unione Sovietica, da tecnologie obsolete, errori umani che i moderni sistemi di sicurezza sarebbero in grado di scongiurare. Sembravano sicuri, nel rassicurarci, i vari Chicco Testa, i Veronesi, gli Scajola ed i Romano, quei politici e scienziati per i quali anche l’atomo sembra un gioco. Eppure, con Fukushima, è accaduto di nuovo. Non in una dittatura comunista, dalle tecnologie arretrate, e neppure in un paese da terzo o quarto mondo, ma nel moderno Giappone, terza potenza industriale del pianeta, paese di avanguardia tecnologica e scientifica. E’ accaduto di nuovo, un disastro nucleare tipo Chernobyl, con il suo corollario di verità nascoste e ammissioni tardive, di evacuazioni forzate e timori diffusi, di radioattività portata lontano, di contaminazioni e malattie il cui triste bilancio conosceremo tra anni. Causa scatenante non è stato un errore umano, né l’obsolescenza dell’impianto, ma la forza della Natura, un tremendo terremoto / tsunami di forza maggiore del solito. Un evento imprevisto, perché non comune, ma non certo imprevedibile, nel Giappone che pur sa convivere con i terremoti. E la rassicurazione, che una seconda Chernobyl non sarebbe stata possibile, si è incrinata, obbligando il mondo intero (a partire da chi il nucleare già ce l’ha in casa, e si trova di fronte al problema di gestirlo) ad una più seria riflessione. “Da noi non sarebbe potuto accadere”. Più che una rassicurazione, detta con cognizione di causa, appariva una battuta, o una scommessa, magari di chi ama giocare con l’azzardo. Perché sanno tutti che con il nucleare il rischio zero non esiste: l’incidente è una probabilità, un rischio possibile, che si cercherà, senz’altro, di evitare (con enormi investimenti sulla sicurezza),
“Da noi non sarebbe potuto accadere”. Più che una rassicurazione, detta con cognizione di causa, appariva una battuta, o una scommessa, magari di chi ama giocare con l’azzardo. Perché lo sanno tutti che con il nucleare il rischio zero non esiste.
28 marzo 1979, Three Mile Island (USA) - incidente di livello 5 su 7 ma che non è possibile escludere con assolutezza. Un rischio accettato, nella consapevolezza però che in caso di incidente la posta in palio assume dimensioni catastrofiche. Fukushima non è il primo disastro nucleare. Prima c’erano stati Three Miles Island e Chernobyl. Ma questi sono solo gli eventi più noti e devastanti. In realtà, la storia del nucleare (una storia tutto sommato recente, appena 60 anni) è costellata di piccoli incidenti, di fughe di radioattività, di allarmi e catastrofi sventate. Sono stati censiti circa 130 incidenti, di varia gravità e dalle varia cause. Incidenti che hanno riguardato le poche centinaia di centrali oggi attive nel mondo, oppure i siti di stoccaggio delle scorie prodotte. Come nel caso delle miniere di salgemma ad Asse, in Bassa Sassonia. Negli anni ’70, le autorità tedesche vi ave-
vano seppelliti 126mila fusti di scorie nucleari a bassa e media radioattività, confidando che le miniere, risalenti ad epoche remotissime, quando al posto della Germania c’era il mare, e rimaste finora intatte, potevano garantire un sicuro stoccaggio ancora per i prossimi secoli. Per scoprire poi, qualche anno fa, che l’acqua vi era penetrata, che alcuni fusti mostravano crepe, che le falde erano divenute radioattive. Obbligando il governo ad impegnarsi per rimuovere le scorie (un lavoro che richiederà 20 anni!). Catastrofe sfiorata anche da noi, nel 2000, quando un’alluvione della Dora Baltea minacciò gravemente Saluggia, dove si conserva il 65% dei rifiuti nazionali: ancora pochi centimetri, come denunciato all’epoca da Carlo Rubbia, e la Dora avrebbe inondato la struttura, provocando la contami-
26 aprile 1986, Chernobyl (URSS) - incidente di livello 7 (massimo) nazione dell’intero bacino del Po fino all’Adriatico. Sono i rischi dell’avventura nucleare, legati alla pericolosità delle centrali ma anche alla difficoltà di gestione delle scorie. Rischi dell’oggi, ma che lasceremo anche alle generazioni future, quale sgradita eredità di questa civiltà drogata di consumi. “Da noi non sarebbe potuto accadere”. Anche prima di Fukushima, questa affermazione mi lasciava perplesso. E non solo perché il nucleare è, in sé, un gioco pericoloso. Mi si presentavano agli occhi le immagini delle tante frane e alluvioni, o del terremoto a L’Aquila. Di un paese, cioè, tutt’altro in grado di preservare il territorio e di prevenire le catastrofi naturali. E pensavo ai palazzi (pubblici) costruiti con la sabbia, agli “imprenditori che ridono” la notte del terremoto, alle infiltrazioni di mafia e camorra nei grandi appalti e nel traffico dei rifiuti tossici, alla corruzione di politici e amministratori, tutt’altro che insensibili alle pressioni dei gruppi economici. Pensavo all’Italia, insomma, che non ci piace ma di cui non possiamo ignorare l’esistenza, che poca fiducia infonde quanto a trasparenza, sicurezza, rispetto delle leggi. Confidando poco che, in caso di nucleare, il “sistema Italia” avrebbe mostrato di essere molto diverso. Pensavo all’abbandono dei rifiuti radioattivi prodotti dalle centrali italiane fino alla chiusura del 1987, depositati “provvisoriamente” (cioè, ormai da vari decenni) in siti occasionali. Non siamo ancora stati in grado di sistemare adeguatamente i rifiuti di una gestione nucleare finita quasi 25 anni
fa, ma oggi si pensa di ripartire. Pensavo alle difficoltà che incontrano, nel mondo, gli Stati che dipendono dal nucleare per trovare una soluzione al problema delle scorie (valga per tutti il caso degli Stati Uniti, primo operatore mondiale nel campo nucleare, ed il deposito di Yucca Mountain). E pensavo alla faciloneria e superficialità, davvero sconvolgenti, con cui politici di rilievo ed i soliti scienziati, affrontavano questo problema. Da Veronesi, che le scorie se le metterebbe anche nella sua camera da letto (sic!), alla Hack che vorrebbe mandarle con i razzi nello spazio (!!!), fino a chi – più semplicemente – non ha soluzioni da proporre e si accontenta di scaricare il problema sulle generazioni future. Affermazioni sconvolgenti – tanto più perché dette da protagonisti di primo piano del “rinascimento nucleare” che non lasciano davvero sperar bene sulla serietà con cui si è affrontato il problema.
Pensavo alle indagini mediche che in Italia non si fanno. Alla difficoltà di trovare una causa agli aumenti di leucemie infantili e alla diffusione di malattie tumorali, soprattutto in alcune zone. Ai registri tumori che, seppur previsti, non vengono istituiti, calando il silenzio sul perché vicino ad alcuni impianti ci si ammali notevolmente più che in altri posti. E pensavo, al contrario, agli studi sull’aumento dei casi di leucemia infantile nei dintorni di centrali nucleari tedesche, sui 20mila aborti spontanei registrati nelle vicinanze di 31 impianti atomici svizzeri e tedeschi, sull’incredibile aumento, fino al 433%, dei casi di tumore alla tiroide negli uomini in Francia dal 1980 al 2005. Come ascoltare, senza sentirsi presi in giro, le ridicole rassicurazioni degli Scajola, o dei Testa, sull’assoluta sicurezza per chi vive nei dintorni di una centrale? Da noi non deve potere accadere. Né una nuova Chernobyl, né una nuova Fukushima, né alcun altro incidente nucleare, di maggiore o minore gravità. E il modo migliore – l’unico modo davvero sicuro – è fermare l’insensato ritorno al nucleare. Lo richiede la sicurezza, ma anche l’economia e l’ambiente, che suggeriscono altre strade per affrontare il nodo energetico. Saranno gli italiani a scongiurare nuovi pericoli, dicendo nuovamente “No”, come nel 1987, ad ogni progetto nucleare.
11 marzo 2011, Fukushima Dai-ichi (Giappone) - incidente di livello 7 (massimo)
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Nucleare? No grazie. Dalla parte del sole.
nucleare
di Eduardo Zarelli
È assurdo che una battaglia tra pro e contro il nucleare debba svolgersi proprio nel Paese del sole, del mare, del vento. Ma è anche inutile puntare sulle fonti rinnovabili, se le si pensa come un fattore di continuità e non di cambiamento rispetto a un sistema produttivo ormai al capolinea. La catastrofe giapponese mette impietosamente in evidenza l’impotenza e l’incapacità da parte di chi gestisce le centrali nucleari, di controllare in maniera soddisfacente situazioni di grave emergenza. Non perché i tecnici e gli scienziati giapponesi siano incompetenti (unanimemente considerati fra i migliori al mondo) ma in quanto tecnologicamente non esistono i requisiti per far fronte ad emergenze di questo genere. In questo scenario epocale si innestano gli afflati del dibattito politico e culturale sull’energia nucleare nel nostro Paese. I motivi del reimpianto delle centrali vengono giocati sul campo della razionalità produttiva, dell’autonomia e diversificazione delle fonti. Come fattore di crescita sociale per i progressisti, così come di volontà di potenza e sovranità politica per i conservatori. In realtà, la pacata disanima dei fattori in campo, basterebbe a considerare come insipiente la scelta governativa, ma è forse più importante elevare il tono della discussione, a dimostrare la fragilità delle categorie ideologiche di fronte ai temi di mutamento e contrad-
dizione epocale che scuotono la civilizzazione occidentale. Le quattro nuove centrali nucleari progettate, con un costo di 30 miliardi di lire, entrerebbero in funzione fra 15/20 anni, e produrrebbero il 5% dell’energia nazionale. È del tutto evidente la sproporzione tra investimento e risultato. Il 5% è quanto si può ottenere da subito con una seria politica di risparmio e di efficienza degli impianti già esistenti. Il costo Kwh (kilowatt/ora) del nucleare è maggiore di quello di ogni altra fonte (nucleare: 10,2 – eolico: 9,9 – carbone: 9,8 – gas: 8,2), questo perché oltre agli investimenti per la costruzione di una centrale, bisogna calcolare anche il costo di smantellamento, che può persino raddoppiare. Ultimo, ma non ultimo, le centrali utilizzano come combustibile l’uranio. Le principali miniere di uranio (ad esaurimento) sono in Australia e in Africa: quale indipendenza quindi? La stessa consapevolezza ambientalista riconosce che se nel medio periodo le fonti rinnovabili sono in grado di fornire una quantità di energia uguale
o superiore a quella dei fossili, hanno comunque dei limiti. E allora in un pianeta finito non possiamo pensare di mantenere costante e invariato il ritmo di crescita che è stato tipico della società industriale mossa da tali combustibili in via di esaurimento. Il problema fondamentale è quindi abituarsi a vivere in una condizione di cambiamento radicale del paradigma della crescita illimitata. Le risorse naturali si stanno esaurendo e non può esservi una crescita materiale infinita in un mondo finito. Comunque vada, la strada intrapresa ci porta verso una società stazionaria; il solo interrogativo è: di quanta energia potrà disporre questa società? Che sia poca o che sia tanta, bisognerà necessariamente adattarsi, non sarà possibile fare altrimenti. Ma una società stazionaria è comunque completamente diversa da ciò a cui siamo abituati. Lo è dal punto di vista innanzitutto culturale, quindi politico ed economico. In tal senso, dov’è la convenienza economica a insistere su una tecnologia comunque imperfetta e dipendente da una fonte fossile in esaurimento? Che patto generazionale è mai quello che lascia alle future generazioni per centinaia, migliaia di anni, le conseguenze di un sistema energetico che durerà, una volta costruito, 50 o al massimo sessant’anni? Non è assurdo che una battaglia tra pro e contro il nucleare debba svolgersi proprio nel Paese del sole, del mare, del vento? Una politica rivolta allo sfruttamento delle potenzialità del solare e delle altre fonti rinnovabili e alla riduzione razionale dei consumi sarebbe un motore importante per un diverso modello economico nel nostro paese. Mentre i costi delle energie rinnovabili scenderanno certamente nei prossimi dieci anni, i costi del nucleare sono per loro natura imponenti e a onerosissimo finanziamento pubblico. In Germania se ne sono accorti: «La politica ecologica è la politica del futuro, anche per l’economia» ha spiegato il ministro dell’Ambiente tedesco Norbert Roett-
grande battaglia, che coinvolge lo stile di vita individuale in un contesto comunitario e partecipativo, solidale perché sussidiario. Una vera rivoluzione fattuale, per mutare l’attuale modello di sviluppo.
