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Parole di fotografia
Tre contadini che vanno a ballare, di Richard Powers; La nave di Teseo, 2020; 528 pagine 15x21,5cm; 16,00 euro.
Tre contadini che vanno a ballare..., di Richard Powers; Bollati Boringhieri, 2004; 376 pagine 14x22cm.
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Tre contadini che vanno a ballare..., di Richard Powers; Bollati Boringhieri, 1991; 376 pagine 14x22cm.
di Antonio Bordoni
Inizialmente pubblicato da Bollati Boringhieri, in edizione italiana, nel 1991, Tre contadini che vanno a ballare..., di Richard Powers, è un affascinante romanzo la cui narrazione -come dovrebbero aver intuito tutti coloro i quali frequentano la Fotografia- ruota attorno la celebre fotografia di August Sander, accreditata al Primo maggio 1914; nello spirito avviato lo scorso settembre, se vogliamo, immagine iconica del qualificato e autorevole autore tedesco. Ovviamente, questa fotografia è stata realizzata nell’ambito del progetto titanico e incompiuto Uomini del XX secolo, con il quale August Sander (1876-1964) intese catalogare gli archetipi della società tedesca di inizio Novecento [riquadro a pagina 44].
In traduzione dall’originario Three Farmers on They Way to a Dance, del 1985, il romanzo ha avuto una seconda edizione, sempre Bollati Boringhieri, del 2004: la prima copertina, solo evocativa, è stata sostituita da una messa in pagina con la fotografia completa, non soltanto richiamata. Ora, in stretto ordine temporale, la medesima traduzione di Luigi Schenoni è ulteriormente riproposta da La nave di Teseo (giugno 2020), accreditata casa editrice di narrativa, saggistica e poesia, fondata nel novembre 2015 da Umberto Eco, Elisabetta Sgarbi, Mario Andreose, Eugenio Lio e altri scrittori italiani.
Per certi versi, alcuni dei quali potremmo anche condividere, la copertina di questa versione di Tre contadini che vanno a ballare ha fatto inorridire i puristi della Fotografia, che vorrebbero che le opere della sua Storia (almeno queste) non venissero reinterpretate secondo princìpi temporanei di comodo. Ovvero, per quanto richieste dalla società dello spettacolo, sia la colorazione sleale e ingannevole della fotografia originaria di August Sander -peraltro correttamente riproposta all’interno-, sia l’invenzione del luogo sono fuorvianti, anche se fanno più bella figura nelle esposizioni in libreria. [Tra parentesi, questa attuale azione grafica ha un proprio doppio precedente ancora più inquietante nella proditoria colorazione dell’altrettanto iconica, sia dell’autore sia del costume sociale, New York: immigrati italiani arrivano a Ellis Island, di Lewis W. Hine, del 1905, realizzata in tempi strettamente conseguenti dal Magazine del Corriere della Sera, del Primo maggio 2008, e da La Repubblica, del successivo dieci giugno]. Una volta ancora, oggi come ieri l’altro, non indichiamo alcun colpevole per questo, perché -in fondo- siamo tutti solo vittime.
TRE CONTADINI Prologo a parte, spruzzato con un poco di intolleranza e integralismo, la struttura narrativa del romanzo Tre contadini che vanno a ballare (Tre contadini che vanno a ballare..., in edizione Bollati Boringhieri), dello statunitense Richard Powers (1957), è oltremodo affascinante e coinvolgente, soprattutto per chi, come noi, frequenta con convinzione e partecipazione la Fotografia e i propri derivati. L’idea di fondo è intelligente e acuta.
Infatti, in un concatenarsi di personaggi di diversa estrazione, differente età, cittadinanza e periodo storico, protagonista è una fotografia (per noi la Fotografia) di August Sander, realizzata il Primo maggio 1914: per l’appunto, tre contadini vestiti a festa (i fratelli Kinder?), che stanno andando a una celebrazione campestre nel Westerwald, nella provincia renana della Prussia. Addetti a parte, è comunque una fotografia famosa, tra le prime del progetto -già menzionato- degli archetipi tedeschi del Ventesimo secolo; nella propria oggettività (apparente), inquadratura e composizione artistiche nella propria essenzialità.
