SPECIALE DECRESCITA
in questo numero, il documento di fare verde sulla decrescita, presentato in occasione del suo ventennale
Anno XIII Numero 62 Marzo Giugno 2008 Euro 2,50 www.fareverde.it info@fareverde.it b
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Uscire dallo sviluppo Riflessioni per ridurre i consumi e migliorare la qualitĂ della vita
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L’abbuffata. Una fiaba ecologica. DI SANDRO MARANO
“Tutto è stato già detto; ma poiché nessuno lo ascolta, bisogna sempre ricominciare.” (Andrè Gide) Il castello della terra di Gaia sorgeva su una collinetta posta all’imbocco d’una gola, nel fitto di selve lussureggianti percorse da fiumi e popolate da ogni specie di animali. Il problema era arrivarci. Ci volevano giorni di cammino attraverso un deserto ostile, ingrato, assolato. Ma ogni fatica era ricompensata dalla festa che vi si svolgeva. Non descriverò in dettaglio le meraviglie del castello: giochi d’acqua e fontane, giardini e portici, scale, atri e sale dei ricevimenti. Qui, c’era una lunga imponente tavola su cui erano poste vivande e bevande d’ogni genere, dalle più semplici alle più raffinate. Nessuno degli invitati conosceva il padrone del castello. Alcuni dicevano che si sarebbe mostrato alla fine della festa, altri che sarebbe stata una vana attesa. Tutti, però, sapevano che c’erano poche regole da rispettare: ciascun invitato doveva lasciare una traccia del suo passaggio adornando una delle tante sale vuote del castello e poi ciascun gruppo doveva cedere il proprio posto nel massimo ordine possibile. Quello del lunedì a quello del martedì, questo a quello del mercoledì, e così via. All’inizio queste poche regole furono scrupolosamente osservate. Gli invitati che si succedevano secondo le giornate prestabilite erano grati ai loro predecessori per la ricchezza che trovavano ed attenti a lasciarla a coloro che sarebbero venuti dopo. Le libagioni erano abbondanti e la competizione non oltrepassava certi limiti. Si poteva girare in lungo e in largo il castello senza mai annoiarsi, soffermarsi qua e là, godere della bellezza dei luoghi o fare arte, gustare mille gradevoli sapori. Chi mai avrebbe pensato che tutto questo potesse avere termine? Eppure accadde che un gruppo di invitati proclamasse alto e forte che l’unica regola da seguire erano i propri comodi, che tanto il castello
PUNTO VERDE a cura di sandro marano «Non riconoscendo dei limiti extraumani, l’umano si disgrega rapidamente. Perché l’umano non è umano che quando è legato al divino; separato dal divino ridiscende verso l’animale.» Pierre Drieu la Rochelle, Le radici giacobine dei totalitarismi
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Drieu è un ambientalista tout court. Dietro le sue affermazioni c’è la dialettica come elaborata da Eraclito ad Hegel. Non c’è bianco senza nero, bello senza brutto. Il divino, non necessariamente un Dio persona, cioè l’altro da sé, la natura vivente, la vitalità è fondamentale perché l’uomo non impazzisca, perché la società non si disgreghi.
era grande e poteva contenere tutti, che gli altri invitati, quelli che li avevano preceduti, erano avvolti nelle tenebre dell’ignoranza e che i padroni del castello sarebbero stati loro! Chi protestò fu deriso, emarginato, perseguitato. Che diamine! Non si poteva fermare la festa per scrupoli da donnicciuola! Cominciò in questo modo l’abbuffata. Tutto fu profanato, saccheggiato, lordato. La competizione si fece spasmodica, i partecipanti crebbero di numero, i giardini furono divelti per fare posto a capannoni, l’acqua limpida delle fontane si fece fanghiglia, gli animali furono braccati e cacciati senza più remore. Presto regnò una confusione spaventosa. Festaioli fanatici e farfuglianti sciamavano nelle sale del castello incuranti dei dipinti, delle sculture, dei marmi e delle stoffe pregiate, mettendo tutto a soqquadro e imbrattando senza ritegno. La sala del banchetto fu presa d’assalto: gruppi di invitati e di loro amici trangugiavano panzerottini e millefoglie, razziavano timballi di lasagna e risotti ai frutti di mare, ingurgitavano beveraggi e vini d’annata. A due, anzi, a quattro ganasce. Nessuno badava agli approvvigionamenti. Non era riccamente imbandita la tavola? Non c’era ogni ben di Dio a disposizione? Perché preoccuparsi? Capannelli di invitati sghignazzanti, vocianti ed ebbri si facevano e si disfacevano in poco tempo. I pavimenti delle sale, prima lucenti al punto da riflettere arredi e vestiti, erano ormai opachi, coperti di sudiciume. Fumi e cattivi odori impregnavano ormai i muri, le mobilia, l’aria stessa. Il frastuono poi era tale da inebetire. Piatti d’arrosto e leccornie passavano di mano in mano senza sosta. Mangiavano a crepapelle, ben oltre il bisogno e il piacere e più d’uno rimetteva per aver troppo bevuto o per essersi troppo ingozzato. Timidamente qualcuno osservò che il tempo stava ormai per scadere e che presto sarebbero arrivati gli invitati successivi. Di quale accoglienza avrebbero goduto? E la festa sarebbe durata? Ahimé!, mal gl’incolse. Furono issati sui lampadari e messi alla berlina. Nel frattempo, una strana cortina di fumo avvolgeva a poco a poco tutti gli invitati, sottraendoli alla vista. Nessuno, però, pareva farci caso. Tutti continuavano imperterriti a brandire forchette e coltelli, a spolverare vassoi, a dare la caccia all’ultimo tramezzino, a trincare gli ultimi fiaschi, gli ultimi boccali. Quanto tempo passò? Non saprei dirlo con precisione. Un’assordante silenzio accolse gli invitati dell’ultimo giorno della settimana.