gen, non un bucolico estremista quindi. I dati ufficiali del suo dicastero, che né le imprese né tantomeno i Grünen contestano, parlano chiaro: l’efficienza nell’uso delle materie prime nell’economia tedesca è aumentata del 46,8% tra il 1994 e il 2009. I costi del sistema economico sono calati di 100 miliardi di euro. Proprio mentre, parallelamente, la percentuale di energia prodotta dal nucleare scendeva dal 27,3% del 1991 a una cifra attorno al 20% (fino alla chiusura dei sette reattori decisa nei giorni successivi alla tragedia giapponese), e quella delle rinnovabili volava nello stesso arco di tempo dal 3,2 al 17%. Una produzione di energia elettrica affidata al 100% alle rinnovabili è possibile entro il 2050 e il governo si è posto l’obiettivo di arrivare all’80% nel consenso trasversale non dichiarato: mentre i reattori nucleari tedeschi danno lavoro a circa 30mila persone, gli occupati nel comparto delle rinnovabili sono aumentati dai 277mila del 2007 ai circa 340mila attuali. Ma questo non basta: inutile puntare sulle fonti rinnovabili, se le si pensa come un fattore di continuità e non di cambiamento rispetto a un sistema produttivo ormai al capolinea. La “rivoluzione” verde funzionerà solo se si avrà il coraggio di abbandonare l’attuale sistema. Il mondo naturale non è una semplice tela di fondo su cui si muovono le nostre esistenze, una sorta di magazzino di risorse naturali, erroneamente considerate inesauribili e gratuite all’infinito; ma è invece una delle condizioni sistemiche della vita. Distruggere la natura non solo significa l’eliminazione del nostro luogo ma anche di noi stessi, come se fossimo
a scadenza. Ogni cosa ha un limite. Qualsiasi tendenza spinta al suo estremo si trasforma bruscamente nel suo contrario. Nella prospettiva di una post-crescita, è necessario riconoscere il valore intrinseco della natura, un valore autonomo rispetto all’uso che ne facciamo. In tal senso, da consumatori dobbiamo diventare produttori consapevoli di energia a filiera corta. La maggior parte dell’energia, non dovrà più essere prodotta in grandi centrali, ma tramite piccoli impianti per autoconsumo collegati in rete per scambiare le eccedenze. Solo in questo modo si potranno risolvere i problemi legati alla discontinuità delle fonti rinnovabili, minimizzando il loro impatto ambientale e riducendo anche le perdite di trasmissione. Una “rete di reti” locali, sul modello del web. Anche a tutela estetica: i grandi impianti a fonti rinnovabili, oltre a devastare il paesaggio e i terreni agricoli, implementano legalmente con denaro prelevato dalle tasche dei contribuenti gli utili delle grandi aziende energetiche, con l’appoggio dei partiti e di storiche associazioni ambientaliste. La scelta strategica di spostare l’asse della produzione energetica su piccoli impianti di autoproduzione con scambio delle eccedenze in una “rete di reti”, orizzontale come il web, può creare un cambio radicale di paradigma e promuovere una nuova politica economica, finalizzata a creare occupazione nelle tecnologie che consentono di attenuare la crisi ambientale: sarebbe una drastica inversione della tendenza alla globalizzazione, verso la rivalutazione delle economie locali. Il territorio è il luogo naturale di questa
In termini culturali, sono proprio fisici come lo scomparso Ilya Prigogine o Fritjof Capra che interpretando la materia oltre la provocazione titanica della fissione hanno contribuito nell’affermarsi dei nuovi - in realtà antichi - modelli epistemologici olistici per cui il concetto di relazione diventa più importante del concetto di struttura o di entità dell’oggetto. Si tratta di un cambiamento radicale, paradigmatico appunto, la struttura della rete nel suo complesso è determinata unicamente dalla coerenza delle relazioni. Questa visione è vista con sospetto, perché delegittima la tradizione scientifica dualistica e riduzionista dominante. Ma la coscienza delle interconnessioni e delle interdipendenze fondamentali di tutti i fenomeni, la coscienza dell’integrazione in sistemi più ampi, è nello stesso tempo coscienza ecologica e coscienza spirituale. Innerva le maggiori forme sapienziali tradizionali tra Oriente e Occidente secondo le quali ogni parte “contiene” tutte le altre in una percezione sacrale della natura. Come dice Sri Aurobindo: “Per il senso supermentale non vi è nulla di realmente delimitato: esso si fonda sulla percezione del tutto in ogni cosa e di ogni cosa nel tutto”. E così si esprime Sir Charles Eliot commentando le forme del Buddhismo giapponese: “Si dice che nel cielo di Indra esiste una rete di perle disposta in modo tale che, osservandone una, si vedono tutte le altre riflesse in essa. Nello stesso modo, ogni oggetto nel mondo non è semplicemente sé stesso ma contiene ogni altro oggetto, e in effetti é ogni altra cosa. In ogni particella di polvere, sono presenti innumerevoli Buddha”. Un messaggio di inesauribile saggezza dalla cultura del dignitoso Paese della divina e solare Amaterasu, per una civiltà dell’Essere e della compiutezza.
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Mobility Manager: una fotografia italiana.
trasporti
di Sabrina Spaghi
Ridurre l’impiego delle auto private negli spostamenti casa-lavoro, abbattendo i costi di trasporto, l’inquinamento dell’aria, la congestione delle strade… è l’obiettivo del Mobility manager, una figura resa obbligatoria dal 1998 nelle aziende ed enti pubblici più grandi, che ancora oggi tuttavia stenta ad affermarsi. Il termine Mobility Management definisce un nuovo modo di gestire la domanda di mobilità urbana, allo scopo di promuovere la sostenibilità facendo leva sul cambiamento degli atteggiamenti e dei comportamenti di mobilità delle persone. Anziché proporre il potenziamento dell’offerta di trasporto pubblico, che normalmente richiede investimenti notevoli e tempi di realizzazione lunghi, l’obiettivo si concentra sullo studio dei comportamenti degli utenti e sulla domanda di trasporto. Gli obiettivi sono: ridurre l’uso delle auto private, aumentare l’utilizzo del trasporto collettivo e dei mezzi sostenibili, ridurre i livelli d’inquinamento atmosferico e la congestione stradale, introdurre servizi innovativi per la mobilità.
In Italia il Mobility Management si afferma a partire dal Decreto Ronchi del 27 marzo 1998 sulla “Mobilità sostenibile nelle aree urbane”1 . Il Decreto introduce la figura del Responsabile della Mobilità Aziendale (Mobility Manager d’Azienda), coinvolgendo così anche le aziende e i lavoratori nell’obiettivo di una mobilità sostenibile. Tale figura aziendale diventa obbligatoria per legge per le aziende e gli enti pubblici con più di 300 dipendenti per unità locale (o con oltre 800 dipendenti distribuiti su più sedi)2. Il Mobility Manager ha il compito in azienda di sottolineare il bilancio positivo tra le risorse impiegate per l’adozione delle misure di mobilità sostenibile e i benefici per l’azienda, i suoi dipendenti e la società (Tabella 1). Il Mobility Manager promuove quindi iniTabella 1: Vantaggi complessivi dell’applicazione dello strumento ziative di persuasione del Mobility Management (creare la coscienza del Migliore accessibilità all’azienda per dipendenti e non problema, modificare Riduzione dei costi e dei problemi legati ai servizi di parcheggio Migliori rapporti con i residenti della zona (più posti per la sosta le abitudini quotidiane Vantaggi e minor inquinamento acustico) di mobilità dei dipenper l’azienda Riduzione dei costi per i rimborsi sui trasporti denti), di concessione Dipendenti meno stressati e quindi più produttivi (creazione di nuovi Immagine aziendale aperta ai problemi dell’ambiente Filosofia aziendale basata sulla cooperazione servizi per i cittadini Minori costi del trasporto e miglioramento di Riduzione dei tempi di spostamento quelli già esistenti) e di Vantaggi Possibili premi economici restrizione (politiche per i dipendenti Riduzione del rischio di incidenti di park e road pricing, Minore stress psicofisico da traffico Socializzazione predisposizione di Riduzione dell’inquinamento atmosferico ZTL, ecc.). Un esemRiduzione dell’inquinamento acustico pio è la promozione Vantaggi Riduzione del rischio di incidenti, quindi maggiore sicurezza per la collettività dell’uso del trasporto Riduzione della congestione stradale pubblico in azienda Riduzione dei tempi di viaggio
attraverso l’offerta ai dipendenti di una tariffa urbana ridotta grazie ad accordi con la società di trasporto locale. Altro esempio è l’introduzione di sistemi di car-pooling aziendale: i dipendenti potrebbero organizzarsi in gruppi di auto a turno per ridurre i costi e le auto circolanti. Altra soluzione è semplicemente l’installazione nel parcheggio aziendale di rastrelliere per biciclette, una comunicazione più trasparente in tema di mobilità e la sensibilizzazione dei dipendenti al problema. Una delle responsabilità chiave attribuite al Mobility Manager Aziendale è la redazione ed attuazione del “Piano degli Spostamenti Casa-Lavoro” (PSCL), ovvero l’insieme di misure messe in atto da un datore di lavoro per incoraggiare modalità di spostamento più sostenibili per i propri dipendenti, ovvero un minore utilizzo dell’auto privata. Ricerche internazionali in tema di PSCL dimostrano l’efficacia dello strumento nell’obiettivo di mobilità sostenibile. Il più approfondito di tali studi è stato effettuato in Gran Bretagna e ha coinvolto nell’analisi 20 aziende per un totale di oltre 69.000 dipendenti3. Le aziende, private e pubbliche, sono state selezionate come esempi di corretti comportamenti nella gestione della mobilità dei dipendenti. Lo studio ha evidenziato una sostanziale variazione nell’uso dell’auto come mezzo di trasporto in seguito all’adozione e attuazione dei PSCL (Tabella 2), confermando le notevoli potenzialità dello strumento. Il Decreto Ronchi prevede inoltre l’istituzione presso l’Ufficio Tecnico del Traffico di una struttura di supporto e coordinamento dei Mobility Manager aziendali. Tale struttura è retta da una figura definita Mobility Manager di Area, dove per “area” si intende il territorio comunale di riferimento. Il Responsabile di Area ha quindi come obiettivo il miglioramento della mobilità urbana nell’area di sua competenza e la predisposizione di politiche di disincentivo all’uso dell’auto privata per gli spostamenti. La sua è quindi una funzione di raccordo, coordinamento e confronto tra tutti i responsabili azien-
dali della mobilità operativi sul territorio di competenza. Allo stesso tempo egli può essere anche il Responsabile Aziendale della Mobilità del Comune, ovvero dei dipendenti comunali della sua area territoriale (in questo caso con funzioni esattamente analoghe al suo collega nelle aziende private). In Italia il Mobility Management è costantemente cresciuto e rappresenta uno strumento molto utile ed efficace nella riduzione dell’inquinamento e della congestione cittadina. Allo stato attuale si contano in Italia 66 Uffici d’Area (54 a livello comunale, 11 a livello provinciale o area vasta, uno di area industriale), mentre sono circa 800 i Mobility Manager Aziendali operativi4. In alcune realtà territoriali la gestione di dimensione comunale dell’ufficio del Mobility Manager d’Area è spesso sostituita da una gestione più ampia come quella a livello provinciale (esempi sono Bergamo, Ferrara, Rimini e Torino)5. Spesso accade anche che la gestione dell’ufficio d’area sia affidata ad agenzie che si occupano della mobilità e del mobility management per conto del Comune (esempi sono Milano6, Roma e Parma)7. Esistono in Italia esempi virtuosi di applicazione dello strumento. L’associazione Euromobility, principale referente italiano in materia, ha premiato la città di Brescia per le ottime politiche integrate a favore della mobilità (introduzione di car-pooling, sensibilizzazione al trasporto pubblico e all’uso della bicicletta, tariffazione dell’auto in funzione dei km percorsi, introduzione della spesa on-line, ecc.). L’Università di Brescia è stata premiata per avere in-
trodotto politiche di mobilità negli spostamenti casa-lavoro dei 1.100 dipendenti e degli oltre 14.000 studenti. Fra le aziende è stata premiata la società Sace S.p.a., azienda collegata al Ministero del Tesoro, che grazie a incentivi economici ha favorito per i dipendenti tariffe di trasporto pubblico agevolate e ha creato un sistema informatizzato per la corretta e trasparente comunicazione delle informazioni sul trasporto pubblico locale. Infine è da segnalare la Provincia di Asti che, pur non essendo sottoposta a vincolo di legge, ha redatto un ottimo PSCL per la mobilità dei dipendenti, anche attraverso un concorso a premi per incoraggiare l’uso di mezzi sostenibili nelle trasferte lavorative. Nonostante la continua crescita del numero di Responsabili della Mobilità Aziendale e di Area, il dato più rilevante in Italia è però l’effettiva mancata applicazione della legge a distanza di oltre 10 anni dall’entrata in vigore. Sono ancora troppo poche le aziende e i comuni che hanno realmente istituito un ufficio per tale compito. Consideriamo che non si parla di gestione della mobilità in generale, ma solo di quella riguardante gli accessi ai posti di lavoro, ovvero la parte più rilevante del traffico cittadino giornaliero nelle ore di punta. Questa scarsa diffusione dello strumento è un peccato perché esso potrebbe davvero essere la soluzione al problema della mobilità cittadina. Oltre ai vantaggi sociali in termini di mobilità, lo strumento potrebbe essere utile anche alle aziende: ad esempio pensiamo alla possibile defiscalizzazione delle spese aziendali per le attività di mobility management, oppure alla migliore
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immagine aziendale sul territorio e sul mercato. Certo anche in termini legislativi molto è ancora da fare. Al momento l’obbligo dello strumento cade sulle grandi aziende, mentre le pmi italiane con meno di 300 dipendenti, le più diffuse sul territorio, sono escluse dai vincoli di legge. E, come dicevamo, le aziende obbligate per legge spesso non hanno svolto nulla di fatto in materia. Mancano quindi anche controlli sul territorio. Naturalmente il periodo di crisi attuale non agevola una visione ottimistica sull’argomento: le aziende cercano di ridurre i costi e politiche di questo tipo son viste dal mondo imprenditoriale come semplicemente un costo in più senza percepirne i benefici. Certo sarebbe d’aiuto ad esempio inserire la nomina di Mobility Manager e la redazione di PSCL come elemento di valore aggiunto per le certificazioni di sostenibilità ambientale (ISO 14001 e Emas) e per la responsabilità sociale d’impresa. Ciò farebbe leva sul mercato delle certificazioni e sul concetto di marketing etico, creando una nuova concorrenza proprio in tema di gestione della mobilità aziendale. I vantaggi sarebbero per tutti, per le aziende, per i dipendenti, per la società, in un’ottica davvero sostenibile.
trasporti
Tabella 2. Variazione nell’uso dell’auto negli spostamenti casa-lavoro in aziende inglesi che adottano PSCL Auto per 100 dipendenti Prima Dopo Azienda Punti % persi Variazione % Orange (Temple Point) 79 27 52 -66 Bluewater 69 31 38 -55 Plymouth Hospitals NHS Trust >78 <54 >24 >-31 Computer Associates 89 74 15 -17 Buckinghamshire County Council 71 56 15 -21 Addenbrooke’s NHS Trust <74 <60 >14 >-19 Wycombe District Council 77 65 12 -16 Orange (Almondsbury Park) 92 80 12 -13 Nottingham City Hospital NHS Trust 73 61 12 -16 Marks and Spencer Financial Services <95 <83 >12 >-13 BP 84 72 12 -14 Vodafone <84 <75 >9 >-11 University of Bristol 44 35 9 -20 Egg 62 53 9 -15 AstraZeneca <90 <82 >8 >-9 Government Office for the East Midlands <45 <38 >7 >-16 Pfizer 75 68 7 -9 Agilent Technologies 71 65 6 -8 Stockley Park <88 <84 >4 >-5 Oxford Radcliffe Hospitals NHS Trust (JR site) 58 54 4 -7 Boots 3 -5 65 62 Average 74 61 >-14 >-18 National Travel Survey comparison 59
1.http://www.euromobility.org/normativa_new/index.htm 2. Il successivo Decreto 20 dicembre 2000 ha incentivato l’implementazione del Mobility Management attraverso forme di finanziamento ai Comuni di Piani per la mobilità sostenibile e l’estensione dell’applicazione del Decreto Ronchi a tutti i Comuni, senza limitarsi a quelli a rischio di inquinamento atmosferico. 3. Cairns S, Davis A, Newson C and Swiderska C (2002) Making travel plans work: research report. Report by Transport 2000, ESRC Transport Studies Unit UCL and Adrian Davis Associates for Department for Transport. 4. http://www.euromobility.org/Mobility_Management/index.html 5. Euromobility, La mobilità sostenibile in Italia: indagine sulle principali 50 città, edizione 2008, p. 23-24. 6. Ad esempio, il Comune di Milano ha affidato l’incarico all’Agenzia Milanese Mobilità e Ambiente S.p.a. 7. Bertuccio L, Cafarelli E, Il Mobility Management, in APAT (2006), Il Rapporto sull’ambiente urbano, Agenzia per la Protezione dell’Ambiente e del Territorio, Roma, 2005.