In attuale nuova edizione La nave di Teseo, Tre contadini che vanno a ballare, dello statunitense Richard Powers, è un romanzo affascinante e coinvolgente. Soprattutto lo è per chi si occupa di Fotografia: il richiamo a una celebre icona del Novecento è sufficientemente esplicito. Dalla fotografia di August Sander si incamminano tre storie e cinque vite, che si allungano avanti e avanti nel Tempo. Con l’occasione, altri tre richiami sulla fotografia ispiratrice, con ulteriore richiamo in più (16 photos que je n’ai pas prises): Loro due in quella foto, della francese Hélène Gestern; Camera oscura, secondo capitolo dell’autobiografia del tedesco Günter Grass; e Assassino del padre. Il caso del fotografo Philipp Halsmann (?), dell’austriaco Martin Pollack. Insomma... missione della Fotografia
Il romanzo di Richard Powers si articola su personaggi, tempi e luoghi diversi, in continuo intreccio. Tutto prende avvio dal momento in cui, poco prima della Grande guerra, August Sander incontra i tre contadini e li invita a posare per lui. Da qui, si sbroglia una fitta ragnatela narrativa, ispirata dalla fantasia individuale (la sua!), che nasce analizzando una fotografia di tanto e tale “realismo” visivo. Da cui, oltre la stessa Fotografia, protagonisti della vicenda sono i destini di quei tre giovani, Peter, Hubert e Adolphe, i casi della Vita che incontreranno, i loro intensi sguardi.
«Tre uomini camminano lungo una strada fangosa, il pomeriggio tardi, due ovviamente giovani, l’altro di età imprecisata. Camminano senza fretta. Uno canta: “Carote e cipolle, sedano e patate. Che magro pranzo! Se mia madre avesse messo in tavola un po’ di carne avrei anche potuto non andarmene mai di casa”».
L’autore Richard Powers dà fiato alla propria fantasia. Dopo aver stabilito i caratteri dei tre, ne disegna le sorti, ipotizzandole secondo propri fini: Peter si trasferisce a Parigi, dove diventa giornalista; Hubert e Adolphe muoiono soldati nella Grande guerra -la Prima, come avremmo conteggiato poi-.
In tempi a seguire, o quasi, si dischiudono altre vicende collegate alla fotografia; in particolare, due statunitensi. La prima riguarda lo stesso scrittore, che incontra la fotografia dei tre contadini in un museo di Detroit, e ne rimane profondamente affascinato, tanto da indurlo a scoprire le origini di quel ritratto, così realistico e così inconsueto. La seconda, in parallelo e simultaneità alla prima, che assume tratti più concreti e fruttuosi, ai fini narrativi, riguarda il redattore di una rivista tecnica, che trova una copia della fotografia tra i ricordi di famiglia; il che lo spinge a ricostruire il passato, per capire cosa lo unisca a quei tre uomini. In sostanza, tre storie, cinque vite, che si snodano attraverso i grandi eventi del Ventesimo secolo e che, alla fine, convergono tra loro rivelando i nessi sorprendenti che possono esistere tra il mito, la grande Storia e le vicende di ognuno di noi. Da cui, stante queste solide premesse, ne consegue che, oltre l’apparenza narrativa da tutti fruibile, Tre contadini che vanno a ballare assume e svolge un ruolo superiore, perché altro. In una avvincente cornice di situazioni, ambienti, personalità distinte e sapori di Vita, sottolinea e ribadisce come certa Fotografia assuma e assolva l’incarico e obbligo di rappresentare un Tempo sociale. Attenzione, in attuale epoca social, con le sue impressionanti cifre di figure postate ogni giorno sulla Rete, non intendiamo attribuire questi valori e tali intenzioni a tutto quanto è banalmente ricondotto al minimo comun denominatore di “fotografia”, ma li limitiamo a quella che noi abbiamo sempre considerato Fotografia, che lo è e che non ha nulla da condividere con altre visualizzazioni quantitativamente esponenziali. Ovvero... August Sander, Jacob A. Riis, Lewis W. Hine, Dorothea Lange, Richard Avedon, Gian Paolo Barbieri, Caio Garrubba, Walker Evans, Robert Doisneau, Oliviero Toscani, Henri Cartier-Bresson, Robert Frank, Albert Renger-Patzsch... LORO DUE (?) A questo punto, l’occasione dell’attuale riedizione di Tre contadini che vanno a ballare, di Richard Powers, impone (?) di considerare un altro romanzo altrettanto ispirato da una Fotografia, per quanto anonima (a dispetto dell’inganno visivo della copertina italiana, in una edizione che ha modificato a proprio comodo il titolo originario). Primo libro della francese Hélène Gestern, pubblicato da una piccola e raffinata casa editrice parigina, Arléa, Eux sur la photo, del 2011, è stato insignito di
Loro due in quella foto, di Hélène Gestern; Edizioni Frassinelli, 2012; 250 pagine 14x21cm; 18,50 euro.
