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Droni primigeni
In retrovisione curiosa, sia per se stessa, sia per il proprio contenuto, valutiamo che la Fotografia dall’alto, realizzata con apparecchi specifici fissati sulla pancia di piccioni, avviata nel primo decennio del Novecento, sia sostanzialmente antesignana dell’attualità dei droni. Certo, le dif-
ferenze sono enormi, tanto da non consentire alcun allineamento statico tra le due esperienze, ma l’interpretazione consente di osservare tra le pieghe della Storia, per la coscienza delle nostre stesse origini fotografiche. Con complemento sulla fotografia dall’alto di Nadar. Nientemeno
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NADAR (LUI) DALL’ALTO
Come dovrebbe essere risaputo, la Fotografia si alza da Terra, osservando dal Cielo, nei tardi anni Cinquanta dell’Ottocento, quando, nel 1858, il parigino Nadar (Gaspard-Félix Tournachon; 1820-1910) sposa la professione di fotografo con la passione per il volo aerostatico.
Nell’eterogeneo universo dei tanti pionieri della Fotografia, il parigino Nadar rappresenta una personalità insolita e autonoma. Oltre la prepotente identità di raffinato ritrattista, a tutti nota, per esplorare le possibili applicazioni espressive e documentative della fotografia, Nadar accompagnò la propria attività in sala di posa con la continua sperimentazione tecnica.
Sue furono le fotografie che per la prima volta illustrarono un testo divulgativo di medicina (Album de photographies pathologiques complémentaire du livre intitulé De l’électrisation localisée; 1862). E sua fu l’idea di una intervista accompagnata da una sequenza di fotografie. Sotto la sua direzione, nel 1886, il figlio Paul eseguì una serie di ventisette pose destinate a illustrare l’intervista (dello stesso Nadar) al fisico Michel-Eugène Chevreul (1786-1889), incontrato in occasione del centesimo compleanno. Tredici di queste immagini, tutte riprese con pellicola Eastman Kodak che consentiva tempi di otturazione brevi fino a 1/200 di secondo, furono pubblicate il 5 settembre 1886 dal Journal illustré: dodici inquadrature in sequenza di Chevreul e Nadar seduti a un tavolo furono impaginate assieme a un ritratto del celeberrimo fisico.
Nadar fu anche tra i primi a intuire le possibilità dell’illuminazione artificiale, in un’epoca nella quale la Fotografia dipendeva soltanto dalla luce naturale del Sole. In sala di posa, usò lampade continue e il lampo al magnesio. Con certezza, un ritratto del 1860 è attribuibile a una illuminazione con luce elettrica, sulle cui possibilità Nadar relazionò nella seduta del ventuno dicembre (1860) della Société Français de Photographie.
E, poi, illuminò artificialmente anche le catacombe di Parigi e le sue fogne, dove eseguì rispettive serie fotografiche nel corso del 1861. Le sue lastre 18,5x22,5cm furono esposte con grande perizia e con un pizzico di invenzione scenografica: uomini in rigorosa immobilità e manichini ben disposti stavano a recitare e simulare situazioni dinamiche “fissate” dallo scatto fotografico (per forza di cose, assolutamente prolungato).
Convinto assertore delle grandi possibilità di applicazione del volo dei mezzi più leggeri dell’aria, Nadar fece seguire fatti alle parole, e compì numerose escursioni con il pallone aerostatico. Questa sua idea era talmente fissa da spingerlo ad autoritrarsi a bordo del cesto caratteristico della mongolfiera, e da ispirare una celebre caricatura di Honoré Daumier, con il fotografo che, a bordo di un aerostato, vola su una città pullulante di studi fotografici.
Nella raccolta di memorie Quand j’étais photographe, del 1900, Nadar riferisce le sue esperienze nel capitolo Il primo tentativo di fotografia aerostatica (in Italia, Quando ero fotografo; a cura di Michele Rago, traduzione di Stefano Santuari: Editori Riuniti, 1982 / Abscondita, 2004).
Caricatura di Honoré Daumier (Nadar élevant la Photographie à la hauteur de l’Art / Nadar eleva la fotografia all’altezza dell’Arte [al di sopra delle arti]), originariamente pubblicata in Le Boulevard, del 25 maggio 1862, e sua replica/ parodia in Il caso di Villa Danar, inchiesta di Topet il commissario, pubblicata in Topolino, numero 2485, del 15 luglio 2003. Autoritratti di Nadar nel cesto caratteristico della mongolfiera: con la moglie Ernestine e da solo; fotografie datate al 1865 circa.
di Antonio Bordoni
Per quanto ciascuno di noi frequenti la Fotografia in modo autonomo, non possiamo non avere constatato come -nel nostro paese- la riflessione attorno la materia (o disciplina, o ciò che intendiamo individualmente) sia clamorosamente scomposta in due filoni paralleli, che non si incontrano mai. Da una parte, ci si riferisce al suo linguaggio, con conseguente proiezione verso la società tutta; dall’altra, si considerano soprattutto (e, spesso, soltanto) gli apparecchi fotografici in quanto tali e fini a se stessi.