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Arriva l’era della mobilità elettrica?
di Giampaolo Persoglio
Mai come in questo periodo l’industria automobilistica è di fronte ad una scelta vitale: quale tecnologia sviluppare per garantire la sopravvivenza e poter acquisire una posizione di vantaggio competitivo per le sfide degli anni a venire. L’impressione che circola tra gli analisti di settore e tra gli addetti ai lavori è che siamo all’anno zero. La saturazione del mercato, causa e conseguenza della crisi economica, l’emergenza ambientale, la necessità di svincolarsi il più possibile dall’egemonia del petrolio, porta a dover affrontare la scelta incombente sul sistema di propulsione per le automobili di domani. La situazione tecnologica è quanto mai intricata: l’idrogeno rimane per molti il modello a cui puntare, ma in questo momento è stato messo da parte a causa degli alti costi di sviluppo e del tempo ancora necessario per poter industrializzare un sistema di propulsione e di approvvigionamento su larga scala. Bisogna trovare la soluzione per stoccare l’idrogeno all’interno dei veicoli, nelle stazioni di rifornimento e per poterlo trasportare in grandi quantità nella rete
Il costo della benzina aumenta, e le case automobilistiche, un po’ per darsi un’immagine più pulita, un po’ per anticipare la futura scarsità del petrolio, promettono nuovi modelli, silenziosi e puliti, grazie alle auto elettriche. Ma questa “rivoluzione dei trasporti” presenta nuove, grandi problematiche: dalle tecnologie ancora immature, alla necessità di creare una filiera che produca l’elettricità in maniera pulita, alla scarsità del litio.
distributiva. Le fuel cell rimangono forse la soluzione migliore ma ancora ben al di là dall’essere pronta all’uso. I biocarburanti invece si stanno dimostrando, nella migliore delle ipotesi, un palliativo, se non una cura peggiore del mare che andrebbero a debellare. Il sogno di poter adattare i già esistenti motori a combustione interna ai carburanti di origine vegetale si scontra con la realtà di dover destinare sempre maggiori porzioni di terreni alla produzione di piante dai semi utili per la raffinazione di biocarburanti, sottraendoli alla produzione alimentare, creando terremoti nelle negoziazioni dei beni alimentari di base e scompensi nelle filiere dei prodotti di largo consumo. Una buona soluzione, ancorché parziale, sarebbe quella di puntare sul metano di origine naturale (estratto dagli scarti biologici) per l’alimentazione dei motori a combustione, ma nessuno ci ha creduto veramente e in nessuna nazione esiste una filiera per la raccolta e la lavorazione dei residui biologici. Rimane l’elettrico, che, seppur risolvendo in toto il problema delle emissioni inquinanti, lascia irrisolta la questione in merito alla produzione
dell’energia per alimentare i motori e lo stoccaggio dell’elettricità. In sostanza, come la produciamo l’elettricità ed in quale “serbatoio” la teniamo, in attesa che venga utilizzata? Lo stato dell’arte Ma vediamo cosa accade nel variopinto mondo dell’auto e come le Case costruttrici si preparano ad affrontare la battaglia cruciale che si combatte nel nome dell’auto ecologica. Ibrido è bello La Toyota e la Honda sono già da alcuni anni impegnate attraverso la produzione e commercializzazione di modelli ibridi (Toyota Prius e Honda Insight), ovvero sfruttando la tecnologia “di mezzo”, quella che è ritenuta possa fare da ponte verso la trasmigrazione ad un sistema completamente elettrico. I modelli delle due Case giapponesi sfruttano il mix tra il motore termico e quello elettrico, in cui quest’ultimo ha funzione di supporto al primo riducendo così i consumi e di conseguenza le emissioni. Tali modelli o non sono proprio concepiti per l’utilizzo attraverso la sola propulsione elettrica (Honda Insight)
o, come nel caso della Prius, l’autonomia del pacco batterie in dotazione è talmente limitata che è possibile, in modalità full electric, percorrere solo poche decine di chilometri. In questo caso quindi il connubio tra propulsione elettrica e termica vede ancora il motore tradizionale fare la parte principale, ma i dispositivi elettrici (motore + pacco batterie + alternatore e recupero di energia) fanno sì che possano essere raggiunti traguardi di efficienza non trascurabili, che si traducono, per la Toyota Prius, in un lusinghiero valore di 90 grammi di CO2 al km con percorrenze medie nell’ordine dei 25 km con un litro di benzina. In attesa di una decisa svolta (che a dire il vero tarda ad arrivare) verso l’auto totalmente elettrica il mercato vede il sopraggiungere di sempre più modelli a propulsione ibrida. La curiosità sta nel fatto che questa tecnologia, invece di equipaggiare auto economiche e destinate alla città, la troviamo sempre più spesso in modelli di alta gamma. Il senso di tutto ciò è nella difficoltà che hanno le grandi Case a realizzare modelli di lusso che rientrino nei sempre più stretti parametri di consumo e di inquinamento legati alle normative europee ed americane. Per non subire troppo il peso delle tasse, queste automobili vengono dotate dalle Case costruttrici di sistemi ibridi che, come abbiamo visto poc’anzi nel caso della Toyota Prius, hanno l’obiettivo di rendere meno mostruosi i dati sui consumi e di poter usare, come affilata arma di marketing, l’appellativo di auto “verde” anche dove di verde in realtà ce n’è ben poco. Ecco quindi rivelarsi sul mercato i grossi SUV di Lexus (il marchio di lusso della Toyota), Audi e Cadillac, una berlina della Infiniti (marchio di alta gamma di casa Nissan) e tra poco anche le berline prestigiose di BMW e Mercedes fino addirittura a sportive come la Audi R8 e la Panamera, il coupé 4 porte della Porsche. Il motivo di questa corsa al verde è
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tutto da ricercarsi in motivazioni meramente all’interno dei conti economici: se è vero che le auto più vendute sono quelle dei segmenti piccoli e medi è altresì vero che la maggiore redditività per i costruttori arriva dai modelli di alta gamma, dove la possibile clientela non ha problemi di budget ed è più sensibile ai contenuti tecnologici e di immagine. In questo ambito la matrice “ecologica” gioca un importante ruolo: il cosiddetto “greenwashing” è un modo per i costruttori di sembrare sensibili all’ambiente e per i proprietari di poter possedere il lusso senza una pacchiana esibizione alla faccia dei problemi planetari. La realtà, già descritta in precedenza su queste pagine, è ben diversa, non sono pochi grammi in meno di CO2 che cambiano il destino del Pianeta, la via per la sostenibilità passa per scelte più radicali: dal downsizing (auto più piccole e leggere) al car pooling e car sharing, senza dimenticare l’uso disciplinato del mezzo, solo realmente quando serve, preferendo per i lunghi spostamenti altri e più efficienti mezzi di trasporto. Magari sono buoni propositi poco ascoltati ma è necessario ricordarli sempre. Ma, fortunatamente, le tecnologie che possono aiutarci ad avere comportamenti migliori ci sono e sono in rapida evoluzione. Già nel campo dell’ibrido, tecnologia “di mezzo”, la GM, bruciando tutti i concorrenti, ha messo in commercio dall’anno scorso la “Volt”, un’auto che, unendo sapientemente tecnologie esistenti, propone una soluzione valida ed efficace. La propulsione è affidata in toto ad un motore elettrico alimentato a batterie che possono essere ricaricate attraverso la rete domestica (in 10 hr) ma che, in caso di necessità, possono acquisire energia attraverso un piccolo motore termico che funziona esclusivamente da “generatore”, senza essere collegato alla trasmissione. Il motore termico, funzionando esclusivamente da “gruppo elettrogeno”, non necessi-
Nello schema, le emissioni di CO2 tra auto termiche e a batteria, considerando pure la produzione dell’energia. I limiti alle emissioni in vigore dal 2020 saranno pari a 95 gr. CO2/Km e sono tra le principali ragioni della corsa all’elettrico (Fonte: Quattroruote – dicembre 2010) ta di alte cubature e, lavorando a regimi standard, ha un’efficienza maggiore rispetto ad un motore destinato alla propulsione. Le batterie rimangono ancora il punto critico dell’intero sistema, la loro dimensione e peso costringono a collocarle in basso nel pianale occupando spazio e rendendo l’auto più pesante rispetto ad un modello equivalente, ma le tecnologie in evoluzione permetteranno ai modelli futuri di avvalersi dello stesso “schema” progettuale andando di volta in volta a miniaturizzare i pacchi batteria e diminuire il loro impatto di ingombri e peso. E la vera rivoluzione elettrica? Come accade da circa 3 anni, puntualmente l’inizio del nuovo anno è stato salutato come quello decisivo per le sorti del mercato dell’auto elettrica, dove finalmente sul terreno della competizione commerciale si sarebbero sfidate tutte le principali Case automobilistiche con i loro gioielli a corrente alternata. Ma così, anche per questo 2011, non sarà. Il motivo sta nel fatto che le tecnologie non sono ancora mature e, a causa di ciò, nessuno è capace di proporre agli automobilisti una soluzione di mobilità innovativa ma a costi sostenibili, senza contare il fatto che sarebbe necessario anche uno sforzo da parte degli Stati per mettere in piedi una
rete di distribuzione efficiente, ma, in un contesto tecnologico ancora pieno di problemi irrisolti, nessuno, a livello politico, si sente di avere il coraggio di scelte che appaiono ancora azzardate. Ci riferiamo agli onerosi investimenti in termini di infrastrutture per poter realizzare una rete per l’approvvigionamento di energia elettrica che, per avere un senso ambientale compiuto, dovrebbe essere quanto più possibile derivata da fonti rinnovabili. Ma vediamo quali novità sono in serbo per i prossimi mesi: Se la tecnologia ibrida sembra la migliore soluzione per rendere più efficienti auto di grandi dimensioni e pari prestigio, la tecnologia elettrica invece pare la soluzione prescelta per realizzare le auto comuni di domani, le berline di piccole medie dimensioni, quelle che realizzano i numeri maggiori nelle vendite di tutti i Produttori. All’alba del secondo decennio di questo secolo si affacciano i cosiddetti Marchi generalisti pronti con modelli interessanti, dotati di propulsione totalmente elettrica e di tutti i dispositivi di comfort e sicurezza che conosciamo nelle auto che abbiamo guidato fino ad oggi. Citroen C-Zero, Peugeot iOn, Mitsubishi i-Miev (tre “sorelle” nate da un progetto comune franco-giapponese), più la già premiata Nissan Leaf (auto dell’anno), Renault Fluence, Smart ED, per citare
Non sono pochi grammi in meno di CO2 che cambiano il destino del Pianeta, la via per la sostenibilità passa per scelte più radicali: dal downsizing (auto più piccole e leggere) al car pooling e car sharing, senza dimenticare l’uso disciplinato del mezzo, solo realmente quando serve, preferendo per i lunghi spostamenti altri e più efficienti mezzi di trasporto. casa una volta esaurite), dall’altra è forte la pressione sui Governi d’Europa per la realizzazione di colonnine ad alta tensione per poter ricaricare in massimo 1 ora le batterie che invece, alla presa domestica, impiegherebbero circa 6-8 ore. Il futuro è quindi già qui ed è più familiare di quello che sembra: se da un lato questo tipo di propulsione ci appare nuova, dall’altra non cambiano sicurezza e comfort di marcia ed addirittura il piacere di guida risulta essere maggiore, in quanto la coppia fornita da un motore elettrico è abbondante e disponibile subito, regalando prontezza di risposta all’acceleratore e brio. Pensate ad esempio alla Tesla, la roadster due posti costruita con i capitali di Google e già in commercio negli USA dall’anno scorso, capace di accelerare da 0 a 100km/h in meno di 4 secondi, dotata di una autonomia di 400 km grazie ad un pacco di 6.831 piccole batterie al litio come quelle delle fotocamere digitali. Prezzo? 120.000 € Iva inclusa, decisamente un lusso per pochi. Ma volete mettere l’impagabile soddisfazione di non avere neppure un tubo di scarico e quindi di non emettere neppure un grammo di Co2? A conti fatti, purtroppo, non è realmente così. Perché l’energia elettrica immagazzinata nelle batterie in qualche modo deve pur essere prodotta per cui, a monte della filiera, una produzione di CO2 ci deve pur essere. An-
diamo a vedere quant’è. Il Mensile Quattroruote, nel suo numero di dicembre 2010, ha analizzato a quanto ammonterebbe nei diversi paesi il valore di CO2 al chilometro che produrrebbe un’auto elettrica se fosse rifornita con l’energia prodotta con l’attuale mix esistente nel Paese: se in Nazioni come Norvegia e Svizzera, dove l’idroelettrico è preponderante, le emissioni risultano ridotte, in Paesi dove si usano gas, petrolio e carbone la media sale. Così, considerando che un’auto elettrica consuma circa 13 kwh per 100 km, si arriva ad un valore medio di 62 g/km di CO2 in Europa, 110 g/km negli Usa e ben 190 g/km in Cina. Senza contare che produrre un pacco batterie di 20 kwh “costa” circa 1500 kg di CO2. In fondo qualcuno, senza avere grossi torti, ha vaticinato che se la Cina dovesse scegliere di soddisfare tutto il suo fabbisogno di mobilità di massa con l’auto elettrica, il Pianeta verrebbe definitivamente affossato. Quindi la soluzione elettrica non è più, come forse appariva qualche anno fa, la panacea di tutti i mali e la tecnologia definitiva a cui affidarsi, anche se le Case in questo momento, a causa delle previsioni sui costi e approvvigionamenti del petrolio, ritengono che il futuro sarà lì, se è vero che il gruppo Renault-Nissan, pioniere del settore, ha investito credibilità e 4 miliardi di euro per assumere un vantaggio competitivo nei confronti dei concorrenti. Ma non è il solo. La Cina, come già accennato, è attenta a tutte le nuove opportunità di business e, parallelamente, sta cercando di limitare i problemi legati all’inquinamento che lo sviluppo forsennato in corso sta causando, da una parte per reale coscienza ambientale, dall’altra per non dover sempre più essere dipendente da fonti energetiche provenienti dall’Estero. In questo contesto si sono diffuse rapidamente iniziative imprenditoriali volte allo sviluppo dell’auto elettrica, sfruttando il know how tecnologico acquisito in questi ultimi anni e la
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quelle già prossime ad essere esposte nelle vetrine dei concessionari. La rivoluzione che ha portato alla possibile commercializzazione di queste vetture coinvolge l’utilizzo del litio nella realizzazione dei pacchi batteria. Così come era successo per i telefoni cellulari in cui il litio aveva soppiantato il sistema a metal-idruro, le batterie per le auto guadagnano in autonomia perdendo simultaneamente peso e ingombri, permettendo così alle auto di poter realizzar autonomie superiori ai 100 km, non ancora molti ma sufficienti per garantire la mobilità quotidiana nel classico tragitto urbano o semi-urbano casa-lavoro. Tanto più che una recente ricerca della UE ha messo in evidenza che l’80% degli automobilisti europei percorre giornalmente in media circa 25 km, come a dire che l’autonomia delle auto di prossima commercializzazione sarebbe addirittura abbondante. Il problema è che questa tecnologia, accoppiata ad economia di scala tutte da verificarsi a causa dei bassi numeri in gioco, non permette ai modelli citati di scendere sotto la soglia dei 30.000 euro, ancora troppi se non abbattuti da incentivi statali o sistemi di pagamento dilazionati nel tempo. Le case si stanno attrezzando per non rischiare di fare flop e, se da una parte propongono l’acquisto dell’auto più un canone mensile per la locazione delle batterie (che verrebbero poi di conseguenza cambiate a spese della
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«I leader del mondo capitalista devono cambiare modo di pensare», è l’opinione di Luis Alberto Echazu, ministro delle Miniere della Bolivia, detentrice del 50% delle riserve di litio. «Se tutto il mondo consuma come il Nord
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America, con un’auto a testa, prima o poi si incepperà». praticamente illimitata capacità produttiva. Nel 2009 l’uomo più ricco del Paese è stato un fortunato signore che si chiama Wang Chuan-Fu di 43 anni, capo di una società che, nata per produrre conto terzi batterie al litio per telefonini, nel 2003 entra nel giro delle auto elettriche facendo il gran salto: passare dalla produzione della batteria all’auto tutta intera. Costruire insomma un mezzo di trasporto in perfetta sintonia con le esigenze della nuova Cina: risparmio, efficienza, e, perché no, un sano impatto ambientale. La notizia che colpisce è che la BYD, che il signor Wang presiede, ha espresso la maggior parte del proprio business sul mercato interno, quando all’Estero è solo un nome conosciuto dagli operatori del settore. Segno inconfutabile sia dell’importanza delle potenzialità del mercato cinese dell’auto, sia degli effetti sull’ambiente che possono generarsi di conseguenza. Il problema litio Il fattore determinante che getta un’ombra seria sulla fattibilità dell’auto elettrica come mobilità di massa, è legato alla reperibilità del litio, l’elemento principale con cui sono fabbricate le batterie di ultima generazione. Il litio è un minerale piuttosto diffuso in natura ma le principali riserve di facile estrazione si trovano per il 50% in Bolivia, all’interno dei Salares, i vasti deserti alcalini formatisi dal prosciugamento di antichi laghi, a oltre 3500 metri sugli altipiani andini. La domanda mondiale di litio in dieci anni sarà cinque volte quella attuale e, se non si troveranno nuovi giacimenti, supererà di gran lunga l’offerta, facendo in pratica salire a livelli improponibili il costo delle batterie e quindi delle auto elettriche. Oltre a un problema di produzione, c’è anche un problema politico. La Bolivia del presidente Evo Morales segue una politica fortemente nazionalista, soprattutto nell’ambito dello sfruttamento delle enormi risorse na-
turali del Paese, che dal XVI secolo sono state depredate dagli occidentali lasciando meno delle briciole alle popolazioni indie locali, tra le più povere del mondo. «Vogliamo mandare un messaggio alle nazioni industrializzate e alle loro compagnie: lo sfruttamento secolare delle nostre risorse è finito», ha detto alla Bbc Luis Alberto Echazu, ministro delle Miniere della Bolivia. E la stessa politica dovrebbe essere messa in atto anche per il litio, secondo i sostenitori di Morales. L’estrazione del litio avrebbe infatti un impatto enorme sull’ambiente, sugli spettacolari scenari naturali (e, di conseguenza, sul turismo) dei paesi che, come appunto la Bolivia, hanno le principali riserve di quello che alcuni già chiamano l’«oro bianco del XXI secolo». Senza considerare il fatto che l’estrazione di questo minerale richiede un enorme uso di acqua che, a lungo andare, potrebbe provocare drammatiche crisi idriche. L’affare litio interessa profondamente multinazionali quali le giapponesi Mitsubishi e Toyota, per esempio, ma anche l’americana General Motors e la francese Bollorè. Il Presidente socialista Morales e il suo governo, invece, detenendo il 60% di tutte le aziende nazionali boliviane, si trovano tra le mani la possibilità di definire le sorti future del proprio Paese, nel quale in molti si prospettano affari milionari (così come in tutte le nazioni con importanti riserve di questo prezioso minerale).