Eux sur la photo, di Hélène Gestern; Arléa, 2011; 300 pagine 11,2x18,1cm; 10,00 euro.
CASELLARIO INCOMPIUTO
Quando si dice un lavoro senza fine: August Sander (18761964), uno dei più grandi ritrattisti del Novecento, ha dedicato tutta la sua vita alla realizzazione di un enorme progetto intitolato Uomini del XX secolo, con la catalogazione dei diversi “tipi” / archetipi del popolo tedesco di inizio secolo. Ordinati per ceto di appartenenza, ritratti in posa, lo sguardo diretto alla macchina fotografica, i più poveri vestiti con l’abito buono, i soggetti vengono fotografati sia in studio sia in esterni, con una ambientazione ridotta al minimo, e spesso addirittura inesistente, perché ciò che all’autore importa cogliere è l’Uomo fotografato, il suo sguardo, la sua posa, senza ridurre la fotografia a una mera descrizione della sua attività o della sua provenienza. La bravura di August Sander sta proprio nel riuscire a esprimere tutto questo attraverso la semplice e scarna ripresa frontale.
Maturato nel 1910, il progetto di Uomini del XX secolo avrebbe dovuto articolarsi nella pubblicazione finale di quarantacinque portfolio di dodici fotografie ciascuno (per cinquecentoquaranta immagini complessive), ma purtroppo è rimasto incompiuto. A osteggiarlo è stato il governo nazista, che considerò August Sander un sovversivo e nemico della politica del Reich, anche perché -nella propria catalogazione di ritratti mostra l’autentico volto del popolo tedesco, sbugiardando il mito della pura razza ariana, atletica, forte e vincente. Il primo e unico volume del progetto Uomini del XX secolo pubblicato da August Sander, Antlitz der Zeit (Volti del tempo), venne censurato dal ministero della Cultura nazista nel 1934: a cinque anni dall’uscita, ne è ordinata la distruzione di tutti i cliché tipografici e delle copie rimaste in magazzino.
Ma, paradossalmente, non è il nazismo la causa della distruzione di trentamila negativi sui quarantamila totali realizzati da August Sander: sopravvissuti a due guerre mondiali e alla censura, questi vengono persi, nel 1946, in un incendio accidentalmente provocato da due ladri penetrati in casa del fotografo.
L’insieme dei ritratti che è arrivato fino a noi, quindi, non è che una minima parte della straordinaria produzione di August Sander, che fino alla morte si è impegnato in questa impresa titanica, troppo vasta per chiunque, e che probabilmente non avrebbe mai visto la fine, neanche con condizioni politiche più favorevoli.
Tra le tante monografie pubblicate in tutto il mondo, segnaliamo un’edizione italiana Federico Motta, del 1991: Uomini del XX secolo, traduzione dell’edizione originaria tedesca del 1980, di Schirmer/Mosel. Qui è raccolta la summa del lavoro di August Sander, pazientemente ricostruita da Ulrich Keller e da Gunther Sander, figlio dell’autore, a partire dagli schizzi e dai negativi sopravvissuti.
