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Morire per
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Venticinquesimo romanzo di Michael Connelly (1956), sedicesimo della serie con protagonista il detective della polizia di Los Angeles Harry Bosch (all’anagrafe, Hieronymus Bosch, come il pittore olandese del tardo Quattrocento: bella invenzione), dall’originario e primo The Black Echo, del 1992, tradotto in La memoria del topo, La scatola nera, del 2012, letteralmente da The Black Box, racconta una vicenda che possiamo anche conteggiare coincidente e allineata con nostri interessi fotografici.
A vent’anni dalle catastrofiche sommosse scatenate a Los Angeles dall’assoluzione dei quattro agenti di polizia accusati di aver applicato forza eccessiva nell’arresto dell’afroamericano Rodney King, Harry Bosch è incaricato di riprendere le indagini sull’omicidio di una giornalista danese, avvenuto il Primo maggio 1992 (un caso irrisolto, oppure un Cold Case, tema di una seguìta serie televisiva altrettanto poliziesca).
Per il detective è un ritorno su se stesso, essendo stato lui a svolgere le prime constatazioni ai tempi dell’omicidio stesso, quando la vittima, Anneke Jespersen, giornalista e fotografa free lance, in assignment per il newsmagazine Berlingske Tidentde (esistente nella realtà) venne trovata riversa in un vicolo, colpita da un proiettile in testa. Proprio l’anomalia dell’omicidio, in un’area controllata dalla Guardia Nazionale, con vittima non afroamericana, fece subito coniare il soprannome di Biancaneve.
Non è solo la personalità fotografica della vittima, fotogiornalista, che arriva fino a noi, coinvolgendoci nel comune interesse per la materia sovrastante e
i suoi infiniti cammini. Di più, e in approfondimento maggiore, è un tema latente, ma non latitante, spesso ricorrente nelle considerazioni sui fotogiornalisti e giornalisti inviati sui luoghi di guerra e combattimento (soprattutto dei fotogiornalisti, che -per svolgimento della propria professione- non possono stare distanti e discosti dal soggetto affrontato). È il quesito di sempre, il terribile quesito di sempre. Morale ed etica: il fotografo di/in guerra deve stare discosto, oppure mettersi in gioco? Mettere in gioco la sua stessa vita? Appunto: morire per fotografare la storia (da cui, onore e merito?). Per quanto trasversali al romanzo poliziesco La scatola nera, di Michael Connelly (in prima edizione italiana Archivio FOTOgraphia (4) Piemme, del 2015, e in successivo accredito Pickwick, del 2016), queste considerazioni e riflessioni balzano in primo piano se e quando introduciamo il nostro punto di vista viziato, prima che mirato... alla Fotografia. In collegamento ideale, restando in compagnia di narrativa, dobbiamo prendere in considerazione almeno altri due romanzi, in entrambi dei quali, a differenza della trasversalità dell’indagine del detective californiano Harry Bosch, il tema della morte in guerra di fotogiornalisti Due edizioni statunitensi di The Black Box, di Michael Connelly, l’originaria del inviati è soggetto espli2012 e una successiva del 2014. In traduzione italiana La scatola nera, il romanzo cito e ispiratore e svolto: poliziesco, della serie del detective della polizia di Los Angeles Harry Bosch (Hie- Reporter di guerra, di ronymus Bosch, come il pittore olandese del tardo Quattrocento), è stato pubbli- Scott Anderson (1959), cato da Piemme, nel 2015 e rieditato come Pickwick, nel successivo 2016. Indagi- con un fotografo che sone su una fotogiornalista uccisa durante le sommosse di Los Angeles, del 1992. pravvive alla morte di un amico collega, sulle ari-
TRIAGE... IL FILM
Produzione canadese, del 2009, il film Triage è stato sceneggiato da Danis Tanović (anche regista) sull’omonimo romanzo di Scott Anderson, del 1998, a propria volta retroambientato alla guerra in Kurdistan, del 1988 (pubblicato in Italia da Piemme, nel 1999, con il titolo Sotto un cielo di guerra, e ripubblicato nel 2001 come Reporter di guerra). La sceneggiatura rispetta totalmente lo spirito del romanzo e la sostanziosa trasversalità esistenziale del protagonista, il fotogiornalista Mark Walsh (ottimamente caratterizzato dall’attore irlandese Colin Farrell). Tra terribili cronache di guerra, immancabili disagi e difficoltà professionali e sconfortanti sfide imposte dalla vita quotidiana, il libro e il film affrontano e svolgono temi fondanti (non soltanto della Fotografia), quali la colpa, il perdono, l’assoluzione, la natura della guerra moderna e il senso di appartenenza. po del dottor Ahmet Talzani (l’attore Branko Djuric), dove -come fotogiornalista inviato- Mark ha visto spesso sopprimere pietosamente i feriti incurabili, dopo essere stati identificati in base a un terribile -ma necessario- codice di cartellini colorati (ovvero, Triage): rosso, curabile; giallo, in attesa; azzurro, morte.