Ma la Bolivia è interessata a questi affari? Al momento non sembra. «I leader del mondo capitalista devono cambiare modo di pensare», è l’opinione del ministro Eschazu. «Se tutto il mondo consuma come il Nord America, con un’auto a testa, prima o poi si incepperà». Inoltre è vero che le batterie al litio faranno diminuire le emissioni di CO2 delle auto, ma «gli impianti di litio producono grandi quantità di biossido di zolfo», avverte Eschazu, «un’industria altamente inquinante. Quindi non so se questa sia la soluzione migliore». Ma per qualcuno che ha visioni globali più lungimiranti c’è qualcun altro che non si fa scappare l’affare. Il vicino Cile, anch’esso per evidenti questioni geografiche dotato di riserve di litio, ha dichiarato di essere disposto a vendere il prezioso minerale a buon mercato, in cambio di concreti aiuti allo sviluppo della propria economia. Gli sviluppi In un contesto ancora così fumoso, dove ai vecchi dubbi se ne aggiungono di nuovi, l’unica certezza è che non ancora esiste una tecnologia vincente capace di convincere tutti, produttori, Governi e consumatori. Le stesse Case Automobilistiche, in prima linea nell’affrontare il problema, si dividono tra scelte tecniche profondamente diverse. Come abbiamo visto molte si limitano (Giapponesi, Americani, Italiani) con tecnologie diffuse e conosciute, ad attenersi alle norme che
ogni anno si susseguono nei Paesi UE e negli USA, senza proporsi con passi più lunghi delle proprie gambe per non rischiare investimenti che rappresenterebbero vie senza ritorno. Altri, come Renault-Nissan, hanno scelto un indirizzo ben preciso e lo seguono certi che l’attività pioneristica li porti ad una inattaccabile posizione di vantaggio competitivo duraturo. Per il resto la palla passa a piccole aziende, le cosiddette newcoming, che fiutando l’aria cercando di cogliere le migliori opportunità di business, sfruttando le tecnologie più favorevoli. E’ il caso di alcune aziende americane che stanno riversando denari e materia grigia nello sviluppo delle celle a combustibile, una delle innovazioni più attese che puntualmente ogni anno vede slittare la propria immissione in vasta scala sul mercato. Le fuel cell sono dispositivi elettrochimici in grado di ottenere elettricità direttamente da sostanze come ossigeno, idrogeno, metanolo, butano, acido formico, senza che avvenga alcun processo di combustione termica. Fonti d’energia capaci di mantenere carico un computer portatile anche per alcuni giorni e che di conseguenza, con dimensioni appropriate, potranno fornire energia alla seconda generazione di auto elettriche. Il problema, in questo caso, è però legato all’idrogeno. Una sufficiente carica energetica è possibile ottenerla utilizzando, come materiale principale al posto di metanolo e butano, l’idrogeno, il quale attraverso il processo di elettrolisi inversa, si unisce con l’ossigeno producendo corrente elettrica e trasformandosi in acqua. Sui problemi dello stoccaggio dell’idrogeno ci siamo già soffermati su queste pagine tempo fa, vale la pena qui ricordare che, così come l’idrogeno unendosi all’ossigeno crea elettricità, per dividersi da esso ha bisogno di energia, in quanto in natura
non esiste libero. Una volta estratto dall’acqua o dall’atmosfera deve essere stoccato in contenitori a bassa temperatura in modo da portarlo dallo stato gassoso a quello liquido, con notevoli problemi legati alla sicurezza dovuti alla sua alta volatilità ed esplosività. Quella dell’auto a idrogeno, in definitiva, rimane una tecnologia di là da venire, ma sicuramente degna di essere esplorata e sviluppata. E in Italia che succede? A livello politico regna l’incertezza (e anche l’ignoranza) più assoluta, mancando da anni un piano energetico Nazionale è giocoforza che manchi anche una visione d’insieme sulla mobilità, lasciando ampio margine alle iniziative, spesso estemporanee e velleitarie, delle amministrazioni locali. Non che in questo caso il localismo sia un male, anzi, ma una visione sistemica sarebbe necessaria quantomeno per individuare le direttrici sulle quali muoversi, in termini di tecnologie, indirizzo alla ricerca, allocazione delle risorse economiche. In questo contesto il privato cerca di non perdere il treno e di muoversi: risulta quindi degna di apprezzamento l’iniziativa di un pool di aziende di realizzare una grande alleanza per l’auto elettrica. Per la prima volta industria automobilistica, imprese di componentistica, Università e centri di ricerca si parlano e cercano di «fare sistema» per affrontare la sfida della mobilità sostenibile. Un piano ambizioso che vede schierate alcune eccellenze Made in Italy nell’innovazione e nella ricerca: da Fiat a Ferrari, da Brembo a Piaggio a Pininfarina a Dallara, fino a Eni ed Enel. Il punto di partenza sono due piattaforme, una per la mobilità elettrica e l’altra per l’innovazione, che rappresentano il punto di incontro dove contenu-
to scientifico e industriale possono trovare la convergenza. Il “pool” ha deciso di stabilire insieme gli obiettivi di ricerca, condividere il lavoro e «fare sistema» per raggiungerli. E per cercare di avere voce in capitolo in un settore di mercato che sta crescendo e che nel 2015 dovrebbe rappresentare il 10% del mercato mondiale dell’auto (stime che il centro di ricerca JD Power, leader del knowledge nel campo del settore Automotive, rivede decisamente al ribasso). «Abbiamo ribaltato l’approccio alla questione: gli obiettivi non vengono più calati dall’alto nelle aziende, senza che queste li abbiano condivisi, ma saranno le imprese stesse a stabilirli insieme, pochi ma chiari, e a perseguirli con il sostegno delle istituzioni» dichiarano i promotori dell’alleanza. In mancanza di un riferimento pubblico diventa poco vantaggioso avventurarsi in ordine sparso in un mercato che sta diventando sempre più competitivo, non solo non conviene, ma può avere come effetto quello di disperdere energie e risorse importanti. «C’è poco tempo e l’Italia è in ritardo - ammette Nevio Di Giusto, amministratore delegato del Centro ricerche Fiat -. L’Europa chiede ai Paesi di avere un interfaccia con cui discutere i programmi ambientali e questa piattaforma mi sembra in tal senso un’iniziativa lodevole. Ma è fondamentale che si stabiliscano poche cose da fare, bene e fino in fondo. Noi abbiamo dato la nostra disponibilità». Perché il progetto funzioni sarà importante però anche il monitoraggio di ciò che avviene negli altri paesi europei. Per non sovrapporsi e selezionare i filoni in cui si può più facilmente raggiungere l’eccellenza. «Se per esempio l’Italia è indietro nello sviluppo delle batterie elettriche - racconta il direttore di Assoknowledge - mentre la Germania è leader, è inutile presentare a Bruxelles un progetto focalizzato su questo prodotto. Meglio concentrarsi sull’aerodinamica e sul peso delle vetture oppure sulla mobilità urbana».
DOSSIER
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L’energia che viene dalla profondità della terra.
geotermia
di Simone Bargelletti Le fonti di calore si trovano negli strati più profondi della crosta terra. Teorie ed osservazioni geofisiche ci portano a pensare che il calore è prodotto dalla pressione e dal decadimento naturale di elementi radioattivi come l’uranio 238 e 235, il torio 232 e il potassio 40 contenuti negli strati rocciosi della terra. Si è valutato che il flusso totale di calore verso la superficie per la radioattività naturale è di 16 TW, ed essendo di 6371 Km il raggio terrestre, la potenza media prodotta per via geotermica è di 32 W/m2. Uno studio del Massachusetts Institute of Technology (MIT) dichiara che il potenziale energetico geotermico contenuto nel nostro pianeta si aggira intorno ai 13.000 Zj (zettajoule, 1021 joule), ma “solo“ 2.000 Zj si possono utilizzare con le tecnologie odierne. Tuttavia il consumo energetico mondiale è di 0,5 Zj all’anno, perciò si potrebbe utilizzare per oltre 4.000 anni solo energia geotermica senza l’utilizzo di qualsiasi altra fonte non rinnovabile e inquinante. In profondità la temperatura aumenta secondo un “gradiente” ben specifico che è di circa 3,3 °C ogni 100 metri e che aumenta fino a raggiungere un massimo di 2500 °C per poi rimanere stazionaria. Il gradiente termico non è uniforme per tutta la terra, infatti ci sono zone
Il potenziale energetico geotermico contenuto nel nostro pianeta si aggira intorno ai 13.000 zetajoule, “solo“ 2.000 Zj si possono utilizzare con le tecnologie odierne e il consumo energetico mondiale è di 0,5 Zj all’anno. Si potrebbe utilizzare per oltre 4.000 anni solo energia geotermica senza l’utilizzo di qualsiasi altra fonte non rinnovabile e inquinante. particolarmente sottili in cui c’è un elevato flusso di calore e dove l’incremento di calore è maggiore rispetto ai canonici 33 °C al Km. In tali situazioni possiamo trovare temperature elevate a profondità modeste. I vulcani, i gayser, le sorgenti di acqua termale e molti altri fenomeni rappresentano l’espressione esterna del calore che si genera all’interno della terra. Il calore si trova disperso e a profondità elevate ed il suo utilizzo è molto difficile, infatti si cerca di individuare zone con anomalie termiche positive dove il calore è concentrato ed elevato. Tali zone sono denominate serbatoi o giacimenti geotermici. Esistono principalmente due modi per sfruttare tale calore: • Fluidi a bassa temperatura: vengono sfruttati per riscaldare case o serre
• Fluidi ad alta temperatura: vengono sfruttati per la produzione di energia elettrica. A livello industriale vengono attualmente sfruttati i sistemi idrotermali, dove acqua piovana e dei fiumi sotterranei vengono riscaldati da rocce ad alta temperatura. Le temperature variano dai 60 ad alcune centinaia di gradi ed è pressoché inesauribile in tempi brevi. Tali sistemi hanno un basso impatto ambientale e un minor inquinamento, ma non viene escluso per la possibilità della presenza di zolfo, arsenico e mercurio nei fluidi geotermali, per questo motivo le aree geotermiche sono sottoposte a controlli annuali. I sistemi a bassa entalpia (cioè un sistema che riesce a scambiare con l’ambiente basse quantità di calore) che sfruttano il naturale calore della terra attraverso le “pompe di calore”, riescono a produrre energia termica per l’acqua calda delle case ed il riscaldamento degli edifici. Questi sistemi non hanno bisogno di condizioni ambientali particolari o l’utilizzo di acque termali o del calore di zone particolarmente vicine al mantello, infatti quello che queste pompe sfruttano è la temperatura costante che il terreno ha lungo tutto l’anno. A pochi metri di profondità si hanno già 10-15 °C e la pompa di calore sfrutta nei periodi invernali la differenza di temperatura che vi è fra
Schema di funzionamento di un impianto geotermico utilizzato per riscaldare e raffrescare un edificio residenziale.