Se appagano esigenze e necessità individuali, entrambe le posizioni sono legittime e meritevoli.
Personalmente, ci sentiamo vicini e prossimi all’una e l’altra visione, convinti che esista una linea di transito che passa tra di loro, andando a influire sulle rispettive dialettiche. In particolare, siamo convinti che la tecnica agisca e incida sul linguaggio, dal momento in cui consente soluzioni specifiche e mirate. Di fatto, in pensiero spesso pronunciato, qualsiasi viaggio nella vita, se non fosse intrapreso per ragioni umane e con comprensione e amore, sarebbe un viaggio assolutamente inutile. Parliamo sempre di qualcosa che vale la pena ricordare, dal momento che la tecnologia trasforma in realtà antichi sogni. La fonte della tecnologia applicata è quella stessa fonte che alimenta la Vita e l’evoluzione dell’Esistenza.
Certo, la tecnica da sola non basta, ma la stessa tecnica indirizza gli svolgimenti, fino al punto che il fotografo possessore, oltreché di apparecchi e obiettivi, anche delle cognizioni necessarie per adoperarli bene e al meglio, è fatalmente avvantaggiato. Sapersi muovere con sicurezza tra le condizioni generali del lavoro e le applicazioni eventualmente particolari è un dovere professionale e un diritto personale.
Nel metodico e meticoloso rapporto tra tecnica e creatività si deve essere consapevoli dei rispettivi valori e delle relative influenze. E si deve anche riconoscere che la tecnica è assolutamente necessaria per la trasformazione e concretizzazione fotografica dell’intuizione creativa. La creatività dipende dal talento individuale, e può essere educata e coltivata. La tecnica si può imparare (e insegnare), basandosi -prima di altro- sulla conoscenza e consapevolezza degli strumenti, che in Fotografia si debbono considerare alla stregua di autentici utensili del lavoro. Con ciò, nessuna
sopravvalutazione, ma neppure nessuna sottovalutazione tra il come e il perché: la tecnica fotografica deve essere conosciuta, controllata e dominata per scomparire a favore della creatività. È certamente un mezzo, non un fine. DICIAMO... DRONI? In un tempo tecnologico, quale è questo attuale, nel quale la personalità digitale delle applicazioni fotografiche ha amplificato esponenzialmente le possibilità di impiego e finalizzazione degli utensili, lungo tutta la filiera, dallo scatto alla gestione dei file acquisiti, si stanno affacciando e imponendo intenzioni e propositi che dischiudono progettualità creative ed espressive fino a ieri impensabili.
Tra i tanti esempi possibili, tutti plausibili, pensiamo all’attualità dei droni, attraverso il cui sapiente utilizzo si stanno esprimendo numerosi svolgimenti di fotogiornalismo e ricerca individuale. Il drone non è fotografia dall’alto, come pure è anche, ed è soltanto nipote della fotografia aerea, in una scala di parentela che prendiamo a prestito.
Per andare a cercare radici nel passato (remoto), giusto per inquadrarne la logica, non dobbiamo retrocedere verso la fotografia aerea, come appena annotato, ma richiamare esperienze di inizio Novecento... con piccioni dotati di apparati fotografici. Due le direzioni verso le quali si spinse quella “tecnologia”: rilevamento planimetrale di terreni ed edifici; osservazione e accertamento senza pericoli di postazioni militari nemiche.
In un certo senso, in assenza di notizie certe e certificate, ma in sola presenza di relazioni ambigue e non molto chiare, va accettata una versione ufficiosa, in odore di ufficialità, ormai. Così che se ne storicizza l’esordio nell’ambito della fotografia panoramica a obiettivo rotante, frequentata dalle origini con accorgimenti tecnici finalizzati.
Nel 1912, il tedesco Julius Gusta Neubronner (1852-1932; chimico, farmacista, fotografo e inventore), sempre vissuto a Kronberg im Taunus, in Baviera, nel land dell’Assia, progettò e produsse una piccola macchina fotografica a obiettivo rotante, che poteva essere ancorata al petto di un piccione viaggiatore. Mentre era in volo, la definita/identificata Pigeon Panoramic scattava autonomamente grazie a un dispositivo meccanico temporizzato. Su pellicola incurvata lungo il fuoco, si ottenevano negativi panoramici 30x80mm.