xFare+Verde Idee e fatti per vivere l’ambiente Bimestrale di Fare Verde ONLUS Registrazione del Tribunale di Roma n. 522 del 24 ottobre 1995 Direzione e redazione: Via Iside, 8 Roma e-mail: info@fareverde.it tel./fax: 06 700 5726 Direttore Responsabile: Gloria Sabatini Progetto grafico: Massimo De Maio Impaginazione: Dreamers Lab via del Teatro Valle, 51 - 00186 Roma Stefania Giuseppetti s.giuseppetti@dreamerslab.it Tel. 06 6878 262 Prestampa, stampa e confezione: DAS PRINT, Roma - tel. 06 855 4312 e-mail: dasprint@libero.it Alla redazione di questo numero hanno collaborato gratuitamente: Giancarlo Terzano, Massimo De Maio, Sandro Marano Per collaborare a xFare+Verde: Gli articoli vanno corredati di eventuale materiale iconografico (foto, disegni, ecc.) e forniti su file a info@fareverde.it Non si assicura la pubblicazione di articoli inviati a mezzo fax o posta. Le immagini (solo in bianco e nero) vanno salvate in formato Jpeg (.jpg) ed inviate a mezzo posta elettronica a info@fareverde.it Non si assicura la pubblicazione di immagini fornite in digitale di scarsa qualità (sono richiesti almeno 300 dpi di risoluzione e 10 cm di base). Fotografie e materiali iconografici inviati a mezzo posta vanno indirizzati a: Dreamers Lab - Stefania Giuseppetti via del Teatro Valle, 51 - 00186 Roma Si ringrazia in particolar modo quanti comprando il giornale o, meglio ancora, sottoscrivendone l’abbonamento ci aiutano a continuare su questa strada. Per chi crede che l’ambiente abbia bisogno di impegno concreto ed un progetto nuovo, l’abbonamento a xFare +Verde é un gesto coerente e conveniente. Abbonamenti: Abbonarsi per 5 numeri (a luglio/agosto non usciamo) costa solo 10 Euro da versare sul CCP n. 9540 5007 (causale: abbonamento xFare +Verde) L’abbonamento è gratuito per chi si iscrive a Fare Verde ONLUS Per iscriversi a Fare Verde ONLUS o abbonarsi a xFare+Verde: info@fareverde.it www.fareverde.it tel./fax 06 700 5726
USCIRE DALLO SVILUPPO Riflessioni per cambiare il mondo, vivendo meglio con meno
Documento presentato all’Assemblea Nazionale dei soci di Fare Verde onlus, Norcia (PG), 22-25 aprile 2006 Già nel suo primo documento Ecologia, una questione di civiltà (1987), Fare Verde rilevava come la questione ambientale non fosse affrontabile nei soli termini di leggi, interventi tecnici e qualche parco naturale, ma richiedesse una riflessione più profonda sul modello stesso di sviluppo, sui suoi miti e sulle sue parole d’ordine. Il problema non era costituito, infatti, dalle esasperazioni di un modello, dai suoi “errori di percorso”, ma dal modello stesso, fondato sulla crescita infinita di produzione e consumi, sui miti del progresso e dello scientismo, sull’individuo e il suo egoismo. Saccheggio, degradi e inquinamenti non erano quindi accidentali, ma costituivano l’inevitabile approdo di questa “civiltà” e del suo modo di vivere. Quella di Fare Verde era una difesa dell’ambiente, ma anche una ribellione etica contro l’uomo moderno “civilizzato”, sempre più estraneo alla Natura, al sacro, ai legami comunitari, e sempre più schiavo dei bisogni indotti dal consumismo, di comodità che diventano rapidamente necessità. Contro questo tipo di uomo, perfetto ingranaggio del produttivismo, ricordavamo che “l’aver bisogno di molte cose, tutte procurabili in cambio di denaro, non è sintomo o sinonimo di superiorità civile, bensì di inferiorità, vanifica ogni concetto di sostanziale libertà ed è fonte di continuo decadimento fisico e mentale” (SermontiDi Pietro, Il prezzo della salvezza). Nella logica del fare, del vivere in prima persona i valori, Fare Verde proponeva un radicale cambiamento dei nostri comportamenti quotidiani (una Rivoluzione di valori, la definivamo, forse ambiziosamente ma con piena consapevolezza della posta in gioco), tale da farci uscire dal modello della società dei consumi, dannoso per l’ambiente ma anche per l’uomo. Nei suoi 20 anni di vita, il cammino di Fare Verde si è articolato lungo questo percorso. Da un lato, “volando alto”, denunciando come il problema ambientale fosse imputabile al sistema stesso, e opponendo quindi ai suoi dogmi culturali (economicismo, materialismo, individualismo, scientismo, utilitarismo) valori differenti (sacralità, comunitarismo, dono, sobrietà, responsabilità); dall’altro, convinti con Pound che l’unica cultura da riconoscere è quella “delle idee che diventano azioni”, cercando di trasformare in azioni concrete le nostre proposte controcorrente, per vivere i nostri valori e per proporre con esempi concreti l’alternativa alla “civiltà” dello sviluppo. LO SVILUPPO E’ probabilmente insita nella natura umana la tensione verso un miglioramento delle condizioni di vita materiale. Per millenni, tuttavia, i limiti delle tecnologie utilizzabili ma soprattutto concezioni culturali fondate sull’armonia tra uomo e cosmo hanno limitato tale tensione e costituito un argine al saccheggio delle risorse naturali1. Con l’avvento delle teorie illuministe e materialiste del XVIII e XIX secolo, tali argini sono crollati. Da un lato, il mondo è diventata mera materia, non solo conoscibile (anche per gli Antichi lo era, ma la loro conoscenza era “svelamento”, rivelazione) ma soprattutto manipolabile, mera materia inerte rientrante nel dominio esclusivo dell’uomo (la cartesiana distinzione tra la mente umana, res cogitans, e il mondo, animali compresi, res extensa). Dall’altro, la tecnologia, proprio in virtù di questo mutato atteggiamento culturale, ha sempre più accresciuto la sua potenza e la sua capacità creativa/distruttiva. Le teorie economiche e sociali degli ultimi secoli, i processi di industrializzazione ed urbanizzazione collegati, hanno poi completato l’opera, fino ad arrivare alla moderna civiltà dei consumi, fondata 1 Tipico esempio è quello della Cina, che da secoli aveva raggiunto elevate conoscenza tecnologiche, il cui utilizzo è stato però mitigato dall’influsso del Taoismo, che nell’universo vede il convergere di forze complementari e non la loro contrapposizione. Una visione fondata sull’armonia e secondo cui una crescita illimitata sarebbe stata un assurdo, come delle montagne senza valli.
sull’esasperazione dei bisogni e sulla sempre maggiore evanescenza dell’utilità delle cose. La frugalità, che un tempo costituiva una necessità ma anche una virtù, è diventata un limite, un comportamento deplorevole e anti-sociale. Al contrario dello spreco, che da vizio (ammesso solo nei momenti di rottura del tempo quotidiano, come le feste) è diventato il primo dovere civico del buon cittadino consumatore. Siamo tempestati da messaggi che invitano al consumo, e la parola d’ordine, per politici ed economisti, è “rilanciare i consumi”. Non importa quali, per soddisfare quali bisogni, e soprattutto a quali costi. L’importante è accrescere la produzione, far aumentare il PIL. Una logica puramente produttivista, che considera positivo il più anziché il meglio. E che, per accrescere incessantemente il meccanismo produzione-consumo, è arrivata ad assicurarlo, in una società già sazia di bisogni primari, con il voluttuario, promovendo sempre più beni superflui (ma che nel giro di poco tempo diventano essenziali per l’uomo civilizzato), semmai in imballaggi inutili ma attraenti; o anche attraverso la produzione di beni usa e getta, che volutamente sono sempre meno durevoli, all’insegna della distruzione creatrice (Schumpeter). Con un’ulteriore, spiacevole appendice di tipo culturale. Circondati sempre più da oggetti artificiali, da essi dipendenti nella nostra esistenza quotidiana, perdiamo di vista il legame originario con la natura. Nelle città in cui viviamo, dove la presenza della natura è del tutto assente o relegata a piccole oasi, le “aree verdi”, esse stesse altamente artificiali. E nell’alimentazione, nell’abbigliamento, nella scansione del tempo, dove i ritmi solari giornalieri e stagionali ci sono indifferenti; o di fronte al clima, con la tendenza a fuggire le variazioni, per sostituirle, grazie all’uso esasperato di condizionatori o riscaldamento, con “ottimali” temperature medie. “La vita – ricorda De Benoist – è divenuta, in modo sempre più esclusivo, una faccenda di artifici, suscitando così l’illusione di poter esistere a prescindere dalla terra”. Un’illusione che costa caro, in quanto rende ciechi e sordi al problema della devastazione ambientale e dei limiti delle risorse Le implicazioni di questo modello di società, dovrebbero essere a tutti note. Soprattutto sul piano ambientale, dove esso ha prodotto distruzione degli ecosistemi e delle risorse naturali (foreste, acque dolci, impoverimento suoli …), inquinamenti, riscaldamento del pianeta. Il punto è che tale modello di produzione e consumo esasperati ed incessanti, è altamente distruttore di risorse, nel duplice senso che consuma il “capitale naturale” ad una velocità superiore a quella di ricostituzione, e produce ricadute negative (inquinamenti, rifiuti) in quantità tali che l’ambiente non è in grado di smaltire. Sul piano dei numeri, il suo impatto viene valutato attraverso la cd. impronta ecologica, che consente di individuare la quantità di territorio produttivo necessaria alla produzione di risorse e allo smaltimento dei relativi rifiuti per una determinata popolazione. Ebbene, se il rapporto ottimale per sostenere l’attuale popolazione mondiale è di 1,7 ettari pro-capite annui, già oggi l’impronta ecologica mondiale è di 2,8 ettari, oltre quindi la sostenibilità. Dall’impronta, emergono inoltre le disparità nello sfruttamento delle risorse. L’impronta di uno statunitense medio, infatti, è di 12,2 ettari pro-capite, quella di un europeo occidentale di 6,3 ettari, quella di un abitante del Burundi di 0,5 (dati WWF, The Living Planet 2005). Il calcolo dell’impronta ecologica mostra quindi come l’attuale società dei consumi di tipo occidentale sia possibile grazie ad una notevole disparità di accesso alle risorse, e come anzi sia ottenuta a spese del resto del mondo: oggi, il 26% della popolazione mondiale consuma l’80% delle risorse del pianeta. E rende evidente come sia improponibile l’idea, pur sostenuta dai fautori della crescita illimitata (multinazionali e governi, certo, ma anche molte “anime buone” della globalizzazione come occasione di sviluppo dei paesi poveri) che i restanti ¾
di giancarlo terzano
vivere comprando? Nella pagina a sinistra: La famiglia Revis, North Carolina (USA) Spesa settimanale in cibo: 242 euro Foto: Peter Menzel/Grazia Neri Le tavole occidentali imbandite di cibo “spazzatura” stridono accostate a quelle più genuine, dove il colore è dato dagli alimenti invece che dai mistificanti packaging ideati dagli esperti di marketing. Una famiglia di quattro persone in Germania deve acquistare tutto e consuma una media di 400 euro a settimana in cibo, mentre sei persone in Chad che riescono ancora ad autoprodurre parte dei beni che utilizzano, si fanno bastare una spesa di cibo di meno di un euro a settimana.