Uomini del XX secolo, fotografie di August Sander; a cura di Gunther Sander, testo di Ulrich Keller; Federico Motta Editore, 1991; 560 pagine 23,5x30cm, cartonato con sovraccoperta, in cofanetto. Uomini del XX secolo, fotografie di August Sander; Abscondita, 2016; 222 pagine 20x28,5cm; 38,00 euro. Riedizione moderna dell’originario Antlitz der Zeit (Volti del tempo), di August Sander, del 1929; Schirmer/Mosel, 1976; 144 pagine 14,5x19,2cm. autorevoli premi letterari: Prix RenéFallet 2012; Prix Coup de coeur des lycéens 2012, della Fondation Prince Pierre de Monaco; Prix du Premier Roman de l’Université d’Artois 2012; Prix de l’Office central des Bibliothèques 2012. E, poi, anche finalista al Prix du roman Fnac 2011.
In italiano, Loro due in quella foto è stato pubblicato dalle Edizioni Frassinelli, nel 2012, con copertina evocativa di una fotografia di Henri Cartier-Bresson, Couple s’embrassant l’extérieur cafe (Coppia che si bacia fuori dal caffè), del 1969, che giustifica la quantificazione “due”, proditoriamente inserita nel titolo. E che, forse, potrebbe aver sollecitato l’attenzione di coloro i quali sono a conoscenza del cammino della Storia della Fotografia. Però!
Però, l’edizione originaria francese non ha alcuna fotografia in copertina e lascia libero il pensiero evocativo del lettore (mentre edizioni in altre lingue sono spesso/sempre illustrate con fotografie sostanziosamente anonime). Peraltro, poi, il romanzo esordisce con una evocazione perentoria: «La fotografia ha fissato per sempre tre figure in pieno sole, due uomini e una donna. Sono tutti vestiti di bianco e tengono in mano una racchetta. La ragazza sta in mezzo: l’uomo sulla sua destra, piuttosto alto, è chino su di lei, come se stesse per dirle qualcosa. L’altro, alla sua sinistra, si tiene un po’ in disparte, appoggiato alla racchetta, una gamba piegata, in una posa umoristica alla Charlot. Sembrano tutti e tre sulla trentina, ma il più alto forse è un po’ più vecchio. Il paesaggio sullo sfondo, in parte coperto dagli edifici di un impianto sportivo, ha qualcosa di alpestre: una montagna, con la cima ancora imbiancata, chiude la prospettiva, dando alla scena un’area irreale da cartolina».
Insomma, il romanzo non ha nulla a che vedere, né spartire, con la fotografia di Henri Cartier-Bresson visualizzata sulla copertina italiana. È un romanzo ispirato da e a una fotografia privata, forse inesistente, che l’autrice Hélène Gestern ben descrive in avvio di narrazione, scandendo chiaramente i termini della questione... se vogliamo dirla così. [Del resto, spesso, la narrativa francese risponde a questi canoni formali: subito precisa i confini entro i quali si sta per muovere. Da e con Georges Simenon, in Turista di banane: «Erano ormai trentasette giorni che l’ÎledeRé aveva lasciato il porto di Marsiglia. Alla partenza si gelava, e uscendo
da Gibilterra tutti i passeggeri, tranne due, si erano sentiti male. Ma poi, dopo essersi sorbiti per settimane i cavalloni dell’Atlantico, si erano dimenati fino a perdere il fiato nei locali da ballo della Guadalupa [...]»; in venti righe sono contenute “informazioni narrative” da rimanere stupiti].
In ogni caso, in edizioni Arléa successive alla prima, la copertina senza illustrazione alcuna si completa con una fascetta esplicativa: «La photographie a fixé pour toujours trois silhouettes en plein soleil... / La fotografia ha fissato per sempre tre sagome in pieno sole...». Comunque, identificazioni (false) a parte, qui e subito, va rilevato come e quanto quello della fotografia e del potere che esercita sulla memoria sia uno dei temi ricorrenti della letteratura di Hélène Gestern.