il terreno e l’esterno. Più la differenza di temperatura è alta più il rendimento della pompa è migliore. La pompa di calore utilizza un certo quantitativo di energia che è stimato in un kW elettrico per ogni 3 kW termici. Per rendere questo sistema il più sostenibile possibile si può accoppiare alla pompa di calore un impianto a pannelli fotovoltaici per produrre l’energia necessaria a far funzionare la pompa di calore. Lo stesso impianto è utilizzato per raffreddare gli edifici semplicemente facendo funzionare la pompa al contrario, cioè immettendo il calore esterno nel sottosuolo. Per trasferire il calore dal terreno si utilizzano delle sonde geotermiche, ovvero dei tubi ad U fatti con materiali ad altissima trasmittanza termica nei quali passa un liquido che assorbe il calore e lo porta in superficie. Le sonde possono essere di due tipi: • Verticali, le quali scendono molto nel terreno fino a raggiungere temperature elevate e necessitano di macchinari particolari per il carotaggio del terreno, andando a perforare particolari tipi di terreno a alta acidità, temperatura e pressione. • Orizzontali, necessitano di terreni pianeggianti e di scavi poco profondi. Alcuni esperimenti hanno reso possibile anche la posa di tali sonde sul fondo di laghi naturali e artificiali sfruttando il calore delle acque. In alcune zone si presentano condizioni di temperatura particolarmente ele-
vata, infatti sono presenti fenomeni tettonici (dorsali oceaniche) o vulcanici. In queste aree “calde” il calore può essere facilmente recuperabile attraverso la geotermia. La geotermia consiste principalmente nel creare dei sistemi dove convogliare i vapori provenienti dalle sorgenti d’acqua del sottosuolo. Sono costruite apposite turbine accoppiate ad alternatori per la produzione di energia elettrica che riutilizzano il vapore acqueo rimanente per il riscaldamento urbano, le coltivazioni in serra e il termalismo. I sistemi geotermici possono essere di due tipi: • a vapore dominante, dove l’alta temperatura determina la formazione di un accumulo di vapore, il quale viene inviato attraverso i vapordotti ad una turbina collegata ad un alternatore che genera elettricità. • ad acqua dominate, dove l’acqua rimane allo stato liquido ma sufficientemente ad alta temperatura e in grado di produrre calore. Per alimentare tali sistemi in modo continuativo si ricorre all’introduzione di acqua fredda in profondità, tale tecnica è utile per mantenere costante il flusso di vapore e fluido caldo che fa lavorare a pieno regime gli impianti per produrre energia 24 ore al giorno. La geotermia è una fonte energetica che può essere utilizzata in limitati contesti territoriali, ma è promettente lo sviluppo tecnologico dell’energia geotermica intesa solo come calore.
Primato italiano A Larderello si trova il primo impianto geotermico costruito al mondo, infatti i primi esperimenti risalgono al 1904 condotti dal Principe Piero GironiConti dove l’energia prodotta da un impianto permise di accendere cinque lampadine. Gli impianti di Larderello hanno una origine molto più antica. Essi risalgono alla prima metà dell’Ottocento dove i vapori del sottosuolo erano un valido ed economico sostituto dei vapori prodotti dal costosissimo carbone delle caldaie industriali. Un vantaggio per tutti gli imprenditori toscani dell’Ottocento. È dall’inizio del Novecento che in Italia si sfrutta il calore della crosta terrestre per produrre energia elettrica tramite le centrali elettriche geotermiche. Tali centrali sono concentrate in Toscana e più precisamente intorno a Pisa, Siena e Grosseto. Solo nelle centrali di Larderello e Montieri producono ogni anno 5 miliardi di kilowattora di elettricità, ovvero il 25% del fabbisogno elettrico della Toscana, e il 10% della produzione mondiale. La potenza istallata è di 810 MW che equivale ad una centrale nucleare. Per questo primato in Toscana a Larderello si trova un museo dedicato al vapore. Nel mondo La geotermia è la fortuna dell’Islanda, infatti in questa isola del Nord Atlantico il calore viene sfruttato in modo molto efficiente per riscaldare le case, gli edifici, piscine, marciapiedi e campi da calcio. Il 30% dell’energia elettrica viene prodotta sfruttando i vapori del sottosuolo. Gli inverni durano anche 9 mesi e vengono utilizzate grandi quantità di acqua calda ed elettricità che viene prelevata dal sottosuolo per sciogliere i frequenti accumuli di neve e ghiaccio. In controtendenza con il resto del mondo dove i prezzi dell’energia continuano a salire, in Islanda diminuiscono. Grazie alle grandi innovazioni tecnologiche si sono potute effettuare
geotermia
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definizioni
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Joule (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera) Il Joule (simbolo: J.), è un’unità di misura derivata del Sistema internazionale (SI). Il Joule è l’unità di misura dell’energia, del lavoro e del calore (per quest’ultimo è più frequente la caloria), ed è definito come 1 kg·m2/s2 = 1 N·m = 1 W·s. Prende il nome dal fisico James Prescott Joule.
geotermia
1J = 1N.m trivellazioni fino a 5.000 metri nella zona di Krafla dove si trovano vapori a 500 °C. Le condizioni particolari di temperatura e pressione rendono necessarie particolari tipi di malte che rinforzano le pareti dei pozzi, le quali sono un prodotto italiano. Oggi i pozzi in Islanda riescono a produrre fino 5 MW, in futuro potranno produrre fino a 50 MW grazie alle nuove profondità raggiunte. La Svizzera è una nazione che sfrutta moltissimo l’energia geotermica con addirittura una potenza istallata di 70 W pro-capite. Nel 2003 sono state registrate oltre 30.000 sonde geotermiche operative per un totale di 4.000 Km con una potenza di riscaldamento di 550 GWh, facendo risparmiare così oltre 70 milioni di litri d’olio combustibile ogni anno. In Europa la produzione di energia geotermica si aggira sui 18.000 GWh/a, utilizzata per il condizionamento degli edifici, serre, piscine e processi industriali. L’Unione Europea intende incrementare utilizzo e lo sfruttamento dell’energia geotermica dal 6% al 12% entro il 2010. Il più grande complesso geotermico al mondo si trova in California a The Geysers, il quale ha un potenziale di 1400 MW sufficiente a soddisfare le richieste di energia dell’intera area metropolitana di San Francisco. Anche in Africa, in Kenia ed Etiopia, hanno costruito degli impianti geotermici con una produzione stimata di 1.000 MW. Almeno venti paesi al mondo hanno progetti di sviluppo e sfruttamento dell’energia geotermica. La stessa Google (sito di ricerca su internet) ha investito finanziamenti in geotermia di terza generazione, ovvero basato sulla perforazione di notevoli profondità per raggiungere punti caldi della crosta terrestre. Vantaggi La geotermia ci permette di sfruttare una notevole quantità di energia rinnovabile, pulita e costante.
1J = 1kg.
m2 s2
Un Joule è il lavoro richiesto per esercitare una forza di un newton per una distanza di un metro, perciò la stessa quantità può essere riferita come newton metro. Comunque, per evitare confusione, il newton metro è tipicamente usato come la misura della coppia di torsione e non dell’energia. Un altro modo di visualizzare il joule è il lavoro richiesto per sollevare una massa di 102 g (una piccola mela) per un metro, opponendosi alla forza di gravità terrestre. Un Joule è anche il lavoro svolto per produrre la potenza di un watt per un secondo, esattamente come se qualcuno impiegasse un secondo per sollevare la suddetta mela. 1 Joule equivale a: • 6,241 509 75·1018 eV • 107 erg • 1 W·s (watt secondo) • 1 N·m (newton metro) • 1 Pa·m3 (pascal metro cubo) • 2,39·10-1 calorie • 9,48·10-4 British thermal unit • 2,78·10-7 kWh chilowattora (1 chilowattora equivale esattamente a 3 600 000 J) Fra i multipli del joule (si vedano anche i prefissi del Sistema internazionale di unità di misura) troviamo: • il kilojoule (kJ), equivalente a 1000 joule (103 J) • il megajoule (MJ), equivalente a 1 000 000 di joule (106 J) • il gigajoule (GJ), equivalente a 1 000 000 000 di joule (109 J) • il terajoule (TJ), equivalente a 1 000 000 000 000 di joule (1012 J) Le centrali geotermiche hanno un impatto ambientale molto inferiore rispetto a tutte le altre centrali. Vi è una riduzione sostanziale nell’emissione di gas-serra, infatti i più recenti impianti emettono solo 136 g di CO2 per kWh di elettricità prodotta contro i 453 g/kWh degli impianti a gas naturale e i 1042 g/kWh degli impianti a carbone. Un altro vantaggio è la possibilità di sfruttare anche gli scarti favorendo un certo risparmio. Nel 2005 l’energia geotermica costava fra i 50 ed i 150 euro per MWh, ma il costo è sceso fino a 50-100 euro per MWh nel 2010 e si prevede che costerà 40-80 euro per MWh nel 2020. Una lenta ma progressiva diminuzione del prezzo di uno dei beni più costosi e necessari al mondo.
Svantaggi I principali svantaggi dell’energia geotermica sono legati a due problemi: • dalle centrali geotermiche fuoriesce uno sgradevole odore di uovo marcio dato dall’emissione di idrogeno solfato, il quale da’ fastidio alla popolazione intorno ai complessi industriali. Ma tale problema può essere arginato da impianti appositi di abbattimento delle emissioni in atmosfera. • l’altro problema è relativo all’impatto paesaggistico che gli impianti hanno sull’ambiente. Il complesso si presenta come ogni altra industria, cioè un groviglio di tubature antiestetiche e stabili. Il problema è di solito risolto da una progettazione ingegneristica e architettonica a monte, in rispetto del paesaggio e del senso estetico.
Le fonti 1.
h ttp://www.blogenergia.it/l-energia-geotermica-uninvenzione-tutta-italianasfruttata-da-altri-paesi/ 2. http://energia-pulita.myblog.it/archive/2009/02/20/energia-geotermica.html 3. http://www.ecoage.it/geotermia.htm 4. http://www.ecofuture.it/energia-geotermica.htm 5. http://it.wikipedia.org/wiki/Energia_geotermica 6. www.geologia.it/appunti/ 7. LIBRO: Capire la terra-Zanichelli
Rifiuti in Campania. Qualche dato a confronto.
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Interessi politici, economici e malavitosi per decenni hanno impedito di gestire in modo efficace i rifiuti in Campania. Negli ultimi dati disponibili dell’ISPRA, il quadro della situazione attuale. Le cause alla base dell’emergenza rifiuti in Campania sono complesse: vi è una commistione di errori tecnico-amministrativi e di interessi politici, industriali e malavitosi. Di fatto, esse possono essere in parte individuate nella generale assenza di una politica moderna di riduzione a monte dei rifiuti, nei ritardi nella pianificazione e nella costruzione di impianti di riciclaggio della plastica, della carta e di compostaggio della frazione organica dei rifiuti provenienti da raccolta differenziata, ed infine nei bassi livelli medi della stessa. A questo si aggiungono i ritardi di pianificazione e di preparazione di discariche idonee e sicure; nell’inadeguato trattamento dei rifiuti urbani; nella costruzione di inceneritori, sui quali sono cadute prescrizioni della magistratura finalizzate ad una maggiore tutela dell’ambiente e a contrastare la camorra. Di seguito, forniamo un rapido sguardo ai dati nazionali e regionali per illustrare la situazione dei numeri della produzione dei rifiuti urbani (RU) e della raccolta differenziata (RD) nella provincia e nella città di Napoli e del numero di impianti presenti nella regione Campana. I dati sono tratti dall’ultimo rapporto rifiuti urbani dell’Ispra, scaricabile anche dal sito internet http://www. isprambiente.gov.it. Tale rapporto ha come periodo di indagine il 2009. Nell’anno 2009, la produzione dei rifiuti urbani a livello nazionale si attestava a 32,1 milioni di tonnellate con un calo percentuale pari all’1,1% circa rispetto al 2008 (la riduzione era iniziata già nel 2007). La produzione pro capite media nazionale è stata di 532 kg*ab/anno
Da notare come anche in Campania sia rilevato tale trend. Nel 2009, con 5.824.662 abitanti, ha prodotto 2.719.169,82 t. e i valori di produzione pro capite si attestano sui 467 kg*ab/anno (nel 2006 – 2007 il dato si avvicinava ai 500 Kg*ab/anno). La maggiore produzione pro capite dei rifiuti spetta nel 2009 all’Emilia Romagna, con ben 666 Kg /ab, mentre la Lombardia si attesta sui 501. L’andamento della produzione dei rifiuti urbani può essere legato a diversi fattori fra cui alcuni indicatori socioeconomici, quali il prodotto interno lordo e la spesa delle famiglie. Un altro elemento, differente nei diversi contesti territoriali, è l’assimilazione ai rifiuti urbani di diverse tipologie di rifiuti speciali. Al riguardo, vanno ricordate le limitazioni di assimilazione dei rifiuti speciali ai rifiuti urbani, introdotte dal D.Lgs. 152/2006, successivamente modificato dal D.Lgs. 4/2008. Gli obiettivi nazionali della raccolta differenziata Gli obiettivi fissati dal D.Lgs 152/2006 sono i seguenti: almeno il 35% entro il 31 dicembre 2006; almeno il 40% entro il 31 dicembre 2007; almeno il 45% entro il 31 dicembre del 2008; almeno il 50% entro il 31 dicembre 2009, almeno il 60% entro il 31 dicembre del 2011; almeno il 65% entro il 31 dicembre del 2012. Purtroppo in Italia i livelli raggiunti non sono soddisfacenti e la situazione è molto differente per le macroaree geografiche. A nord, pur non raggiungendo l’obiettivo, la percentuale si colloca nel 2009 al 48%. mentre il Centro e il Sud si attestano, sempre nello stesso anno, rispettivamente al 24,9% e al 19,1%.