FOTOgraphia Archivio
Musée suisse de l’appareil photographique Il ben redatto Des pigeons photographe?, in francese, ha accompagnato la rassegna Aeroplanes, balloons, pigeons...: escursione sulla fotografia aerea in Svizzera allestita al Musée suisse de l’appareil photographique, di Vevey, nell’estate 2007; 36 pagine 20x23cm. [Pdf da QRcode, a fine articolo]. L’apparato di testi e fotografiesvolgeiltemainmisuraopportuna,inequilibriotracondizionitecniche e filosofie di fondo.
Sciences et Voyages / 2 (1919) con un articolo di J. de la Cerisaie sui piccioni fotografi (da Julius Gusta Neubronner, nel 1903). Eccellente rarità storica.
(doppia pagina precedente, da sinistra e dall’alto)
Tre piccioni equipaggiati con gli apparecchi fotografici ideati da Julius Gusta Neubronner.
Inizio anni Trenta, piccione con macchina fotografica progettata dallo svizzero Adrian Michel, di Walde, nel cantone di Aargau (a pagina 24).
Piccione fotografo in descrizione museale.
Archivio FOTOgraphia
The Pigeon Photographer; a cura di Nicolò Degiorgis e Audrey Solomon; con un saggio di Joan Fontcuberta; Rorhof (Bolzano), 2017 (seconda edizione di 1500 copie, 2018). In tre parti: volume di 96 pagine 16x24cm, cartonato; libretto di 30 pagine 16x24cm; giornale di 48 pagine 24x32cm; 35,00 euro (la seconda edizione).
Historical Book Award al Prix du Livre ai Les Rencontres de la Photographie, di Arles, in Francia, nel 2018.
Pigeon Camera Model A, dello svizzero Adrian Michel (a pagina 20), panoramica a obiettivo rotante per pellicola 16mm a doppia perforazione collocata lungo la curva focale. Insieme a ulteriori documenti cartacei, materiali di consumo e fotografie scattate, questo fondo è passaggio fondamentale della ricostruzione storica dell’affascinante epopea dei piccioni fotografi raccontata dall’esposizione permanente dell’autorevole e competente Musée suisse de l’appareil photographique (Grande Place 99, CH-1800 Vevey, Svizzera; www.camera museum.ch). Ereditato da soluzioni tecniche precedenti, dal dagherrotipo, l’obiettivo panoramico rotante è stato interpretato dagli anni Sessanta del Novecento.
Osservatore che fotografa dallo Zepp LZ-C-II-2, numero 811, in servizio militare svizzero dal 1920 al 1927. Oltre che per finalità proprie, queste rilevazioni fotografiche sono state spesso realizzate per conto dell’ufficio svizzero di topografia.
Già precedentemente descritta in una pubblicazione edita nel 1909, la Doppel-Sport (identificazione di partenza, svincolata dalla combinazione con piccioni viaggiatori) è stata una configurazione semplice, diversa dagli accostamenti di obiettivi e prismi tanto frequentati a cavallo del Novecento, soprattutto per approdare a panoramiche a rotazione completa di trecentosessanta gradi. In paragone, se il riferimento tecnico appartiene alle conoscenze fotografiche di ciascuno di noi, si trattò di una sorta di miniatura della panoramica Horizont / Horizon, prima sovietica, poi russa, in commercio dalla seconda metà degli anni Sessanta del Novecento.
Ovviamente, applicazioni sostanziose in veste Pigeon Panoramic si ebbero nel corso della Prima guerra mondiale, quando furono fondamentali per spiare il fronte francese, fotografandolo dall’alto, ma da distanza più prossima rispetto l’autentica fotografia aerea. Una incessante rete di colombaie mobili per piccioni messaggeri fu organizzata a ridosso dei campi di battaglia.
Quindi, nel corso della guerra, la rapida evoluzione dell’aviazione spostò l’asse di giudizio del controllo dall’alto, tanto che si è certi che la soluzione con i piccioni dotati di apparecchio fotografico fu abbandonata. In qualche ricostruzione storica si accenna a un ritorno di fiamma negli anni Trenta, da parte delle forze armate tedesche e francesi, che adottarono entrambe una configurazione ideata e costruita da un orologiaio svizzero non meglio identificato (antesignana della Compass, del 1937, realizzata da Jaeger-LeCoultre?).
A seguire, sebbene i piccioni di guerra siano stati ampiamente dispiegati durante la Seconda guerra mondiale, non sono noti i dettagli, tanto che non si sa neppure se siano stati ancora coinvolti in ricognizioni aeree / dall’alto. Però è noto che la statunitense CIA (Central Intelligence Agency; spionaggio degli Stati Uniti) realizzò, o fece realizzare, una macchina fotografica alimentata a batteria progettata per la fotografia di piccioni di spionaggio; i dettagli del suo utilizzo sono tuttora classificati.
Comunque, droni primigeni. ■ ■
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