Il dottor Ahmet Talzani non è inumano, non è immotivatamente cinico, né -tantomeno- sadico; più prosaicamente, sa che non ha tempo da riservare a chi non può essere curato, perché è solo e ogni giorno la guerra gli invia feriti da curare e guarire. Decisione terribile: quesito esistenziale che va oltre le capacità umane di comprensione e amore. Ma certe guerre moderne debbono aver insegnato molto (spesso troppo) a chi le ha vissute sulla propria pelle, giorno dopo giorno, decisione dopo decisione.
Sceneggiato dal romanzo Reporter di guerra (già Sotto un cielo di guerra), di Scott Anderson, il film Triage, del 2009, è ambientato nel Kurdistan della guerra del 1988. Protagonista è il fotoreporter Mark Walsh (interpretato da Colin Farrell), con le sue ansie e i suoi affanni di sopravvissuto.
La narrazione originaria di Scott Anderson e la trasposizione in sceneggiatura hanno mirabilmente collegato tra loro personaggi e situazioni, fino a creare complesse storie parallele, pur mantenendo una trama accattivante, un’attenzione sempre concentrata sul soggetto esplicito, che rappresenta poi il quesito fondamentale della fotografia di guerra, pronto a riproporsi tragicamente ogni qual volta si presenta un conto in vite umane: cosa significa morire per fotografare la storia? E ha senso che ciò avvenga, possa avvenire. Quando Mark Walsh (Colin Farrell) viene colpito da un proiettile di artiglieria in Kurdistan, il suo mondo si capovolge. Viene tratto in salvo, curato nell’ospedale da cam-
Comunque, tornando al racconto romanzato, Mark Walsh sopravvive, e torna a Londra. Il film rivela ancora nulla sul suo compagno-collega, il fotogiornalista David (interpretato dall’attore Jamie Sives): ed è anche questo il senso dell’approdo, del definitivo punto di arrivo, che per mille motivi non riveliamo (ma non è difficile immaginare come si siano svolti i fatti, in Kurdistan). In effetti, indipendentemente da tutto, ma malgrado tutto, il tema della riflessione del romanzo e del film è il ritorno, la sopravvivenza a un evento tragico, che può ripetersi nello svolgimento quotidiano del proprio lavoro, che è latente e latitante sulla testa del fotogiornalista inviato di guerra.
de montagne del Kurdistan (in edizione italiana Piemme, del 2001, sulla prima versione Sotto un cielo di guerra, del 1999), e Il vantaggio del diavolo, di Isabel Ellsen (1958-2012), a propria volta giornalista e fotografa di guerra, ambientato nel 1991 della guerra in Jugoslavia (in edizione italiana Wizarts, del 2003, sull’originale francese Le diable à l’avantage, del 2001).
Ancora, in entrambi i casi, dai romanzi sono state trasposte sceneggiature cinematografiche: la prima è del film Triage, del bosniaco Danis Tanović, del 2009, che riprende il titolo originario del libro; la seconda è del film Harrison’s Flowers, di Élie Chouraqui, del 2000, che fa riferimento ai fiori che il fotogiornalista scomparso nei Balcani, su assignment di Newsweek, coltiva nella propria abitazione, negli Stati Uniti.