La media nazionale si attesta su 33,6% con 10.7766.000 t. di rifiuti da rd con 178,60 kg/ab*anno. La frazione merceologica raccolta più importante è sicuramente quella umida o verde: con 62 kg per abitante, rappresenta il 34,7% nel totale della raccolta differenziata, percentuale in crescita rispetto al 33,6% del precedente anno. Seguono la carta, il vetro, il legno, la plastica, il metallo, altri ingombranti, i RAEE, altro tessili e selettiva (es. farmaci, batterie, oli …) Le maggiori percentuali di raccolta differenziata si rilevano per il Trentino Alto Adige, con 57,8 %, e il Veneto, con 57, 5%. La situazione peggiore si registra in Sicilia, con il 7,3% . Tra il 2008 ed il 2009, la crescita più rilevante tra le regioni del Mezzogiorno si rileva proprio in Campania, la cui percentuale di RD si attesta al 29,3% circa (19% nel 2008 e 13,5% nel 2007), con tassi pari al 48% circa per le provincie di Avellino e Salerno ed al 29,7% circa per Benevento. Anche le provincie di Napoli e Caserta, dove più evidenti sono state le situazioni emergenziali, registrano comunque degli incrementi. La Provincia di Napoli, con una popolazione di 3.079.685 e una produzione totale di 1.508.810 tonnellate di RU, arriva nel 2009 al 24,4% (14,08% nel 2008) con 513 kg/ab*anno, di cui 125 raccolti in maniera differenziata. Nella Tabella 1, le frazioni merceologiche in tonnellate raccolte nella provincia di Napoli e la loro percentuale nel totale della RD. Napoli è uno dei maggiori centri italiani e, insieme a Milano, Roma e Torino, supera i 500.000 abitanti. In genere, i maggiori centri urbani si caratterizzano per valori di produzione pro capite superiori rispetto alla media nazionale e poi sono da valutare le cosiddette città d’arte, dove è inevitabile la presenza dei flussi turistici e del pendolarismo: la cosiddetta popolazione fluttuante. A Napoli, nel 2009, con 962.940 abitanti, si è registrata una produzione pro capite di 579 kg*ab/anno, con
rifiuti
di Marianna Gambino
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Tabella 1 - Quantità delle frazioni merceologiche raccolte nella Provincia di Napoli e per ognuna percentuale nel totale della RD Frazione umida
135.545,51 t
35,14%
9.212,47 t
2,39%
Carta e cartone
89.322,07 t
23,116%
vetro
62.545,90 t
16,22%
plastica
8.443,41 t
2,19%
legno
5.698,54 t
1,48%
metallo
6.539, 65 t
1,70%
RAEE
7.465, 80 t
1,94%
tessili
2.137,79 t
0,55%
selettiva
366,43 t
0,10%
58.396,39 t
15,14%
34,91 t
0,01%
rifiuti
verde
una significativa contrazione rispetto al 2008 (-56 Kg/ab.*anno). La raccolta differenziata si colloca ad una percentuale del 18,3% con un consistente progresso rispetto al 9,6% del 2008 (a livello procapite, sono stati tuttavia raccolti solo 106,13 kg/ ab*anno, ben al di sotto della media nazionale 178,60 kg). La crescita della RD è in buona parte connessa alla crescita della Rd della frazione organica. Circa 25 Kg/ab.*anno nel 2009, un dato basso ma importante e in crescita rispetto ai 5 Kg/ab.*anno del 2008, anche se in generale i livelli della frazione organica risultano decisamente bassi in quasi tutte le città di maggiori dimensioni. Il dato nazionale per la raccolta della frazione umida pro capite è di 36,19%, la più alta fra le differenti aree merceologiche raccolte. Importante a Napoli anche la raccolta del vetro (+10.500 t). Nella Tabella 2, le quantità delle frazioni merceologiche raccolte a Napoli e per ognuna i kg/ab*anno. IMPIANTI PER SMALTIMENTO E RICICLAGGIO PRESENTI IN CAMPANIA Situazione Italia - L’analisi dei dati evidenzia che lo smaltimento in discarica riguarda circa il 40,6% dei rifiuti complessivamente gestiti. Ma le altre tipologie di recupero, trattamento e smaltimento rappresentano oltre la metà dei rifiuti gestiti. Il 20% viene avviato al TMB, cioè a trattamenti di tipo meccanico biologico (la quantità di frazione secca/CDR avviata a recupero energetico è dichiarata dai singoli impianti di TMB), il 16,7% a riciclaggio, il 12% ad incenerimento, il 7,7% a compostaggio, l’1,4 a digestione anaerobica, lo 0,9 a stoccaggio in Campania e lo 0,4 a recupero di energia in impianti produttivi. Lo smaltimento in discarica diminuisce rispetto al 2008 di – 4%, diminuiscono i rifiuti avviati a TMB mentre aumentano le altre forme di recupero di materia come il compostaggio. Questo è dovuto sia all’incremento della
altro ingombranti a recupero altro
Tot. Raccolta differenziata: 385.708,85= 24,4% sul totale dei rifiuti prodotti
Tabella 2 - Quantità delle frazioni merceologiche raccolte a Napoli e per ognuna i kg/ab*anno: Frazione organica Carta e cartone vetro plastica legno metallo
23.681,6 t
24,59 kg/ab*anno
34.652 t
35,99 kg/ab*anno
16.957,8 t
17,61kg/ab*anno
1.006,9 t
1,05 kg/ab*anno
(non pervenuto) 764 t
0,79kg/ab*anno
RAEE
2.267 t
2,35 kg/ab*anno
tessili
62,1 t
0,06 kg/ab*anno
selettiva
97,8 t
0,10 kg/ab*anno
22.709,7 t
23,58 kg/ab*anno
altro
raccolta differenziata che fa diminuire del 5,6% la RU indifferenziata, sia alla diminuzione dei rifiuti prodotti (-1,1%) In Campania – Nella regione ci sono 7 impianti di TMB e anche qui si registra una diminuzione dei rifiuti avviati al trattamento uguale a -20 punti percentuali rispetto al 2008 (nelle regioni del Sud gli impianti sono utilizzati per il 54% della quantità massima autorizzata). Il TMB è un trattamento di selezione del “tal quale” e le materie in uscita vanno essenzialmente in discarica, agli inceneritori come CDR (combustibile da rifiuti) e solo il 2,6% per il recupero di materia e il 2,2 per recupero di energia. Ci sono inoltre dei residui dei quali non si hanno informazioni sui loro usi finali e questa lacuna non permette di tracciare un quadro completo sulla gestione dei rifiuti urbani.
IMPIANTI CDR. In Campania si costruirono 7 impianti nati con l’intento di trasformare i rifiuti solidi urbani in combustibile derivato dai rifiuti (CDR) ma per anni è andata avanti la produzione di falso CDR, e ora milioni di ecoballe non a norma di legge e contenenti chissà cosa rimangono stoccate sul territorio campano nei cosiddetti “siti di stoccaggio provvisori” in attesa di una decisione politica. I falsi impianti CDR sono stati “convertiti” in stabilimenti di tritovagliatura e imballaggio dei rifiuti (STIR). Gli STIR, in pratica, riducono il volume dei rifiuti solidi urbani del 3040%. Ciò che viene prodotto in questo modo, viene inviato all’impianto di Acerra per essere incenerito. IMPIANTI DI INCENERIMENTO Sono concentrati essenzialmente al nord Italia e sono impianti autorizzati
Tabella 3 - IMPIANTI DI TRATTAMENTO E RICICLAGGIO in Campania nel 2009 (associati ai consorzi): Acciaio 4 Impianti di trattamento acciaio (Consorzio Nazionale Acciaio)
Plastica 5 piattaforme di trattamento (COREPLA)
Carta Alluminio 3cartiere, 4 fonderie 23 piattaforme (CIAL) trattamento (COMIECO)
Legno 1 impianto di recupero, Pannellificio (COMIECO e RILEGNO)
Vetro 3 piattaforme di trattamento, 1 vetreria (COREVE)
Tabella 4 - Impianti per la gestione di imballaggi secondari e terziari (impianti che ricevono gratuitamente i rifiuti da imballaggio provenienti dalle imprese industriali, commerciali, artigianali e dei servizi, al di fuori del servizio pubblico di raccolta) in Campania nel 2009 (associati ai consorzi)
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al trattamento dell’RU e del CDR. In Campania è attivo, dal 2009, l’impianto di Acerra (NA), dove per altro sono state riscontrate molte irregolarità. DISCARICHE Diminuisce sensibilmente la quantità di rifiuti stoccata in Campania a causa dell’inceneritore di Acerra che ha bruciato parte dei rifiuti destinati allo stoccaggio. Nel 2009 c’è stata una produzione di RU pari a 2.719 di cui 1.335 smaltiti in discarica, pari al 49%. Un dato negativo che vede un incremento di 11 punti percentuali rispetto al 2007. Il primato positivo spetta alla Lombardia con il 7% anche se in esso non sono calcolati i rifiuti speciali, come le polveri degli inceneritori presenti, che sono destinati a discariche speciali. In Campania, l’incremento della RD al 29,3% ha comportato un miglioramento del sistema, anche se quote rilevanti di rifiuti sono ancora stoccate in attesa di una destinazione definitiva e la percentuale dei rifiuti avviati in discarica, rispetto al totale dei rifiuti prodotti, considerando queste quote raggiunge il 62%, contro il 49% rilevato. Il rapporto dell’Ispra nota che dove c’è un ciclo integrato di rifiuti si osser-
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va la presenza di modalità di gestione diversificate, un parco impiantistico sviluppato ha come conseguenza più evidente, un basso livello di utilizzo della discarica. Ma mentre il rapporto dell’Ispra si sofferma molto a parlare del recupero energetico dagli impianti di incenerimento, non staremo in questa sede a parlare delle ricadute in termini di salute e di impatto sui territori Da rilevare come la riduzione complessiva dello smaltimento in discarica della componente biodegradabile sia una delle priorità della gestione dei rifiuti indicata anche dall’UE, che ha indicato anche delle strategie per l’eliminazione totale di questa. COMPOSTAGGIO In Campania ci sono 7 impianti di compostaggio (in Lombardia ce ne sono 74). Se si tiene conto dei dati della raccolta dell’umido, in crescita a livello nazionale e Napoli con un incremento pro capite di 20 Kg/ab tra il 2008 e il 2009 e che nella provincia di Napoli l’umido rappresenta il 35,14% della raccolta, dovrebbe indurre alla realizzazione di campagne di sensibilizzazione e alla creazione di nuovi impianti di compostaggio.
IMPIANTI DI DIGESTIONE ANAEROBICA in forte evoluzione soprattutto per i flussi dalla raccolta differenziata. Gli impianti trattano la frazione umida e contemporaneamente producono biogas e compost. In ingresso ci sono rifiuti zootecnici, rifiuti da agroindustria, frazione organica selezionata e fanghi da depurazione Ci sono pochi impianti in Italia e si trovano tendenzialmente a Nord. La Campania, caratterizzata per altro da terreni agricoli e con molte attività zootecniche, ha solo 1 impianto di digestione anaerobica, a Sassano (SA) I dati della produzione di RU e di RD dimostrano come ci potrebbero essere situazioni molto più disagiate in altre regioni, ma la situazione emergenziale che dura da anni della Campania nasce da ritardi, disfunzioni di servizi e di impianti, scarsa sensibilità diffusa verso un ciclo virtuoso dei rifiuti che metta la Riduzione al primo posto, strani meccanismi fra politica e criminalità che ha nei rifiuti uno dei maggiori business. Il cambiamento deve essere profondo. Ci deve essere responsabilità delle istituzioni ma anche dei cittadini con una presa di responsabilità e consapevolezza. Sicuramente un passo importante in Campania potrebbe essere quello di una reale e allargata politica di riduzione a monte dei rifiuti, di informazione e sensibilizzazione sulla raccolta differenziata, con la contemporanea dotazione nel territorio di più impianti di riciclaggio dei materiali e impianti di digestione anaerobica in grado di chiudere un ciclo. Fare Verde, insieme al Forum Nazionale dei Giovani e a l’associazione Nuovo Avvenire Onlus ha proposto in una municipalità di Napoli il progetto “Mettiamo a dieta il cassonetto” che mira a diffondere metodi per la riduzione dei rifiuti, partendo anche dai bambini, che saranno presto futuri consumatori e produttori di rifiuti!
rifiuti
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Quando il Sud già si preoccupava di salvaguardare l’ambiente…
storie
di Paolo Giordano
Solo “feste, farina e forca”? Non proprio. Già nella prima metà del 1800, i Borboni si occupavano
di
problemi
ambientali,
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leggi per la regolamentazione della pesca e sulla raccolta (differenziata) dei rifiuti. Il popolo maggiormente perseguitato dai luoghi comuni è quello napoletano ed il meridionale in genere. Sembra che ogni male del Sud sia endemico! Eppure proprio nel Mezzogiorno si trovano alcuni dei comuni “virtuosi” nel rapporto con l’Ambiente. Questo dato di fatto, però, viene visto come una stranezza anche alla luce della ricorrente emergenza rifiuti. Tale logica rientra in quel processo con cui, dopo aver sconfitto un Popolo, si deve annullare la sua identità culturale, cancellando ogni traccia del passato. Ciò è accaduto anche per il regno dei Borbone, tentando di relegare nell’oblio anche alcune norme legislative che erano sicuramente all’avanguardia. Nel 1832 fu emanata una legge di 12 articoli per la raccolta delle immondizie in tutto il Regno L’elevata densità di popolazione delle maggiori città unitamente alle attività artigianali, esercitate nei vicoli, avevano sollevato l’emergenza di una legge che tutelasse cittadini ed ambiente. La Corona promulgò forse il primo regolamento al mondo sulla raccolta differenziata ed incaricò i prefetti di polizia perché lo facessero rispettare. Dure ed impietose le sanzioni: “Art.10 - Ogni contravvenzione al disposto nei precedenti articoli, sarà punita con pena di detenzione e ammenda di Polizia a seconda dei casi”. Ma non solo le punizioni erano alla base della legge, si cercò di stimolare anche il senso civico, coinvolgendo tutti i cittadini nella collaborazione
Ferdinando II delle Due Sicilie con il servizio pubblico .“ (...) obbligo di far ispazzare la estensione di strada corrispondente al davanti della rispettiva abitazione, bottega cortile ecc. per lo sporto non minore di palmi 10 di distanza dal muro e dal posto rispettivo. Questo spazzamento dovrà essere eseguito in ciascuna mattina prima dello spuntar del sole, usando l’avvertenza di ammonticchiarsi le immondizie al lato delle rispettive abitazioni, e di separarne tutti i frammenti di ferro, di cristallo o di vetro che si troveranno riponendoli”. Non secondaria era la ricaduta in materia di tutela dei lavoratori. Gli addetti alla raccolta si caricavano sulle spalle i sacchi di canapa con dentro l’immondizia per cui, al fine di evitare rischi per la loro salute, era necessario separare l’umido dal ferro e dal vetro.
Questi ultimi due preziosi materiali dovevano essere recuperati, essendo delle materie prime importate dall’estero. Essi venivano ritirati successivamente da “uomini e carri autorizzati”. Il 28 ottobre 1833 fu promulgata, invece, la prima legge per regolare la pesca in mare. La norma molto dettagliata stabiliva tra l’altro anche le caratteristiche delle reti ed il periodo di pesca “non più dal mese di ottobre, ma dal 4 novembre di ogni anno…con finire la detta pesca il sabato santo dell’anno seguente”. Bisognava tutelare i fondali, proteggendo le uova che non solo dovevano schiudersi, ma “aver preso anche il pesce qualche forma e consistenza”. Ferdinando II di Borbone, re cattolico, era un grande appassionato di pesca e per queste sue peculiarità si poneva dinanzi alla Natura ritenendola un dono di Dio da rispettare. Essa era stata affidata all’uomo perché ne godesse senza distruggerla. Come sempre le sanzioni erano severe “perdita delle barche, e delle reti, e tanto i padroni, che i marinai alla pena di 6 mesi di carcere, e di non poter più esercitare la detta pesca”. Quel che lascia spiazzati, e che dovrebbe far vergognare l’uomo contemporaneo, è il “cuore” della norma. In esso è racchiuso tutto lo spirito che animava il legislatore, questi intervenne “per frenare l’avidità dei marinai, e pescatori, i quali ascoltando i suggerimenti di un interesse momentaneo, si permettono con reti a maglie strettissime, e con altri ingegnosi modi, di distruggere le ova, e tutti i germi della pescagione, sono stati da tempo in tempo pubblicati opportuni regolamenti colla comminazione di proporzionate pene ai contravventori”. Evidentemente, non sempre la Storia è “magistra vitae”, particolarmente quando a studiarla dovrebbero essere i politici.