A questo proposito, va richiamato anche e ancora il romanzo Portrait d’après blessure (alla lettera, Ritratto dopo l’infortunio), nel quale la fotografia di una evacuazione dopo un attentato nella metropolitana parigina condiziona due esistenze: storia di due persone alle prese con il potere della fotografia, sia che parli il linguaggio della dignità o il linguaggio del disastro.
Nello specifico di Loro due in quella foto, registriamo ancora l’incipit italiano, in risvolto di copertina, che recita: A volte, una fotografia è tutto ciò che resta di un amore [Baci Perugina? Biscotto della fortuna cinese?]. Ed è questo, in semplificazione da tutti raggiungibile, il succo della trama, indipendentemente dalle nostre considerazioni specifiche sulla Fotografia, qui in ispirazione e invocazione non solo narrative.
A partire da due unici indizi, rappresentati da due nomi e una fotografia, trovata nelle carte di famiglia, che mostra una giovane spensierata circondata da due uomini sconosciuti -come da descrizione già riportata-, Hélène cerca la verità su sua madre, morta quando aveva solo tre anni. In risposta a un annuncio pubblicato su un giornale, come un messaggio in bottiglia affidato al mare, entra in contatto con Stéphane, scienziato che vive in Inghilterra, che nella fotografia ha riconosciuto suo padre.
Da qui prende avvio una lunga corrispondenza, e -poco a poco- le storie si ricompongono. Da cui, riflessione sui segreti di famiglia, sulla Memoria e sui Ricordi. Infatti, non basta scoprire un enigma del passato, quello che conta è quanto riusciamo a comprendere e quanto accettiamo di cambiare rispetto ciò che siamo stati finora, alla luce di rivelazioni che ci raggiungono da lontano, indietro e indietro nel Tempo. AUTOBIOGRAFIA A questo punto, rimanendo in tema “fotografico”, richiamato anche nei riquadri complementari che accompagnano l’odierno intervento redazionale, approdiamo all’intrigante Camera oscura, dell’esimio scrittore tedesco Günter Grass (Premio Nobel per la Letteratura, nel 1999), in Italia dall’autunno 2009, che può aver attirato l’attenzione di coloro i quali si occupano e/o interessano di Fotografia per ragioni e cause esplicite, a tutti noi note: il titolo, anzitutto, che evoca un retrogusto fotografico, peraltro accentuato dall’inequivocabile illustrazione di copertina.
Proprio l’Agfa-Box evocata in copertina, in un disegno in punta di penna dello stesso romanziere tedesco, che ha realizzato anche le tante illustrazioni interne al libro, che danno avvio e concludono i singoli capitoli, è il filo conduttore dell’intero romanzo, che tale non è a tutti gli effetti.
Il titolo italiano Camera oscura, adottato dall’autorevole editore Einaudi, è ereditato dall’originario tedesco, con doverosa semplificazione fonetica che ha tenuto conto della nostra mancanza di identificazione immediata e certa con l’apparecchio fotografico che qui funziona da narratore; per l’appunto: Die Box. Dunkelkammergeschichten, alla lettera La Box. Racconti dalla camera oscura (o giù di lì).
Questo libro è la seconda parte dell’autobiografia del controverso Günter Grass. Temporalmente, è immediatamente successiva a Sbucciando la cipolla, pubblicata da Einaudi nella stessa prestigiosa collana dei Supercoralli. Come rivelano le schede ufficiali di presentazione, nella prima parte della autobiografia, Günter Grass ha raccontato gli anni della sua giovinezza, dalla guerra mondiale e l’arruolamento nelle Waffen-SS fino ai suoi esordi e all’affermazione come scrittore: ribadiamo, premio Nobel per la letteratura, nel 1999.