IN MOSTRA A ROMA Viale Scalo san Lorenzo, 55 Hungry Planet. What the world eats di Peter Menzel & Faith D’Aluisio. Dal 23 Gennaio al 28 Febbraio 2009 Lunedì – Sabato 11.00 13:30 / 15:00 21:00 Ingresso libero Chiuso Domenica e Lunedì mattina www.mandeep.it
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impronta ecologica 1961-2005
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2000 2005 Impronta ecologica
1,2 Numero di pianeti Terra 1,0
Biocapacità mondiale
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un pianeta non basta: ne servono 2,7 Impronta ecologica pro capite per paese nel 2005: Emirati Arabi Uniti 9,5 USA 9,4 Kuwait 8,9 Danimarca 8,0 Australia 7,8 Canada 7,1 Spagna 5,7 Regno Unito 5,3 Francia 4,9 Giappone 4,9 Italia 4,8 Germania 4,2 Federazione russa 3,7 Mondo 2,7 Arabia Saudita 2,6 Brasile 2,4 Cina 2,1 India 0,9 Bangladesh 0,6 Congo 0,5 Haiti 0,5 Afghanistan 0,5 Malawi 0,5
0,4 0,2 0
della popolazione, o buona parte di essi, possano un giorno accedere allo stesso livello di benessere. Se già oggi viviamo in una pericolosa situazione di deficit ecologico, per cui, per sostenere l’attuale sviluppo mondiale, non basta il nostro pianeta ma ce ne vorrebbe almeno un altro, qualora si volesse davvero estendere a livello planetario il sistema di vita dell’americano medio (un sistema “non negoziabile”, come chiarì Bush padre) di pianeti ce ne vorrebbero almeno 7. La banale constatazione che, essendo le risorse naturali finite, non sia ipotizzabile una crescita continua ed infinita, trova una preoccupata conferma anche nelle previsioni in tema di approvvigionamenti d’energia. Mentre con la continua crescita dell’economia mondiale (+ 5,1% nel 2004) aumentano anche i consumi energetici (+ 3,7% nel 2004, anno in cui per la prima volta i PVS hanno superato i paesi dell’OCSE), si fa sempre più vicino il peak oil, il picco nella produzione di petrolio2, cui seguirà un’inevitabile difficoltà di approvvigionamento. L’incessante aumento del costo del petrolio (passato da una media di 30 $/bar nel 2004 a circa 60 nel 2005, con punte di 70 $/bar) e soprattutto l’estrema attenzione politica e militare verso le strategiche aree asiatiche sono le anticipazioni della futura crisi energetica. Che si accompagna alla piena consapevolezza, da parte dei governi (molto meno della gente, che invece ottimisticamente vi affida le sue speranze) che le fonti rinnovabili, allo stato attuale, non possono sostituire, se non in minima parte, le fonti fossili. Insomma, oltre ai problemi etici e di rapporti con il Sud del Mondo, è proprio l’insostenibilità ambientale e la limitatezza delle risorse disponibili che rendono evidente l’improponibilità del modello fondato sullo sviluppo, sulla crescita indefinita dell’economia. E che suggeriscono l’immagine del Titanic in cui a bordo i viaggiatori cantano e danzano spensierati mentre le prime falle nello scafo sono già aperte.
Fonte: WWF, Living Planet Report 2008 LA DECRESCITA Se il problema è il sistema sviluppo, le soluzioni possono essere ricercate solo all’esterno del sistema. Ciò anche alla luce del fallimento dei tentativi di conciliare sviluppo e sostenibilità. Nel 1987, la Commissione Bruntland per l’Ambiente e lo Sviluppo lanciò la formula dello sviluppo sostenibile o durevole, uno sviluppo cioè consapevole dei limiti dell’ambiente, tale da permettere “la soddisfazione dei bisogni presenti senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i loro” (rapporto Our Common Future, 1987). La formula fu poi consacrata nel 1992 al Vertice della Terra di 2 Nonostante molte previsioni pongano già al 2006-2010 il punto culminante della disponibilità di petrolio, questi ancora costituisce a livello mondiale la principale fonte d’energia, con un incidenza del 35%. Seguono il carbone (24,6%), per altro in crescita, il gas naturale (20,7), le biomasse (10,4) e nucleare e idroelettrico (9%). Dati Rapporto Energia Ambiente 2005, ENEA.