Aiuti e cooperazione nel continente africano: la necessità di rivederne l’approccio.
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“Qual è il prezzo della libertà? Quante vite ci vogliono per comprare la libertà in Sudan, dove religione e politica alimentano guerra e povertà? …” Inizia così il libro di Aher Arop Bol, oggi venticinquenne sudanese scampato ad ogni tipo di pericolo una volta abbandonato il suo villaggio a soli 5 anni alla disperata ricerca della sola sopravvivenza. “Il ragazzo perduto” racconta con assoluta semplicità e in maniera spesso quasi asettica la sua incredibile storia di bambino solo in fuga - come tanti altri - che riesce con perseveranza e grazie all’aiuto totalmente disinteressato di diverse persone – per lo più poveri come lui - a sfuggire a continui pericoli (quelli dell’esercito ma anche e soprattutto quelli della fame e delle malattie), spostarsi tra diversi campi profughi ed imparare a leggere e scrivere (suo unico desiderio), attraversare Kenya, Tanzania, Malawi per riuscire ad arrivare in Zimbabwe. Qui, sempre senza aiuti, troverà un istituto scolastico che lo condurrà al riscatto. Nel corso della toccante storia, due incontri sfortunati con rappresentanti ONU e ONG gettano una luce assai triste sul ruolo e le attività di alcune persone pagate per svolgere il nobile compito della cooperazione ed invece mosse dal solo interesse personale. Non è questa la prima né l’unica occasione in cui si è cercato di far luce sulle nascoste piaghe della cooperazione: personale disonesto e corrotto, copertura di tutt’altro tipo di operazioni. Insieme agli aiuti umanitari su vecchi aerei cargo Antonov vengono tutt’oggi trasportate anche armi, truppe e materie di contrabbando, dal Darfur alla Repubblica Democratica del Congo alla Somalia. Una applicazione rigorosa delle norme che regolano il traffico aereo contribuirebbe forse a diminuire sensibilmente il traffico di armi. E’ necessaria una riflessione sull’ “aiuto umanitario”. L’idea della cooperazione internazionale è nata solo 50 anni fa - nel 1960, quando molti Stati africani raggiunsero insieme l’indipendenza – ma il sostanziale fallimento è evidente. Il trilione di dollari che gli Stati ricchi
La cooperazione internazionale, che doveva aiutare l’Africa, si è rivelata un fallimento: ha favorito corruzione e conflitti, è stata piegata alle convenienze utilitaristiche e commerciali, ha inseguito modelli di economia estranei alle culture locali. Urge oggi un ripensamento sul ruolo degli aiuti, che devono far leva sulla identità e sulle tradizioni dei popoli. hanno inviato in Africa come “aiuti per lo sviluppo” non ha ottenuto l’effetto sperato: i paesi più dipendenti dagli aiuti hanno registrato tassi di crescita addirittura negativi. Tra il 1981 e il 2002 il numero degli africani che vive sotto la soglia della povertà è raddoppiato. L’Africa rimane infatti, nonostante le sue immense ricchezze, il continente più povero e instabile. Nel riquadro 0.1 elenchiamo i paesi della fascia dell’Africa subsaharia più fragili. Le politiche di “aiuto alimentare” della CEE come di altri donatori si sono dimostrate essere, in molti di questi paesi, delle vere strategie di penetrazione commerciale nei mercati africani. Mark Duffield, professore di Internatio-
nal Security all’Università di Lancaster, sottolinea come l’intervento umanitario attuale sia anche una tecnica di controllo politico. L’estrema instabilità politica ha di fatto trasformato l’iniziale azione filantropica in una ingerenza sugli Stati spesso mal tollerata (si è passati da peacekeeping a peacemaking). Non solo. Le forze armate, le ONG e le organizzazioni internazionali svolgono ruoli differenti e necessari nella gestione degli interventi umanitari e nelle successive fasi della ricostruzioni ma esiste anche un pericoloso sistema di interconnessioni tra i signori della guerra africani, le multinazionali occidentali e le economie informali dell’Africa. Secondo il professor Duffield il nocciolo del problema è aver applicato schemi validi in Occidente senza valutare come,
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di Marina Mele
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per esempio, i rapporti di potere influiscano sulla distribuzione delle risorse economiche (finanziamenti internazionali compresi) in una società in cui non esiste lo stato di diritto (il Sudan è il perfetto esempio). Una concezione ideologica rivolta al solo sviluppo economico e non alle effettive necessità delle popolazioni assistite è un altro concetto da mettere in discussione, così come la ineludibile questione del nesso di causalità tra globalizzazione, evoluzione delle politiche umanitarie e rivoluzione negli affari militari. Nel rapporto Europeo sullo Sviluppo (Superare la fragilità in Africa 2009) si dimostra come la relazione incrementale fra aiuti e crescita segua un andamento ad U rovesciata: livelli più alti di aiuti sono associati a tassi più elevati di crescita solo entro una certa soglia, oltre la quale la crescita diventa inferiore. Tale soglia è stata definita come il livello di aiuti “efficiente per crescita”, grazie al quale l’impatto incrementale degli aiuti sulla crescita del reddito pro capite è massimizzato nei paesi beneficiari. Tale dinamica si dimostra ancor più evidente nei paesi fragili. Anche Dambysa Moyo - autrice di “La carità che uccide” – focalizza la propria attenzione sugli aiuti governativi concessi ai paesi africani sotto forma di prestiti o di sovvenzioni: gli aiuti dati non sono sempre positivi, tutt’altro. A fronte di una somma di ragioni geografiche, storico/culturali, tribali e religiose, l’estrema incontrollabilità delle vicende interne ai singoli stati africani è stata peggiorata dal forte afflusso di denaro proveniente dal “primo mondo”. Gli aiuti hanno favorito il dilagare della corruzione e dell’inflazione, hanno indebolito le istituzioni e “in una realtà di dipendenza dagli aiuti, i governi dei paesi poveri non hanno più la necessità di ricorrere agli introiti delle imposte … fino al collasso dei naturali controlli governo cittadini”. Le soluzioni proposte dalla Moyo sono una graduale ma costante riduzione degli aiuti sistematici, la creazione di un mercato interno stabile, infrastrut-
ture sufficienti, incoraggiamento del microcredito. La campagna di investimenti in Africa che più impressiona è certamente quella della Cina. I dati sono difficili da reperire vista la consueta indisponibilità da parte del governo cinese ma l’intento era chiaro sin dal 2006: raddoppiare gli aiuti, offrire 3mld di dollari in prestiti preferenziali e altri 2 mld in crediti all’esportazione, creare un fondo di sviluppo Cina-Africa di 5 mld di dollari per incoraggiare le compagnie cinesi ad investire in Africa, portare a 440 (da 190) le merci africane liberamente importabili in Cina senza dazi. I soldi cinesi hanno già trasformato il paesaggio di molte capitali africane e del territorio: sono cinesi i capitali e l’engeneering delle ferrovie costruite in Angola, Nigeria e Botswana o delle strade e dei ponti in Ruanda, l’autostrada in Etiopia e una larga parte della rete dei trasporti dello Zimbabwe. Secondo le ultime stime già 750 diverse compagnie cinesi operano in una cinquantina di paesi africani. Proprio il Sudan è stato il banco di prova per l’ingresso commerciale della Cina nel continente africano. Sin dal 1989 il governo islamista sudanese aveva dato spazio a gruppi estremistici e velocemente si era ritrovata nella “black list” internazionale con un progressivo isolamento commerciale con gli Stati Uniti. E mentre il governo Clinton vietava qualsiasi investimento americano per ragioni di terrorismo, la Cina entrava - 1997 - nel business petrolifero sudanese assicurandosi il 40% del Consorzio creato tra le varie società petrolifere locali. L’oro nero, appena scoperto, consentì al Governo sudanese di avere nuove ed ingenti disponibilità in parte purtroppo destinate ad acquistare armamenti per sostenere
la guerra con il Sud del paese. La totale indifferenza della Cina alle problematiche interne al paese è dimostrata anche dalla guerra in Darfur (2003), la regione occidentale del Sudan. A fronte della richiesta avanzata da più parti per un intervento internazionale la Cina pose il proprio veto: non poteva perdere il suo principale fornitore di greggio in Africa. Senza dimenticare che il continente riceve in cambio un flusso continuo di manufatti cinesi. Per contro i dati riguardanti le esportazioni africane verso UE, Cina e Stati Uniti dimostrano a partire dal 2008 un forte declino, con ovvie conseguente sui mercati interni e sui già scarsi livelli di occupazione. La politica di sviluppo dell’UE negli stati fragili africani mira oggi a dare sostegno alle operazioni a favore della pace e della prevenzione dei conflitti. Non possiamo dimenticare però che nel recente passato abbiamo, noi come altri, messo fuori mercato con i nostri aiuti in derrate alimentari proprio le produzioni delle agricolture locali tradizionali (segale e miglio ad esempio). Ed in una spirale perversa si è arrivati al dominio delle multinazionali che sviluppano - oramai ovunque - la monocoltura da esportazione con tutte le note conseguenze sociali ed ambientali. Nel Rapporto Europeo per lo Sviluppo 2009 ci si interroga sul ruolo che l’Europa dovrà avere quale finanziatore, partner commerciale e/o puro donatore. L’obiettivo principale sembra essere difficile: riportare ogni Stato africano al centro della scena. Ricreare quindi le basi formali ed informali dello Stato per dare vita a Stati più legittimi e rappresentativi che forniscano servizi fondamentali a tutti e che siano riconosciuti legittimi dai propri cittadini.
E’ certo questa una impresa difficile se non impossibile considerata la complessità dei conflitti bellici/religiosi in essere. Il corretto funzionamento dello Stato non può che essere basato sulla resilienza, cioè la capacità di un sistema socioeconomico - famiglia/comunità/ paese - di resistere agli shock politici, economici o climatici, subire mutamenti e tuttavia mantenere essenzialmente inalterate funzione, struttura, identità. Questa dimensione non può più essere trascurata, afferma lo studio: costruire e mantenere la resilienza promuove il benessere dell’umanità. Ciò può avvenire solo strutturando obiettivi di lungo periodo: i requisiti di politiche per lo sviluppo efficaci dovrebbero uscire dal concetto di emergenza per far sbocciare meccanismi virtuosi diffusi di adattabilità, di capacità di apprendimento, di auto-organizzazione e
di elaborazione dei processi decisionali e dell’azione collettiva. La crescita economica non può essere il fine dello sviluppo ma un mezzo per incrementare la possibilità di scelta delle persone (W. Arthur Lewis): lo scopo della politica di sviluppo è assicurare ai cittadini le condizioni sociali per il raggiungimento del benessere. E allora occorre comprendere profondamente il contesto locale, dare attenzione alle comunità, spingere alla coesione sociale e sostenere, ove possibile, meccanismi di responsabilità democratica. Vi sono esempi di successo. Il Ruanda costituisce un esempio di modello di governo squisitamente africano; l’Imihigo, un concetto che appartiene alla cultura ruandese da secoli, è qualcosa di molto vicino a un contratto legato ai risultati. I sindaci si impegnano ogni anno pubblicamente con il Presi-
dente a perseguire obiettivi specifici su cui saranno poi valutati e così gli altri funzionari pubblici. l’Imihigo moderno ha quindi la capacità di stabilire le priorità di responsabilità democratica del governo per ottenere un rapido sviluppo di base. La Somalia e il territorio secessionista del Somaliland offrono un quadro illuminante. In Somalia sin dal 1991 - anno di dissoluzione dello stato somalo - si contano almeno 15 tentativi da parte della comunità internazionale di ricostruire dall’alto uno stato reggente, tutti tentativi falliti. Di contro il Somaliland, dichiaratosi indipendente nel 1991 non ha ricevuto aiuti ed ha ricostruito uno Stato dal basso attingendo alle tradizionali e ampiamente accettate strutture di clan. Oggi è lo Stato più democratico della Regione ed ha raggiunto un buon livello di stabilità e prosperità. In Botswana invece proprio la coesione sociale ha permesso che venissero tutelati i preziosi diamanti del paese a beneficio dell’intera popolazione altrimenti oggetto di “accordi” commerciali che tanto vantaggio hanno portato unicamente a poche elites ed alle multinazionali. Con 17 mld di Euro di aiuti allo sviluppo (29 mld nel 2010), l’Europa eroga oltre il quadruplo degli Stati Uniti, tredici volte più di quanto da’ il Giappone, e non può non incidere sulle prospettive di sviluppo degli Stati fragili dell’Africa. La riflessione su più corrette e mirate strategie è già in atto. E l’Europa non può sottrarsi - per il bene di tutti - a questa grande responsabilità. Lo sviluppo del capitale umano e sociale e il sostegno allo sviluppo istituzionale a livello locale e regionale sono oggi delle necessità. E il Sudan? In gennaio si è tenuto il referendum sull’indipendenza del Sudan meridionale dal resto del Paese. Dopo 50 anni di guerra civile, una netta maggioranza ha deciso per la secessione dal Nord islamico del Sud Sudan, a maggioranza cristiana e animista. Il mondo intero osserva, attende e spera che una scelta di pace venga fatta in questa parte così sofferente d’Africa.
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Dolori da errori posturali? L’osteopata puo’ aiutarti!
ospeopatia
di Patrizia Forte (Osteopata D.O. MROI)
Una posizione sbagliata assunta dal nostro corpo può essere causa di quel dolore che spesso ci affligge e che avvolte sembra proprio non volerci abbandonare. Fino al “tagliando” dall’osteopata. Molte volte ci troviamo ad avere dolori articolari o muscolari che si ripresentano cronicamente o proprio non ci abbandonano ma in realtà non capiamo perché. Così prendiamo un antidolorifico che per un po’ riesce a risollevarci dalla sofferenza, ma in realtà il problema è sempre lì! Riuscendo ad approdare da un osteopata potremmo trovare un modo per capire perché ho quel dolore e soprattutto trovare un modo per liberarcene. L’osteopata “legge” e “interpreta” i tessuti del corpo, le posizioni articolari come le rigidità muscolari, e così scopro che la lombalgia di cui soffro da ormai molti mesi è in realtà dovuto a quel portafoglio mantenuto
nella tasca posteriore del pantalone durante la guida (e magari sono pure un rappresentante che passa molto tempo in macchina!). Oppure scopro che guardare la televisione dal divano se da una parte mi fa rilassare a fine giornata di lavoro dall’altra è causa della mia cervicalgia. E già ,ci sono proprio abitudini che sono nocive per il nostro benessere ma di cui non ci rendiamo assolutamente conto fino a che l’osteopata non ce lo dice trovando quella determinata vertebra o articolazione in una certa posizione. Così per ripristinare la normalità funzionale, ovvero il benessere del nostro corpo, esegue una piccola spinta correttiva o un accompagnamento dei tessuti alla mobilità persa.
