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Editoriale

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Abbecedario

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Eppure, dobbiamo occuparci di Fotografia, quantomeno qui, quantomeno in accordo sottinteso. Per frequentazione assidua, voi e noi sappiamo bene quanti argomenti siano qui/lì latenti, degni di attenzione, commento e, perché no?, riflessione. Dunque, osserviamo: come nel caso odierno, spesso, sollecitati a farlo da imprecisioni storiche e sociali che stanno indebolendo la più autentica (plausibile?) valutazione di fatti. Ovviamente, non pretendiamo alcuna paternità clericale, ma siamo coscienti che certi argomenti meritino quotazioni più profonde delle semplificazioni che approdano alla banalizzazione e, per percorso diretto, escludono la più proficua chiarificazione. Torniamo al fotogiornalismo, così come è nato, vissuto e imposto in tempi di entusiasmi e novità (fotogiornalismo di grandi interpreti, di immagini che hanno scandito la Vita nel proprio svolgersi, di fotografie che hanno scritto la Storia). È semplicistico affermare, come scritto in tutte le Storie qualificate, come e quanto l’avvento della televisione, dal secondo dopoguerra, abbia indebolito l’essenza del fotogiornalismo. I tempi coincidono, ma non l’analisi. Infatti, non è tanto un’alternanza di mezzi di comunicazione, ma la loro nefasta interpretazione: la televisione ha presto imposto la cadenza da società dello spettacolo, anche nell’informazione (oggigiorno, soprattutto in questa). In tempi immediatamente susseguenti all’avvio della televisione, si sono imposti personaggi disinteressati alla notizia in quanto tale e al suo conseguente approfondimento. Ovvero, personaggi convinti che la televisione di successo dovesse essere radicata nel presente, in una attualità a rincorsa: un flusso di immagini in un perpetuo e infinito presente elettronico (per non dire, poi, del pianeta social). Qualsiasi passato, anche prossimo, è sempre più spesso interpretato come morto e sepolto. A chi importa quello che ha mangiato il giorno prima?, hanno ipotizzato costoro. Immediato e irresistibile è solo il presente: imposto con violenza d’intenti. Clamorosamente e consapevolmente, in appoggio al giornalismo di qualità, quello che sente nella propria pelle di avere un argomento tra le mani, da definire in prospettiva e inquadratura dei fatti, il fotogiornalismo di spessore è consapevole e cosciente che il “contesto” richiede di inserire ogni vicenda in uno scenario più ampio: spiegarne il senso, raccontando ciò che è accaduto in precedenza, o fatti analoghi. Giornalisti e fotogiornalisti di profondità hanno attribuito una tale importanza al contesto, da consideralo una sorta di vincolo etico e morale. Al contrario, passo dopo passo, evoluzione dopo evoluzione (involuzione dopo involuzione?), il fotogiornalismo ha subìto imperativi che stanno alla base del suo esaurimento concettuale e dottrinale. Prescindendo da etica e morale, il contesto è stato mal etichettato (bollato?) come solo punto di vista. Mentre, sempre più rapidamente, si è scivolati verso racconti pompati, neppure in modo sempre efficace, La televisione di successo, quella che ha effettivamente ucciso il fotogiornalismo di qualità, si muove nel solo presente. Ciò che preme realizzare sono racconti che si svolgono nel solo presente, secondo un modello che lo spettatore possa seguire, meglio se condito da un conflitto tra bene e male (magari artificioso). Insomma, si è adottato il linguaggio del pubblico... quantomeno di quello che ha fatto comodo definire tale. Maurizio Rebuzzini

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