In queste due vicende il tema della morte in guerra è sovrastante, con l’aggiunta del dramma ulteriore del sopravvissuto (in Triage / Reporter di guerra / Sotto un cielo di guerra). Mentre, nel poliziesco La scatola nera, di Michael Connelly, è soltanto incidente. E siamo noi, forse solo noi, che lo eleviamo di tono, che lo prendiamo in considerazione per nostra forza di cose. Però... l’argomento è lì, è presente e -giorno dopo giorno- è alimentato da vittime di una storia di fotogiornalisti e giornalisti morti in guerra che è troppo lunga, di un elenco che è eccessivamente penalizzante. Qualcuno muore, altri vivono... ma rimangono cambiati per sempre.
Però, in tono lieve, pur nel rispetto delle considerazioni appena espresse, la scrittura di La scatola nera rivela ancora qualcosa di più e diverso, sempre da un punto di vista educato. Riferisce di come e quanto scritture provenienti da altre geografie che non la nostra (sia in forma narrativa, sia in sceneggiatura e scenografia cinematografica) siano attente a ogni propria considerazione, anche a quelle specifiche, mirate e di settore: per quanto ci riguarda e, forse, interessa, alla Fotografia. Ne abbiamo già riflettuto in altre occasioni, a questa precedenti, ma la ripetizione si impone: raramente, in Italia, rimaniamo soddisfatti delle citazioni fotografiche, per dire nel cinema, troppo spesso approssimative, se non addirittura più che grottesche. Invece, leggiamo da La scatola nera, di Michael Connelly: «L’ultima fermata del viaggio virtuale di Bosch attraverso la vita e il lavoro di Anneke Jespersen fu il sito creato in memoria dal fratello. Per entrare, dovette registrarsi con l’indirizzo mail, un equivalente
digitale della firma sul registro di un funerale. Il sito era diviso in due sezioni: foto[grafie] scattate da Jespersen e foto[grafie] che ritraevano lei. «Molte istantanee della prima sezione provenivano dagli articoli che Bosch aveva già visionato attraverso i link forniti da Bonn [redattore del newsmagazine]. Legate agli stessi pezzi c’erano foto[grafie] extra, e lui pensò che qualcuna era migliore di quelle scelte per accompagnare le storie. «La seconda sezione era più simile a un album di foto[grafie] di famiglia, con istantanee di Anneke a partire da quando era una ragazzina magrissima con i capelli biondi. Bosch le scorse in fretta, finché arrivò a una serie di foto[grafie] che Anneke si era fatta da sola. Le aveva scattate in posa di fronte a differenti specchi in più anni differenti. Jepersen reggeva la macchina fotografica all’altezza del petto, appesa a un nastro [a una cinghietta] che teneva intorno al collo, e aveva scattato senza guardare attraverso l’obiettivo [e lasciamo perdere eventuali richiami a Vivian Maier, la fotografa ritrovata, della quale è in corso la beatificazione]. Passandole in rassegna una dopo l’altra, Bosch poté vedere lo Per considerazioni sulla scorrere del tempo sul volto di lei. Era morte di fotogiornalisti sempre bella, ma la saggezza aggiun(e giornalisti) inviati nei geva profondità allo sguardo. territori di guerra, un ro- «Nelle ultime, gli parve che lo stesse manzo coinvolgente e fissando direttamente. Non trascinante: in edizione italiana Reporter di guerra, di Scott Anderson, dal gli fu facile staccarsi da quegli occhi». Hai detto poco! Se vogliamo vederla anche così, in doverosa ripetizione Kurdistan (Piemme 2001, da precedenti osservazioni successivo a un primo identiche: magia della FoSotto un cielo di guerra, tografia, singolare combidel 1999). Da cui, il film nazione di regole logiche e Triage, del 2009. spessori esistenziali. In altrettanta ripetizione, ancora d’obbligo: come e quanto la Fotografia influisce e ha influito sullo svolgimento della nostra stessa Vita, per certi versi... migliorandola e arricchendola. Lo crediamo sinceramente. ■ ■
(4) Archivio FOTOgraphia Il vantaggio del diavolo, di Isabel Ellsen, a propria volta giornalista e fotografa di guerra, ambientato nel 1991 della guerra in Jugoslavia (Wizarts, del 2003, sull’originale francese Le diable à l’avantage, del 2001). Da cui, il film Harrison’s Flowers, del 2000.