Rio, dove 179 Stati sottoscrissero l’Agenda 21 per lo sviluppo sostenibile, ed è diventata il punto di riferimento delle politiche ambientali dell’Unione Europea ed anche di buona parte del mondo ecologista, che vi ha visto la lodevole intenzione di costringere economia e politica a farsi carico dei problemi ambientali. In effetti, l’idea di un’economia consapevole dell’esistenza di limiti, in grado di utilizzare le risorse naturali nei limiti della loro capacità di riproduzione, preoccupata anche delle generazioni future, sembrava costituire la soluzione ai problemi posti dallo sviluppo. Sviluppo sì, in sostanza, ma nel rispetto della natura, semmai contando sull’aiuto della tecnologia, che poteva moltiplicare l’utilità delle risorse. I dati sopra indicati dimostrano che non è andata così, e che anche la tecnologia, a causa del cd. effetto rimbalzo3, non ha consentito di accrescere la quantità senza aumentare anche l’impatto. In realtà, fin dall’inizio, la formula dello sviluppo sostenibile (in fin dei conti un semplice concetto ideale, la cui validità va vista alla luce dei risultati che consente di raggiungere) ha presentato delle ambiguità, con interpretazioni varie (ne sono state citate fino a 60) e contrastanti. Molti (industriali, economisti, politici), nel sottoscriverla, hanno sottolineato soprattutto la durevolezza dello sviluppo, la possibilità di assicurare una crescita continua. Anche in riferimento alle generazioni future, si è dato per scontato che i bisogni da soddisfare siano almeno gli stessi delle generazioni attuali (ovviamente di quelle che vivono nel mondo “sviluppato”, i cui bisogni per altro sono sempre crescenti), una sorta di diritto naturale al benessere che sarebbe ingiusto mettere in discussione. Il risultato è che la sostenibilità ambientale è passata del tutto in secondo piano di fronte alla necessità di procedere nello sviluppo. Semmai nella prospettiva (una speranza, un atto di fede, o una consapevole bugia) che un domani arriverà la tecnologia a rimettere le cose a posto (es., l’idrogeno)4. 3 Sul piano teorico, l’effetto rimbalzo può essere definito come “l’aumento del consumo legato alla riduzione dei limiti all’utilizzazione di una tecnologia, questi limiti potendo essere monetari, temporali, sociali, fisici, legati allo sforzo, al pericolo, all’organizzazione” (L’effetto rimbalzo, di Francois Schneider, in xfare+verde, set-ott. 2004, n. 44). Un chiaro esempio, è quello dei trasporti, dove il miglioramento delle comunicazioni (es. il raddoppio di un’autostrada) e la riduzione dei tempi di percorrenza invogliano maggiormente al movimento, determinando così un incremento delle auto circolanti e del numero dei viaggi. Oppure, per restare ad una dimensione più domestica, la possibilità che quanto risparmiato isolando meglio la propria casa possa essere investito per l’acquisto di una seconda automobile. L’effetto rimbalzo chiarisce perché anche l’innovazione tecnologica e l’utilizzo di sistemi più efficaci con maggior risparmio energetico, finora non abbia mai comportato la riduzione dei consumi e dell’impatto ambientale. E mostra chiaramente come l’unica via sia l’uscire fuori dalla logica della crescita, e il puntare, invece, su un’ “innovazione frugale”, finalizzata a produrre meglio e meno, piuttosto che meglio e più. 4 Una citazione d’obbligo merita, in proposito, l’ex ministro dell’Ambiente Matteoli, i cui richiami allo sviluppo sostenibile sono sempre stati volti ad assicurare lo sviluppo più che la sostenibilità. Da qui l’appoggio alle grandi opere, i parchi
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ISCRIZIONE 2008 I nostri consumi hanno raggiunti livelli non più sopportabili per la biosfera. Il riscaldamento del pianeta è l’effetto più evidente dell’impatto che le attività umane hanno sull’ambiente, i rifiuti sono una “emergenza permanente” in molte parti d’Italia, l’approvvigionamento di energia da fonti fossili diventa sempre più costoso e difficoltoso, le multinazionali manipolano pericolosamente le specie viventi, ... Di fronte alla catastrofe ambientale che abbiamo provocato, e che stiamo rendendo ogni giorno più drammatica, c’è una sola risposta possibile: ridurre i nostri consumi. Da subito, da tutti.
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Anche il corollario del chi inquina paga, si è rivelato insufficiente. Quando anche applicato - e non è certo la regola, anche perché spesso i danni ambientali non sono neanche configurabili, come nel caso degli ogm-, esso si tramuta in una sorta di licenza di inquinare. Le aziende pagano, ma non riducono il peso del loro inquinamento. Oggi, a quasi 20 anni dalla sua proposizione, la formula dello sviluppo sostenibile si rivela per quella che è: un’impossibile quadratura del cerchio (De Benoist), la strada dell’Inferno lastricata di buone intenzioni (Latouche), un ossimoro, una contraddizione in termini. Inutile perché non è riuscita a governare l’economia, la quale ha proseguito la sua rotta lungo la via della crescita incurante della sostenibilità ambientale; ma anche ingannevole, in quanto fa credere che sia possibile conciliare l’inconciliabile (una crescita continua con la limitatezza delle risorse) e soprattutto perché sostiene l’illusione che la soluzione al problema ambientale possa venire all’interno della stessa cultura materiale e sviluppista che lo ha creato, semmai applicata (ma ciò non avviene) con più moderazione. Ciò di cui c’è bisogno, invece, è proprio un’inversione di rotta. Non si tratta di insistere sulla via della crescita, promettendo correttivi che puntualmente non si realizzano, ma di percorrere una rotta diversa, che a questo punto non potrà che esser quella della decrescita. La teoria della decrescita ribalta completamente la prospettiva. Partendo dalla constatazione del limite delle risorse naturali e della capacità di smaltire le scorie, essa adatta l’economia all’ambiente e non viceversa. Ma oltre a rispondere alle preoccupazioni ambientali, la decrescita costituisce anche una valida alternativa in termini etici e di sobrietà, di equità sociale, nonché di migliore qualità della vita, individuale e collettiva. Prima di rappresentare un vero e proprio programma politico o economico, la decrescita costituisce una radicale inversione del modo di pensare. Un’ecologia della mente, che libera l’uomo dall’idea che sviluppo, crescita, siano, costi quel che costi, necessariamente un miglioramento. Un’impresa decisamente controcorrente, in controtendenza rispetto ai programmi dei partiti (tutti), ai poteri che controllano economia e finanza, ai mass media (che di pubblicità vivono), ai desideri e alle preoccupazioni della gente, che metabolizza le parole d’ordine del sistema. Talmente controcorrente - osserva Pallante - che lo stesso termine “decrescita” viene demonizzato, e si preferisce, seppur con preoccupazione, parlare di “crescita negativa”. “Decolonizzare l’immaginario”, come propone Latouche, invitando ad uscire dall’economicismo. Un’impresa di non conformismo che implica il recupero di una qualità essenzialmente umana, quella della riflessione, che il bombardamento pubblicitario della società dei consumi, la che devono produrre ricchezza, il ricorso al mercato dei crediti di carbonio per “ridurre” le emissioni di CO2, l’automobile vista come “conquista di libertà”, ecc. Una filosofia ben esplicitata in un ciclo itinerante di conferenze lungo tutta l’Italia dal significativo titolo di “Ambiente è sviluppo”
vita frenetica e competitiva che ci impone, tendono a sopprimere. L’uscita dall’economicismo libera dall’assoggettamento all’assurdo gioco della crescita del PIL, il Prodotto Interno Lordo, il cui aumento viene universalmente invocato come segno di “salute” del sistema. In realtà il PIL, indice della crescita economica, registra il solo valore aggiunto dato dai prodotti e servizi scambiati in forma monetaria. Se è vero che l’aumento del PIL indica la crescita e una sua diminuzione invece la “crescita negativa”, già dalla sua definizione emergono tuttavia i limiti di tale indicatore. Poiché registra unicamente gli scambi monetari, il PIL è innanzitutto indifferente a ciò che ha motivato tali scambi. Così, incidenti, malattie, calamità, quando comportino ricoveri, cure, ricostruzioni, contribuiscono alla crescita del PIL. Al contrario, una situazione di positiva normalità (salute, benessere, assenza di cataclismi ecc) non contribuisce, di per sé, all’aumento della produzione e quindi del PIL. Quando le temperature torride delle ultime estati ed il “rammollimento generale” degli italiani hanno fatto aumentare gli acquisti ed i consumi dei condizionatori, il PIL è cresciuto. Si tratta, quindi, di un indicatore matematico che nulla dice sulla qualità della vita, sulla felicità delle persone, sul loro benessere reale. Anzi, trasforma in positività anche eventi negativi e, viceversa, soffre di eventi positivi. Il PIL, inoltre, nel quantificare solo il valore aggiunto degli scambi monetari, non registra ciò che non è scambiato. Non registra, quindi, i danni ambientali, né il depauperamento delle risorse naturali, che vengono irrimediabilmente sottratte ai posteri. Se nei consumi di benzina (che fanno aumentare il PIL) considerassimo anche l’esaurimento della risorsa petrolio (un capitale naturale non ricostituibile) e le emissioni prodotte, emergerebbe che non sempre la ricchezza prodotta è a somma positiva. E non registra tutte quelle attività, di scambio e di produzione di beni o servizi, che non sono monetarizzate. La produzione per sé, i servizi resi gratuitamente da familiari o amici, il volontariato di Fare Verde, ad es., non comportano crescita del PIL. Solo all’interno di una logica ciecamente produttivista, quindi, la crescita dell’economia può essere ritenuta un valore assolutamente positivo, in sé. Decolonizzare l’immaginario significa liberarsi da tale automatismo, e scoprire che nel meno può esserci il meglio. Sul piano concreto, puntare sulla decrescita significa poter percorrere diverse strade. Innanzitutto, quella della sobrietà, il recupero cioè di uno stile di vita più parsimonioso, che sa distinguere i bisogni reali da quelli effimeri, e che punta a soddisfare, oltre alle necessarie esigenze materiali, anche esigenze immateriali (spirituali, affettive, intellettuali, sociali, …). Sobrietà significa saper rinunciare al non necessario, recuperando la virtù della frugalità, nella convinzione che ciò sia bene per l’ambiente, per gli altri, ma anche per noi stessi, per la nostra salute mentale. “La felicità – ricorda Wolfgang Sachs - si trova più nell’agire sui desideri che nell’agire sulle cose possedute, nel desiderare di meno piuttosto che nell’accumulare di più”.