Ma come una posizione assunta dal nostro corpo può essere causa di quel dolore che spesso ci affligge e che avvolte sembra proprio non volerci abbandonare? In realtà la spiegazione è molto semplice: qualsiasi sia la posizione che assumiamo,se prendiamo sonno perdiamo la capacità di “sentire” che è ora di cambiare posizione in modo cosciente, ed in modo inconscio non riusciamo a muoverci perché “incastrati” in quella postura che all’inizio ci era sembrata così comoda! In pratica se stiamo sdraiati in un letto ci viene spontaneo girarci e rigirarci, abbiamo spazio a sufficienza per farlo! Ma sdraiati su un divano o peggio seduti su una poltrona, le possibilità di movimento sono nulle ed inoltre la perdita di controllo sulla gravità fa si che ci “insacchiamo” il bacino, ciondoli la testa in avanti o di lato o la nostra colonna si inclini lateralmente. Così accade che quando ci alziamo avvertiamo quell’indolenzimento al collo o alla schiena , che prendiamo sottogamba a meno che . non accade che non ci riusciamo ad alzare, è il “colpo della strega”, o rimaniamo con il torcicollo! Anche le posture prolungate nel tempo non corrette e che soprattutto subiscono delle sollecitazioni in vibrazione, come su una moto, motorino, macchina, treno o mezzi di lavoro, sono ugualmente responsabili di alterazioni alla meccanica articolare, muscolare e legamentosa, ed anche in questi casi l’osteopata esaminando la persona con test di mobilità e di pressione riesce ad individuare lo stato disfunzionale del corpo ed eseguendo delle correzioni manuali lo induce a recuperare la funzione fisiologica. Le manovre correttive dell’osteopata sono precise e mirano a dare un’informazione corretta di mobilità ai tessuti, che si tratti di articolazioni muscoli o legamenti ed il risultato è che si perdono i presupposti di un’infiammazione! Così addio dolori .
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Ci sono però dolori articolari o muscolari la cui causa non è il “riposo sbagliato”, ma il “lavoro sbagliato”!!! Spesso accade che per fare un’ attività, un lavoro o un gesto sportivo, usiamo delle posizioni del corpo che sono errate , per esempio: sono un impiegato che più o meno sta seduto ad una scrivania dalle sei alle otto ore circa al giorno (salvo pausa caffè, pranzo, e .. funzioni fisiologiche!), lavoro su un computer che non è posizionato proprio davanti a me, ma magari ho il monitor spostato rispetto alla tastiera, per cui lavoro sempre con la posizione del collo girata e in tensione, le braccia non poggiano totalmente sul tavolino per cui anche le mie spalle risultano essere tese. Insomma, ci sono una serie di concause nella postura adottata, che “sono difettose” e che per così dire fanno una sorta di “callo” muscolare-articolare, ovvero il nostro sistema di autoregolazione dice che siccome manteniamo quella posizione per tanto tempo, forse è il caso di rimanerci!, così accade che quando mi capiterà di fare un movimento, e magari con una piccola resistenza, come fare la spesa, tagliare l’erba in giardino, fare uno sport o semplicemente giocare con mio figlio o nipote, ecco che compare il colpo della strega o mi si blocca il collo! In tal caso l’aiuto dell’osteopata sarà sempre di liberare le strutture che stanno subendo una limitazione di movimento, ma anche di capire come si sono bloccate, e quindi educare il
soggetto ad assumere la corretta posizione al fine di evitare che il problema si ripresenti . Insomma è importante la “presa di coscienza” del nostro corpo per impararne ad averne cura, perché se noi ci occupiamo correttamente di lui e lo rispettiamo nelle sue possibilità e nei suoi limiti , lui non ci lascerà facilmente a piedi! Così se è vero che se “ci scassiamo” l’osteopata “ci aggiusta”, è sempre meglio non scassarci! Ancora una riflessione sulle posizioni scorrette: dalla casalinga che magari per montare le tende o pulire sopra l’armadio si sporge in modo molto instabile dalla scala o peggio dalla sedia, per cui per arrivare all’altezza voluta con le mani si mette pure sulle punte dei piedi, così oltre ad avere più peso sulle braccia e spalle avrà una sicura instabilità della colonna; alla neo-mamma e perché no, neo-papà! che per prendere il proprio bimbo dalla culla naturalmente ad altezza pavimento con rassicuranti sbarre protettive, si piega verso il bambino, lo prende con le braccia tese (così se il piccolo pesa dieci kg, a noi sembreranno trenta!) e per rendere il movimento sicuro fa una bella rotazione della colonna. Tutto questo deve indurci a riflettere che le possibilità che abbiamo di logorare il nostro corpo sono tante, e poche volte ne abbiamo coscienza, perciò ancor prima di rimanere allettati, invalidati dal dolore, dovremmo rivolgerci ad un osteopata per essere controllati, dovremmo fare una specie di “tagliando” del corpo, il che sicuramente ci eviterebbe di logorare le nostre articolazioni, i nostri muscoli e i nostri legamenti o dischi intervertebrali, così da non doverci” rottamare” e poter essere funzionanti senza troppi cigolii nonostante gli anni passino!
Per sapere qual è l’osteopata più vicino: www.roi.it. Se avete domande scrivete a : patrizia.forte@roi.it oppure info@fareverde.it
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Briganti e Pellirosse
recensioni
letto da Sandro Marano
di Gaetano Marabello, Capone Editore, pp. 132, 12 euro. E’ da poco in libreria “Briganti e pellirosse” di Gaetano Marabello edito da Capone Editore. L’autore, già dirigente statale e giornalista, è un appassionato studioso di storia e collabora con articoli di revisione storica ed anche con rivisitazioni umoristiche di fatti storici su varie testate, tra cui ricordiamo Meridiano Sud e L’alfiere. In questo testo, peraltro corredato di documentazioni fotografiche, Marabello pone a confronto il fenomeno del brigantaggio che si sviluppò nel Sud Italia subito dopo la conquista del regno delle Due Sicilie da parte dei Piemontesi e dei garibaldini e la storia degli Indiani d’America che furono massacrati e depredati delle loro terre fino ad essere rinchiusi in riserve dai colonizzatori “bianchi”, trovando interessanti analogie e punti comuni. L’assunto di fondo, ben argomentato e di tutta evidenza, è che tanto i Briganti quanto i Nativi (gli Indiani d’America) si trovarono a dover difendere con le unghie coi denti, contro un nemico tecnologicamente e numericamente superiore, la propria terra, cioè i propri usi e costumi, la loro religione, le loro tradizioni, il loro modello di economia.
Non è, infatti, un caso che la distruzione dei rispettivi habitat, lo sterminio dei bisonti e l’abolizione degli usi civici, facendo letteralmente terra bruciata, gettassero nella disperazione e nella fame le popolazioni dei nativi americani e del Sud Italia, sradicandole dalla loro terra e favorendone perfino l’emigrazione. Scrive l’autore: “nel nome dell’idolatrato progresso si permisero di distruggere tutto quanto rifiutava di omologarsi al loro mondo. Ma l’aspetto più terribile della vicenda è che ai vinti non toccò il rispetto, ma l’insulto dei vincitori”. Nella scuola e nella filmografia, infatti, ha prevalso fino a poco tempo fa una versione di queste vicende storiche, per così dire, agiografica, tesa a dipingere come selvaggi e sanguinari sia i Pellirosse sia i Briganti e buoni, operosi e fautori del Progresso gli altri. Solo da poco tempo alcuni film hanno coraggiosamente cominciato a fare piazza pulita di pregiudizi e luoghi comuni: per quanto riguarda i Pellirosse i film Soldato blu e Un uomo chiamato cavallo del 1970 e Balla coi lupi del
1990; per quanto riguarda i briganti Il brigante di tacca del lupo di Pietro Germi del 1952, I Briganti italiani di Mario Camerini del 1961 e Li chiamarono briganti di Pasquale Squitieri del 1999. Tuttavia, soprattutto in ambito scolastico, manca una seria e approfondita discussione su quelle che furono le ragioni dei vinti. Lo stesso destino ha accomunato gli uni e gli altri. Diceva Alce Nero, sciamano d’una tribù dei Sioux: “lì morì il sogno d’un popolo. Era un bel sogno.” E il Brigante Francesco Fasanella, detto Tinna, contadino del Regno delle Due Sicilie: “fummo calpestati, ci vendicammo” Scrive nella conclusione Marabello: “per quanto divisi dall’oceano, Briganti e Pellirosse si trovarono tuttavia a combattere lo stesso tipo di nemico. Infatti, in entrambi i casi l’avversario (…) rappresentava il mondo moderno dell’antitradizione”.
Conversano (BA)
Napoli
Né discariche né nucleare, ma rifiuti zero ed efficienza energetica
Meno rifiuti a Napoli con il progetto “Mettiamo a dieta il cassonetto”
Si è tenuto domenica 10 aprile 2011 a Conversano, presso la chiesa di S. Giuseppe nello splendido centro storico, promosso dai gruppi di Terra di Bari dell’associazione ecologista Fare Verde e col patrocinio del Comune di Conversano il convegno “Né discariche né nucleare, ma rifiuti zero e efficienza energetica”. Dopo i saluti di Roberto Milella, responsabile del gruppo di Conversano, ha preso la parola il Sindaco di Conversano Giuseppe Lovascio, che ha rivendicato alla sua amministrazione il merito di aver avviato a soluzione l’annoso problema della discarica di contrada Martucci ed ha preso l’impegno di intensificare la raccolta differenziata, in particolare con la separazione dell’umido dal secco e l’avvio a centri di compostaggio dell’organico, evidenziando i risultati positivi già conseguiti nel giro di pochi mesi. Francesco Longo, direttore dell’Ufficio Ambiente di Conversano, si è soffermato sugli aspetti burocratici e sulle difficoltà di un’incisiva azione dell’amministrazione locale quando le parole degli atti amministrativi non siano precise o lascino spazio ai malintesi. Sandro Marano, responsabile provinciale dell’associazione, ha posto in rilievo come i rifiuti e l’energia sono i due problemi fondamentali della nostra società - che un ecologo come Giorgio Nebbia ha definito icasticamente società dei rifiuti - e sono legati ai nostri stili di vita e che solo un incontro fecondo tra intelligenza tecnologica, volontà politica e sensibilità ambientale della gente può davvero risolvere. Pietro Santamaria, agronomo e ricercatore universitario, si è soffermato sui problemi dei rifiuti assimilando anche le scorie radioattive ai rifiuti e paventandone una mala gestione. Ha preso poi la parola la dr.ssa Elvira Tassitano, biologa e docente universitaria, per stigmatizzare il modo tuttora non corretto seguito in Italia per risolvere il problema dei rifiuti, che parte dalle discariche per poi puntare sugli inceneritori, anziché, come indicato dalla direttiva dell’Unione Europea in materia, dalla riduzione e dalla raccolta differenziata. Infine Massimo De Maio, presidente nazionale di Fare Verde, ha analizzato la non convenienza economica dell’energia prodotta dalle centrali nucleari, dimostrando con esempi e dovizia di particolari che si può ridurre lo spreco di energia con efficienza energetica e che “l’efficienza energetica è l’unica strada percorribile per rendere le fonti rinnovabili non solo sufficienti al fabbisogno, ma anche economicamente convenienti.” L’incontro è stato moderato dal giornalista Michele De Feudis. L’iniziativa si iscrive anche nell’ambito della campagna referendaria per il Comitato Vota sì per fermare il nucleare.
E’ partito a Napoli, con la presentazione presso la scuola media statale Tito Livio, il progetto del Forum Nazionale dei Giovani “Mettiamo a dieta il cassonetto”, patrocinato dalla I Municipalità di Napoli, in collaborazione con le associazioni Fare Verde e Nuovo Avvenire onlus. Il progetto coinvolgerà bambini di scuole elementari e medie in un percorso innovativo di educazione ambientale. Dopo aver partecipato ad alcune lezioni formative, un gruppo di bambini svolgerà direttamente un’azione di sensibilizzazione sulla riduzione dei rifiuti rivolta agli altri bambini delle scuole interessate. Successivamente, tutti i bambini coinvolti nel progetto, si divideranno in gruppi di lavoro e porteranno il loro bagaglio di informazioni all’interno di famiglie e luoghi di aggregazione, come gruppi sportivi e parrocchie. Nello stesso tempo con la Municipalità e con gli imprenditori locali si cercherà di dare quei servizi grazie ai quali è possibile acquistare il bene senza dover per forza creare rifiuti. Tra i primi obiettivi c’è l’avvio della vendita alla spina di latte, acqua e detersivi, e le campagne per i pannolini lavabili e per l’eliminazione dell’usa e getta dalle mense scolastiche. Tutti i materiali informativi, sia disegni che testi, verranno realizzati dai bambini e si realizzerà anche una mappa dei punti “rifiuti zero” dove sarà possibile acquistare non producendo rifiuti. L’obiettivo è quello di coinvolgere tutta la I Municipalità di Napoli, per estendere poi le iniziative ad altri territori della città, in un percorso virtuoso di riduzione del volume complessivo dei rifiuti prodotti, che dovrebbe sempre precedere la fase della raccolta differenziata per il riciclaggio. La formazione sulla differenziata è prevista nella seconda fase del progetto.
prendiamo iniziativa
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25 anni avanti
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25 anni fa nasceva Fare Verde. Da subito si è battuta per fermare il nucleare, riutilizzare gli imballaggi, riciclare i rifiuti e compostare quelli organici, uscire dal consumismo e recuperare l’equilibrio tra noi e l’ambiente che ci circonda. 25 anni dopo è possibile usare bastoncini nettaorecchie biodegradabili, mettere al bando i sacchetti di plastica, acquistare latte e detersivi alla spina, installare pannelli fotovoltaici sul proprio tetto, usare pannolini lavabili, fare la spesa dal contadino, condividere un’auto invece di comprarla, fare la raccolta differenziata porta a porta in migliaia di Comuni italiani, compostare i rifiuti umidi in giardino, usare lampade che consumano un decimo di quelle di 25 anni fa. Il mondo sta cambiando nella direzione che Fare Verde immaginava un quarto di secolo fa. Ma non basta. Produciamo ancora troppi rifiuti, sprechiamo ancora troppa energia e c’è chi dopo 25 anni vorrebbe ritornare al nucleare. Per questo serve ancora il nostro impegno. E la nostra visione, di 25 anni avanti.