Con Camera oscura, Günter Grass ha completato il viaggio, ripercorrendo le vicende della propria famiglia nell’ultimo mezzo secolo. Lo ha fatto dando la parola agli otto figli, di tre mogli diverse e successive, che hanno aderito con poco entusiasmo (accettando solo per affetto e per non deludere il padre).
Camera oscura, di Günter Grass; dall’originario Die Box. Dunkelkammergeschichten; Einaudi - Supercoralli, 2009; 200 pagine 13,5x21,5cm, cartonato con sovraccoperta; 18,00 euro.
Alle presentazioni di Camera oscura / Die Box, lo scrittore tedesco Günter Gras si è sempre accompagnato con un paio di vetuste AgfaBox, le cui magiche evocazioni fotografiche rappresentano il motivo conduttore dei ricordi.
Assassino del padre (Il caso del fotografo Philipp Halsmann), di Martin Pollack; Bollati Boringhieri, 2009; 248 pagine 13,5x22cm; 22,00 euro [dall’originario Anklage Vatermord. Der Fall Philipp Halsmann (Paul Zsolnay Verlag, 2002), che in copertina dà visibilità all’incidente in montagna e non alla personalità successiva dell’imputato]. Comunque: sarebbe stato più corretto certificare “Il caso di Philipp Halsmann”, o “Il caso del fotografo Philippe Halsman”.
La Fotografia unisce i loro racconti. Sono le fotografie realizzate da Maria Rama, detta “DàiscattaMariechen” (dall’originario “Knips-mal-Mariechen”), con una vetusta Agfa-Box, la cui magica visione mostra insieme passato, presente e futuro della famiglia, e i desideri di ognuno.
Sul periodico tedesco Focus, Rainer Schmitz ha annotato: «Un libro meraviglioso e divertente. Il trucco di specchiarsi negli occhi dei figli e di collocarsi, grazie a una magica camera oscura, in una posizione privilegiata, è un’idea brillante e realizzata in maniera raffinata. Il libro migliore di Günter Grass da molti anni a questa parte».
In un’intervista rilasciata per la pubblicazione in Germania del testo originario, lo scrittore, nato a Danzica, nel 1927, ha commentato la genesi del libro: «Quando ricordiamo, ci troviamo di fronte a un confuso insieme di frammenti di memoria, e quando poi cerchiamo di raccontare quello che ricordiamo, già facciamo una scelta, ha inizio un’estraniazione, forse anche un mascheramento di ciò che ricordiamo. Quando ci si propone di scrivere un’autobiografia bisogna tenere presente questa ambiguità. Per Sbucciando la cipolla l’ho fatto. Affrontando gli anni giovanili, mi sembrava di avere sufficiente distacco.
«Sbucciando la cipolla si conclude con la pubblicazione di Il tamburo di latta [Die Blechtrommel, 1959]. Intanto, ero diventato padre, la famiglia cresceva, a volte in modo confuso, io scrivevo un libro dopo l’altro, ero stato coinvolto dalla politica, erano successe tante altre cose. Riflettere e scrivere di questo, quindi anche dei miei libri, non mi interessava minimamente.
«Ma gettare uno sguardo su me stesso e su quello che facevo, ad esempio in questo caso dal punto di vista dei miei figli, anche se sulla scorta di una mia invenzione, questo sì mi interessava. Il libro è nato così».
Sulla reazione dei figli di fronte al libro, ha dichiarato: «La seconda versione dattiloscritta l’ho mandata ai ragazzi. Le reazioni sono state critiche, in certi casi estremamente critiche. Ci sono state discussioni anche aspre, durante le quali ho cercato di stare ad ascoltare, il che in parte mi è riuscito. E quando mi convincevano, il che è avvenuto spesso, ho lasciato via dei fatti, oppure li ho descritti con maggiore precisione; però, sempre insistendo sul fatto che se la loro vita è parte della mia, la mia è parte della loro, e che nel momento in cui affronto temi autobiografici, il che è un mio buon diritto, non posso tacere i figli, non posso tacerne la pluralità, non posso non parlare dello sfondo da cui hanno avuto origine. Da questo punto di vista, la terza e la quarta stesura del libro sono anche esito della discussione con i ragazzi. Ma i nove incontri li ho inventati io, perché, come ho già avuto modo di dire, solo quando mento io riesco a essere preciso».