hai fatto un incidente? grazie a TE, LA NAZIONE ora è PIù RICCA.
è benessere
Lavorare 3-4 mesi l’anno solo per pagarsi l’auto? Una ricerca dell’ACI (2004) quantifica in 4.414 euro il costo medio annuo per il possesso di un’automobile, corrispondenti a circa 500 ore di lavoro di un salario medio. Ne emerge che si lavora per 3-4 mesi all’anno soltanto per ripagarsi l’auto.
L’aumento del PIL (Prodotto interno lordo) viene universalmente invocato come segno di “salute” del sistema. Ma è veramente così? Poiché registra unicamente gli scambi monetari, il PIL è indifferente a ciò che ha motivato tali scambi. Così, incidenti, malattie, calamità, quando comportino ricoveri, cure, riparazioni, ricostruzioni, contribuiscono alla crescita del PIL poiché vengono conteggiati per il loro valore monetario. Una situazione di positiva normalità (salute, benessere, assenza di cataclismi ecc.) che non comporta spese, non contribuisce, di per sé, all’aumento della produzione e quindi del PIL.
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Se sobrietà vuol dir rinuncia, è comunque rinuncia del superfluo. Non solo inteso come bisogni indotti, ma anche come bisogni reali soddisfatti in modo superfluo: evitando, ad es., la trappola dell’ultimo modello più accattivante e dell’obsolescenza programmata, oppure il richiamo delle marche o, ancora, degli imballaggi inutili. Ecco un decalogo della sobrietà: pensare, consumare critico, rallentare, ridurre, condividere, recuperare, riparare, riciclare, consumare locale, consumare prodotti di stagione (Sobrietà, di Francesco Gesualdi).
è benessere buttare via ogni volta un flacone di plastica rigida del detersivo?
senza crescita economica non c’è occupazione. ma, ne siamo proprio sicuri? pochi sanno che non c’è un nesso diretto tra occupazione e crescita economica: aumentando la crescita non aumenta anche il numero degli occupati. nonostante tra il 1960 e il 1998 il PIL italiano sia triplicato, il numero degli occupati è rimasto costante. 6
L’obiettivo decrescita può essere raggiunto anche attraverso modi diversi di soddisfazione dei bisogni, che senza implicare rinunce, agiscono comunque in senso contrario allo sviluppo dell’economia e al suo impatto ambientale. Lo sviluppo economico, la crescita del PIL, sono direttamente collegati, si è visto, agli scambi monetari. Il passaggio dalla civiltà contadina alla società industriale e urbana ha determinato un aumento del ricorso allo scambio monetario per soddisfare bisogni. Dalla autoproduzione dei beni si è passati alla produzione del reddito per acquistare i beni. Passaggio, per altro, proposto e vissuto come una liberazione: la possibilità di acquistare anziché di dover fare una cosa è stata considerata una conquista del progresso, un affrancamento da uno stato di necessità ad uno di libertà di scelta. E ha costituito lo stimolo a lavorare di più, per avere più reddito per poter acquistare più beni. Contro tale meccanismo, la decrescita ripropone forme tradizionali di produzione di beni, non monetarizzate. Innanzitutto l’autoproduzione, la produzione da sé dei beni, essenziali o non. Dal vasetto di yogurt di Pallante, ad un vestito o alla cura del giardino, è possibile soddisfare le proprie esigenze anziché pagando, facendo da sé. Magari impegnandovi il tempo libero sottratto al lavoro, invertendo un processo automatico (da cani di Pavlov) che ci porta a dover lavorare di più solo per poter pagare beni o servizi che potremmo assicurarci da soli. Lavorare a tempo parziale, ad es., per potersi dedicare alla cura dei figli o dei genitori anziani, anziché lavorare di più per potersi pagare tata o badante. Con il risultato, per altro, di recuperare forme di conoscenza, di saper fare (l’ars dei latini) spesso perdute, di dedicare più tempo a noi, di conseguire beni spesso di qualità migliore, prodotti con cura anziché industrialmente. O anche la reciprocità, lo scambio non monetario, il dono o il favore agli altri, il mettere a disposizione le proprie capacità ed il proprio tempo (le banche del tempo) in un reciproco rapporto con amici, familiari, vicini. Sistema fondante nelle civiltà tradizionali, finché non è arrivato la sviluppo, che ha prodotto la mercificazione dei rapporti tra gli uomini e di questi con la natura. La reciprocità non costituisce
Detersivi sfusi anche nel Lazio
La Regione Lazio è la seconda regione italiana, dopo il Piemonte, a lanciare un progetto per la vendita dei detersivi alla spina nella grande distribuzione. Grazie a questa iniziativa fortemente voluta dall’assessore all’Ambiente Filiberto Zaratti, è possibile acquistare detersivi sfusi in 31 supermercati del Lazio. Il progetto prevede di arrivare a 40 punti vendita in poco tempo, coprendo tutte le province della regione. Ogni volta che si compra del detersivo alla spina, invece che in contenitori a perdere, si risparmia circa 1 euro. Per informazioni: www.detersivisfusi.it www.regione.lazio.it
soltanto un modo diverso di produrre beni e soddisfare bisogni, ma rappresenta un diverso modo di vivere con gli altri, all’insegna della convivialità, dei legami comunitari anziché dell’egoismo individualista (P. Coluccia, La cultura della reciprocità, Arianna Editrice, 2002). Decrescita significa anche localizzare le attività. Utilizzare i prodotti del territorio, riducendo i trasporti, i maggiori imballaggi inutili, i trattamenti che consentono ad un prodotto alimentare di essere consumato dopo giorni. Consumando alimenti di stagione, anziché frutta prodotta nell’altro emisfero. L’attenzione ai prodotti locali significa rinnovata attenzione al territorio locale, da cui dipende il nostro approvvigionamento. Si ricrea il rapporto che il contadino aveva con la terra, la consapevolezza che il suo utilizzo doveva essere sostenibile, all’insegna della riproduzione durevole. Ma si ricreano anche rapporti con i produttori del territorio, in alternativa ai prodotti senza volto dell’industria e dei centri commerciali. E si contrasta così anche il problema della concorrenza dei paesi dove produrre costa meno perché si sacrificano diritti e ambiente. La direzione è quella dell’autarchia, della capacità di portare avanti l’autosufficienza alimentare, energetica ecc. di un comunità il più possibile. Autoproduzione, reciprocità, autarchia … decrescita non significa star peggio e neanche vivere con meno. Se la sobrietà implica una rinuncia fondata sul valore attribuito alle cose (più che una rinuncia, è l’esercizio di una scelta responsabile, Pallante), le altre forme di soddisfazione dei bisogni, pur non facendo crescere il PIL, danno piena risposta alle necessità personali e collettive. In tali casi, non si tratta di rinunciare ai beni, ma di ottenerli in modo diverso dal pagare, senza cioè che diventino merci. Con un risultato spesso migliore. Si tratti della marmellata fatta in casa, della cura dei figli, dei lavori della casalinga, della frutta acquistata presso il contadino locale, si può fare affidamento sul fattore TLC Tender Loving Care, cura, passione e tenerezza (E. Schumacher). Con la differenza di un diverso impatto sull’ambiente, con meno imballaggi, meno trasporti, meno lavoro per sostenere spese evitabili, minor produzione industriale. E anche minore occupazione? Insieme alle preoccupazioni per il Terzo Mondo, le maggiori obiezioni alla teoria della decrescita sono legate al problema occupazione. Economisti, imprenditori, sindacati, politici di destra e di sinistra, tutti concordano che solo la crescita può garantire il lavoro. E in tempi di crisi occupazionale, invitare alla decrescita diventa, se non un sacrilegio, un attentato alle fondamenta della società. In realtà, anche sul rapporto occupazione/lavoro/crescita vanno fatte alcune precisazioni. Intanto, non c’è un nesso diretto tra occupazione e crescita economica, nel senso che aumentando la crescita non aumenta anche il numero degli occupati. Dati alla mano, dimostra Pallante che nonostante tra il 1960 ed il 1998 il PIL italiano sia triplicato, il numero degli occupati è rimasto costante (M. Pallante, La decrescita felice, Ed. Riuniti, 2005, p 44). Ciò che avviene è, in genere, uno spostamento della forza lavoro da un settore all’altro; e, in tempi di globalizzazione, un generale impoverimento dei ceti medi. A diminuire, comunque, non sarebbe il lavoro, ma l’occupazione, cioè il lavoro retribuito. A favore dell’attività di autoproduzione, o di produzione per la reciprocità, o di dono gratuito (es. volontariato), che invece crescerebbe. In realtà, una riduzione generale del tempo di lavoro consentirebbe di non incidere sul numero degli occupati ma di permettere, nel contempo, attività differenti. Il lavorare meno, lavorare tutti, declinato stavolta non secondo il paradigma produttivista bertinottiano (a parità di salario, per continuare a consumare) ma in una logica di decrescita, finalizzata a liberare tempo ed energie per i propri bisogni.5 Poiché decrescita è anche consumo critico, esercizio di scelta, si possono comunque sostenere quelle attività che abbiano una ricaduta ambientale positiva, anziché quelle con impatto negativo. Anziché promuovere la seconda e terza auto in famiglia (non ce ne sono già troppe? Oltre 33 milioni, a fronte di 57 milioni di abitanti, con un numero di immatricolazione che è quadruplo alla nascite) si può sostenere il trasporto pubblico, i produttori di biciclette, la costruzione di piste ciclabili … Anziché le “grandi opere”, che presuppongono più trasporti, più merci, più passeggeri, più consumi, un programma di investimenti pubblici potrebbe puntare alla ristrutturazione del patrimonio edilizio esistente e ai lavori di coibentazione degli edifici, che ridurrebbero per altro la nostra cronica dipendenza d’energia dall’estero; anziché lo yogurt industriale nel vasetto usa e getta, i prodotti dell’agricoltura biologica in cassette riutilizzabili ecc. Richiamando Zolla, Pallante parla di “recessione ben temperata”, cioè una politica produttiva che non guardi alla produzione in sé (la cresci5 Un esempio? Una ricerca dell’ACI (2004) quantifica il 4.414 euro il costo medio del possesso di un’automobile, corrispondenti a circa 500 ore di lavoro di un salario medio. Ne emerge che si lavora per 3-4 mesi all’anno soltanto per ripagarsi l’auto: un sacrificio che diventa puro masochismo quando si parla di seconda o terza auto, magari acquistate soltanto per andare al lavoro e risparmiare mezz’ora al giorno di mezzi pubblici o di passeggiata.
ta del PIL, fa niente cosa le determina) ma punti con decisione a ridurre il consumo di risorse, la produzione di rifiuti, l’impatto ambientale. E la povertà nel Terzo Mondo? Se fermare la crescita può apparire una soluzione materialmente ed eticamente sostenibile in una società opulenta come quella occidentale, nei confronti del Terzo Mondo, tale opzione può apparire una palese ingiustizia, un lusso che loro non possono permettersi. E a favore dello sviluppo dei paesi sottosviluppati si pronunciano paradossalmente sia i tradizionali fautori del capitalismo e le multinazionali, sia gli anticapitalisti di sinistra, che appoggiano comunque una “globalizzazione buona” che consenta a tutti l’accesso al benessere. In realtà lo sviluppo, lungi dal combattere la povertà, ne costituisce la causa. Come ha evidenziato Goldsmith (Perché lo sviluppo crea povertà, in Processo alla globalizzazione, Arianna Editrice, 2003, pubblicato anche come dossier in xFare+Verde, sett-ott 2002, n. 34) nonostante l’aumento esponenziale del commercio mondiale e degli indici di sviluppo, il numero dei poveri, dalla seconda guerra mondiale ad oggi, è aumentato, e non solo nel Terzo Mondo ma anche nei paesi “sviluppati”. E questo non perché (come continuamente ci viene detto) lo sviluppo non è cresciuto abbastanza, ma proprio a causa di tale crescita. Il problema è che la povertà viene rilevata in termini puramente monetari: tanto che si consideri la povertà assoluta nei paesi del Terzo e Quarto Mondo (che ha come parametro la disponibilità di un reddito di 1-2 dollari al giorno), quanto che si consideri quella relativa nei paesi sviluppati (che riguarda chi ha un reddito inferiore della metà a quello medio del paese), la povertà viene desunta sulla base di un criterio meramente monetario: la possibilità, cioè, di acquistare beni e servizi con il proprio reddito. Tale metodologia ignora del tutto le forme di soddisfazione dei propri bisogni non monetarizzate, come l’autoproduzione o la reciprocità. Forme fondamentali e prevalenti nelle società tradizionali, dove l’economia, ricorda Karl Polanyi, era “incastrata in relazione sociali” che proprio lo “sviluppo” fa invece venir meno. Del resto, le testimonianze di molti viaggiatori e studiosi indicano che le società preindustriali dell’Africa o dell’Asia, salvo situazioni eccezionali di carestie, non erano afflitte dalla povertà. Latouche ricorda che addirittura nelle principali lingue africane non esiste il termine povero, e che semmai quello che più gli si avvicina è la parola orfano. Dello stesso segno la testimonianza di Helena Norberg-Hodge sul Ladakh, nell’Himalaya (Futuro Arcaico. Lezioni dal Ladakh, Arianna Editrice, 2000). Il legame sociale, in altri termini, sostituisce la capacità individuale di produrre reddito al fine della soddisfazione dei bisogni. E’ quando si rompe il legame sociale, che si evidenzia la povertà. Abbandonato a sé stesso, l’individuo deve far fronte da solo alle proprie necessità. E lo sviluppo, il passaggio all’economia mercantile, alla produzione di beni per la rivendita, alla soddisfazione dei bisogni tramite il reddito, crea le nuove povertà. Nei paesi finalmente in “via di sviluppo” come in quelli già sviluppati, dove nonostante la società diventi sempre più ricca, cresce il numero dei poveri: 14 milioni di italiani, secondo l’Eurispes, sono i poveri relativi nel 2005 (Pallante). Un dato numerico da non prendere alla lettera alla luce di quanto si è precisato, ma che diventa drammaticamente vero per tutti coloro, anziani in primo luogo, che nelle nostre città devono pagare da sé tutti i beni e servizi necessari alla vita. Magari con lavori