Ovviamente, è una (auto)biografia tedesca, che ruota attorno vicende nazionali, molte delle quali proiettatesi sul palcoscenico planetario. Ma non tutte.
Contenuto letterario a parte (Rainer Schmitz: «Il libro migliore di Günter Grass da molti anni»), Camera oscura rivela un proprio retrogusto fotografico. L’abbiamo già rilevato: le fotografie familiari scattate con una Agfa-Box sottolineano lo scorrere del Tempo, allungano il passato sul presente, introducono il futuro.
Del resto, guardiamoci negli occhi, non è forse questo il senso della Fotografia? Non pensiamo soltanto alla Fotografia che scrive la Storia, ma anche -e qui soprattutto- a quella fantastica Fotoricordo che racconta la Vita nel proprio svolgersi, giorno dopo giorno. La Fotografia può farlo; forse, deve farlo. Fin dalle proprie origini, e nella sua lunga evoluzione espressiva, la Fotografia offre Tempo, che arricchisce il cuore, la mente, i sentimenti. Eccolo qui il concetto della Fotografia che supera l’usura degli anni e che si arricchisce di questa.
L’insieme delle Fotoricordo è una raccolta di attimi isolati dal contesto dell’esistenza, che finiscono per rappresentarla come poche parole potrebbero fare. Dunque, dobbiamo essere grati a queste immagini che fanno entrare il mondo nella nostra vita quotidiana. Privilegiati dalla sua visione, possiamo osservare l’esistenza attraverso rappresentazioni realizzate con il cuore.
Per capirla. ASSASSINO / PARRICIDA? In traduzione italiana Assassino del padre, in edizione Bollati Boringhieri, del 2009, è la ricostruzione e resoconto del caso giudiziario che ha coinvolto il giovane Philipp Halsmann nell’autunno 1928, in Tirolo (Austria). Lunedì dieci settembre, suo padre Morduch Halsmann muore, precipitando durante una gita in montagna in compagnia di Philipp,
unico presente al fatto, presto accusato di parricidio, in mancanza / assenza di altre ipotesi, che non quella dell’incidente senza altre responsabilità.
A seguito di un processo controverso, infarcito di antisemitismo, Philipp Halsmann fu condannato in prima istanza a dieci anni di carcere duro, aggravato da una giornata di digiuno ogni anno; in appello, si scese a quattro anni di carcere duro, per reato di omicidio con dolo, alleggerito da circostanze attenuanti. Una via di mezzo compromissoria, che accontentò tutti e nessuno: pena mite, se Philipp Halsmann è stato un parricida; severa e ingiusta, se era innocente. In ogni caso, fu graziato ed espulso dall’Austria.
Per la propria ricostruzione romanzata, l’autore del racconto, l’austriaco Martin Pollack, si è basato sulla sistematica raccolta e decifrazione di documenti dell’epoca; non si esprime mai esplicitamente, non prende posizione, non emette sentenze. Di certo, c’è solo che le circostanze della morte di Morduch Halsmann, dentista a Riga, in Lettonia, sono state quantomeno equivoche, che il figlio Philipp non fece nulla per screditarsi, che la sua posizione è inquietante e che, comunque, il clima politico e sociale dell’epoca e del luogo sono ostili a un accusato di religione ebraica. Si può pensare a un caso Dreyfus austriaco; sono incombenti i fantasmi del nascente nazismo.
Sorvolando sulle incognite del testo, il titolo italiano non lascia dubbi: rispetto l’originario tedesco Anklage Vatermord. Der Fall Philipp Halsmann (Accusa di parricidio. Il caso Philipp Halsmann), pubblicato dal viennese Paul Zsolnay Verlag, nel 2002, Assassino del padre non esprime una circostanza, ma pronuncia una sentenza.