precari e flessibili, come va tanto di moda. Un ulteriore aspetto, ben evidenziato da Latouche e De Benoist, è infine il presupposto “occidentalista” dello sviluppo. Pensare che tutti i popoli del mondo debbano procedere sulla strada dello “sviluppo” significa ritenere esportabile ed universale il modello di società materialista e consumista proprio dell’Occidente. Universalizzando le sue strutture di produzione, ma anche il suo tipo di società (da qui lo sfaldarsi dei vincoli comunitari), le sue credenze e i suoi miti (economicismo, desacralizzazione, individualismo). Per questo Latouche parla dello sviluppo come della prosecuzione della colonizzazione con altri mezzi. PROGRESSO L’idea di decrescita mette anche in crisi il mito del progresso. Intanto perché, sul piano concreto, recupera tecniche e modi di vita già sperimentati nel passato. I nostri nonni, che hanno vissuto in una società fondata più sulla frugalità che sullo spreco, hanno molto da insegnarci in termini di pieno sfruttamento delle risorse, di autoproduzione di beni, di reciprocità, con i quali risolvevano la gran parte delle loro esigenze. Ma anche perché, sul piano delle idee e su quello storico, mina alla base l’equazione innovazione-benessere che è alla base di quel mito. Sul piano storico, mette in chiaro che quella civiltà che si riteneva progredita e vincente costituisce una strada sbagliata, che va radicalmente ripensata. Si pensava di costruire il “migliore dei mondi possibili”, un modello da esportare a tutte le culture, si deve ora frenare e cambiare direzione per evitare di cadere nel baratro del suicidio della specie. Cade la prospettiva lineare della storia, la certezza che l’oggi sia meglio di ieri e che il domani sarà ancora migliore; cade, soprattutto, l’illusione, alimentata da tale certezza, che i problemi che oggi non trovano soluzione saranno risolti domani, grazie alla scienza e alla tecnologia, che possono solo farci progredire.
Sul piano delle idee, cade l’opinione che tutto ciò che innova sia positivo (al contrario di ciò che conserva), che la vita delle persone non possa che migliorare grazie alle novità della tecnologia, che le conquiste del progresso siano un miglioramento in sé. Non si tratta, è chiaro, di rinunciare alle possibilità offerte dall’ingegno umano, ma di uscir fuori da fideistiche presunzioni, riacquistando il senso critico, la capacità di valutare in sé l’utilità delle innovazione, la consapevolezza che la direzione presa può esser ripensata. Il tema decrescita, infine, sfugge alle categorie dell’attuale politica. Come dimostra il più recente confronto elettorale, dove nessun partito ha inteso sostenere la necessità della decrescita e tutti, anzi, hanno cantato in coro a favore dello sviluppo economico, semmai rimproverando reciprocamente l’incapacità dello schieramento avversario di garantire un’adeguata crescita.6 Come vari altri temi, anche la decrescita conferma l’inutilità di affrontare i problemi della modernità ricorrendo a categorie politiche e culturali nate in altri contesti storici. E mostra, al contrario, la necessità di nuovi movimenti che, raccogliendo il meglio delle esperienze precedenti, sappiano affrontare coerentemente le nuove sfide. Antieconomicismo, una cultura dell’ecologia che non si preoccupa solo della salute umana ma intende “dar voce a chi non vota”, critica dell’idea di progresso e recupero di stili di vita tradizionali, anticonsumismo e sobrietà, comunitarismo, dono e reciprocità, trasversalità rispetto a destra e sinistra … il tema della decrescita è in linea con i valori e la cultura di Fare Verde. Ed è in linea con lo stile di Fare Verde. Che propone il fare, l’ecologia dei piccoli gesti, delle scelte vissute in prima persona, delle idee che diventano azioni. Perché prima che cambino le leggi o il sistema economico, dobbiamo cambiare noi stessi, il nostro immaginario, il modo di vita quotidiano. Da anni, del resto, operiamo per la decrescita. Soprattutto attraverso il volontariato, la cui attività non contribuisce alla crescita del PIL, ma si inserisce nella cultura del dono, dei rapporti non mercificati, del legame olistico con le altre forme di vita. L’ecologia di Fare Verde è fatta di scelte radicali, nelle idee e nelle azioni. Ci doniamo gratuitamente, non accettiamo sponsor né padrini, difendiamo non il nostro benessere ma la vita sulla Terra. Da 20 anni siamo l’associazione delle scelte controcorrenti. Ma solo queste scelte possono consentirci di costruire un diverso modello di civiltà. 6 La cosa non sorprende, in quanto tutti i partiti esistenti sono figli del produttivismo, sia nella versione maggioritaria liberal-capitalista, sia nei residui della versione social-comunista. Paradossali, per altro, le polemiche accese durante il dibattito sulla decrescita ospitato su Liberazione nell’estate 2005, dettate dall’adesione alle tesi antisviluppiste di intellettuali ritenuti di destra, come Cardini, Tarchi, Zarelli, Massimo Fini, che hanno portato Andrea Ricci, responsabile economico di Rifondazione, a denunciare il carattere reazionario e anti-illuminista delle tesi di Latouche. Una manifestazione di ottuso schematismo, che fa il paio con quanti, da destra, liquidano l’ecologia come una questione “di sinistra”.
è benessere spendere 1.400 euro all’anno in più per prodotti meno freschi? è stato calcolato che una famiglia di 4 persone può risparmiare più di 1.400 euro all’anno acquistando prodotti agricoli direttamente dai produttori invece che al supermercato. La “filiera corta” oltre a sostenere le economie locali, riduce le necessità di trasporto, conservazione, imballaggio ed il relativo impatto ambientale in termini di inquinamento, consumi energetici e produzione di rifiuti.
Dal vasetto di yogurt di Pallante, ad un vestito o alla cura del giardino, è possibile soddisfare le proprie esigenze anziché pagando, facendo da sé. Anche nella vita di tutti i giorni è possibile sostituire una parte delle merci che acquistiamo con beni che possiamo autoprodurre e scambiare nell’ambito di una economia del dono capace di valorizzare le relazioni umane. La differenza tra merci è beni, ben illustrata da Maurizio Pallante nel suo libro “La decrescita felice”, è fondamentale per prendere coscienza della capacità che abbiamo di affrancarci il più possibile dal mondo delle merci e dalla società dei consumi. Un bene non è necessariamente una merce: l’insalata del proprio orto, destinata ad essere utilizzata in famiglia, è un bene, ma non è una merce poichè non viene scambiata con denaro. Le merci, a differenza dei beni, sono coerenti con una logica di crescita continua dei consumi: mentre non ha senso produrre più insalata di quanta io ne possa consumare, ha senso produrre più insalata se è destinata ad essere scambiata con denaro, cioè venduta sul mercato. Le merci che possiamo sostituire con beni sono più di quante possiamo immaginare: dal cibo autoprodotto invece che acquistato al supermercato, alla cura di figli e anziani affidata a membri della famiglia invece cha a badanti e bambinaie.
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Fare Verde dal 1986 è l’associazione delle scelte difficili. Quelle che costano caro. è il nostro metodo. Perché l’ambiente non ha bisogno di dichiarazioni, ma di impegno concreto. Da subito. Da tutti. Fotocopia e distribuisci questo volantino. Aiutaci a trovare altre persone disposte ad aiutarci senza sborsare un euro in più delle proprie tasse.
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ci battiamo per il dialogo interetnico in kosovo ci battiamo perchè sia superato l’odio tra serbi e albanesi in Kosovo. Lavorando sulle nuove generazioni. Per una più equa ripartizione delle risorse, promuoviamo un commercio internazionale equo e solidale.
Fare Verde è una ONLUS (Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale) ai sensi del del D.Lgs. n° 460/97 ed è Associazione di Protezione Ambientale riconosciuta dal Ministero dell’Ambiente ai sensi dell’art.13 della Legge 349/86. Le attività di Fare Verde le trovi on line: digita www.fareverde.it La Sede Nazionale è a Roma in via Iside 8 - Tel. e Fax 06 700 5726 - email: info@fareverde.it
ad agosto siamo ai campi estivi antincendio in prima persona ci impegnamo per difendere i nostri boschi dalla piaga degli incendi boschivi. Intervenendo direttamente sul fuoco.
puliamo il mare d’inverno puliamo le spiagge a gennaio, quando non servono ai bagnanti e il problema dell’inquinamento del mare non fa audience...
promuoviamo il compostaggio dei rifiuti “umidi” perchè la frazione organica, nonostante sia in termini quantitativi la più importante, è l’unica non sponsorizzata da grandi gruppi industriali.
xFare+verde: la nostra rivista, dal 1995 senza pubblicità difendiamo l’indipendenza editoriale della nostra rivista bimestrale scegliendo di non avere neanche una riga di pubblicità. E ci riusciamo. Dal 1995. Ininterrottamente.
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proponiamo il vuoto a rendere sugli imballaggi per ridurre i rifiuti, nonostante lo strapotere economico e politico delle lobby degli imballaggi e degli inceneritori.
siamo tutti volontari siamo forse l’unica Associazione nazionale interamente basata sul volontariato. Dal Presidente al semplice iscritto siamo tutti volontari. E’ una scelta culturale di impegno disinteressato per l’ambiente, ma è anche un modo per evitare che il denaro e l’economia siano l’unico orizzonte della nostra vita.
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insieme in un movimento per la decrescita felice La decrescita è elogio dell’ozio, della lentezza e della durata; rispetto del passato; consapevolezza che non c’è progresso senza conservazione; indifferenza alle mode e all’effimero; attingere al sapere della tradizione; non identificare il nuovo col meglio, il vecchio col sorpassato, il progresso con una sequenza di cesure, la conservazione con la chiusura mentale; non chiamare consumatori gli acquirenti, perché lo scopo dell’acquistare non è il consumo ma l’uso; distinguere la qualità dalla quantità; desiderare la gioia e non il divertimento; valorizzare la dimensione spirituale e affettiva; collaborare invece di competere; sostituire il fare finalizzato a fare sempre di più con un fare bene finalizzato alla contemplazione. La decrescita è la possibilità di realizzare un nuovo Rinascimento, che liberi le persone dal ruolo di strumenti della crescita economica e ri-collochi l’economia nel suo ruolo di gestione della casa comune a tutte le specie viventi in modo che tutti i suoi inquilini possano viverci al meglio. Maurizio Pallante. di massimo de maio
Fare Verde condivide le riflessioni e le proposte del Movimento per la Decrescita Felice. Per informazioni: www.decrescitafelice.it www.fareverde.it
Si può fare con meno. E vivere meglio. Siamo giunti a un tale livello di spreco che qualsiasi attività umana può essere svolta con un minore consumo di risorse naturali: abitare, mangiare, vestirsi, pulire, muoversi, lavorare. In molti si sono già accorti che vivere riducendo i propri consumi può essere una soluzione concreta per migliorare la qualità della vita. Per sfuggire alla logica delle merci e del consumo, molti hanno cominciato ad autoprodurre il più possibile: pane, yogurt, formaggio, marmellate, conserve. È un problema di cultura e di valori: ogni giorno ci inducono a credere che il nostro benessere è legato alla quantità di merci che riusciamo a consumare. Così lavoriamo a ritmi serrati per pagare molti consumi inutili e dannosi. Cambiare stile di vita è possibile e ci rende più felici, sereni, sorridenti. In molti lo hanno già fatto. Perchè non provarci? Sono scelte che valorizzano le relazioni umane. Perchè non condividerle?
Azioni concrete per decrescere a partire dal proprio quartiere, dalla propria città. Realizzare una serie di azioni amministrative finalizzate al contenimento dei consumi è più semplice e conveniente di quanto si possa immaginare. Soprattutto se si parte dagli ambiti più vicini ai cittadini: la città o il quartiere. Un Movimento per la Decrescita Felice può proporre un programma politico agli amministratori locali: una filosofia di intervento, ma anche una serie di azioni concrete. Dall’efficienza energetica del patrimonio immobiliare pubblico ottenuta con contratti ESCO (Energy Service COmpany) ai semafori a led, dall’incentivazione alle famiglie che scelgono di usare pannolini per bambini lavabili alla istituzione di orti urbani, sono decine le azioni amministrative che possono essere realizzate per incamminarsi verso la Decrescita Felice.
Per consumare meno ci vuole tanta tecnologia. Decrescere non significa tornare all’età della pietra, ma semplicemente utilizzare con maggiore efficienza risorse disponibili in quantità limitate. Per aumentare l’efficienza con la quale usiamo acqua, energia, suolo, occorrono tecnologie più intelligenti di quelle attuali. Per costruire una casa capace di essere confortevole pur riducendo dell’80% i consumi per il riscaldamento ci vuole più tecnologia, più intelligenza, più inventiva. Allo stesso modo occorrono tecnologia, creatività ed inventiva per mettere a punto cogeneratori capaci di sfruttare fino al 95% l’energia contenuta nei combustibili (una centrale elettrica convenzionale li sfrutta per il 35%, il resto viene sprecato come calore!). Ma la tecnologia deve cambiare obiettivo: non essere più al servizio del continuo aumento della capacità produttiva e dei consumi, bensì dell’uso parsimonioso delle risorse.
Ridurre i consumi e aumentare l’occupazione? È un’impresa possibile. Sono già migliaia le imprese che creano occupazione contribuendo a ridurre, a volte drasticamente, i nostri consumi. Sono ESCO (Energy Service COmpany) che realizzano interventi di efficienza energetica e guadagnano dal risparmio ottenuto in bolletta, aziende che producono e installano pannelli solari o che realizzano coibentazioni in case nuove o da ristrutturare oppure che vendono detersivi alla spina o soluzioni per il risparmio idrico. Con un Movimento per la Decrescita Felice è possibile mettere in rete gli imprenditori che producono, installano, distribuiscono prodotti e servizi ideati per ridurre dei consumi. Per creare sinergie, Associazioni Temporanee di Imprese, ma anche per promuovere la loro offerta imprenditoriale presso chi ha già scelto di vivere meglio consumando meno. Insieme possiamo costruire una economia nuova basata sulla riduzione dei consumi. L’unica capace di futuro.