Ma non è così semplice, né semplificabile. In una atmosfera avvelenata, come è stata la fine degli anni Venti in Tirolo, regione lontana mille miglia dalla capitale Vienna, ammesso che fosse possibile identificarla, la verità si è nascosta tra le pieghe di molteplici equilibri e insormontabili controversie sociali e politiche, delle quali il giovane Philipp Halsmann ha pagato il conto, magari appesantito da sostanziosi interessi.
In ogni caso, Assassino del padre è uno di quei libri che si possono ancora leggere; e lo dovrebbero fare coloro i quali si occupano di Fotografia, che su queste pagine vengono a contatto diretto con una vicenda che riguarda uno dei protagonisti dell’espressività fotografica del secondo Novecento, autore di centouno copertine di Life, con il nome di Philippe Halsman, una volta emigrato negli Stati Uniti.
In nota parallela e aggiuntiva, ricordiamo che questo testo, questa ricostruzione, ha fornito solide basi per la sceneggiatura del film-biografia Jump!, di Joshua Sinclair, del 2008. Nel proprio svolgimento, l’intento principale, primario ed esplicito del film è quello di sottolineare il clima antisemita che si è affacciato nell’Austria del 1928, sull’onda lunga e malevola del nazismo tedesco, che si sarebbe imposto di lì a cinque anni, con l’avvento al potere di Adolf Hitler (1933), che comunque aveva già espresso le sue famigerate idee e opinioni riguardo le proprie intenzioni politiche: con conseguente inclusione della stessa Austria nella “Grande Germania”, con l’Anschluss, del 1938. Così che il pur gradevole film si perde tra le pieghe di tanti intrecci, fino a non metterne in risalto alcuno.
La rievocazione sceneggiata è adeguatamente realistica, anche se retrodata alla primavera 1954, ciò che è avvenuto nella tarda estate 1959, con Marilyn Monroe che salta su se stessa (per la fantastica serie dei salti, appunto jump, che hanno reso famoso Philippe Halsman, che li ha fatti eseguire a una consistente quantità e qualità di personaggi pubblici): copertina di Life del 9 novembre 1959. Dunque, il film inizia e si conclude con questo set, sul quale si presenta una giornalista del New York Times, alla quale la sorella del fotografo racconta del padre ucciso e dell’accusa a Philipp, ormai Philippe.
Tema dell’intervista sono proprio i salti, da presentare al pubblico del quotidiano: per far conoscere l’«immigrato che è passato dalla povertà a un attico del Chrysler Building», uno dei simboli di Manhattan; il fotografo che «ha realizzato venti copertine di Vogue, dodici di Marie Claire e settantacinque di Life [che diventeranno centouno]», il fotografo «che ha fatto saltare il vicepresidente Nixon e il duca di Windsor [raccolti nella monografia Jump Book, in edizione Martiniere BL, del 2015]». Perché i salti?: «Perché la liberazione del salto, libera i nostri istinti [...]; sono come uno strizzacervelli della Kodak. Un estroverso apre le braccia, un introverso salta con attenzione... quando cadi, sei solo... sei un acrobata che vola senza rete».
Missione della Fotografia. ■ ■
Fotografo e videomaker fuori dagli schemi e oltre le righe, il francese Benoît Grimalt ha realizzato una monografia “fotografica” affascinante, perché intrigante. Sulle pagine del delizioso volumetto 16 photos que je n’ai pas prises (“volumetto” solo per dimensioni fisiche: quaranta pagine 15x20cm) ha raccolto sedici disegni che mantengono la promessa espressa nel titolo: Fotografie che non ho scattato.
«Spesso, mi chiedono perché, come fotografo, non vado sempre in giro con una macchina fotografica sotto il braccio. Di solito, rispondo che i registi non escono con le loro telecamere e gli idraulici non vanno al ristorante con la loro cassetta degli attrezzi».
Tutto qui... quasi.
16 photos que je n’ai pas prises, di Benoît Grimalt; Poursuite Editions, 2017 (quarta edizione); 40 pagine 15x20cm; 24,48 euro.