6 minute read
A volte, tornano
Sulle ali della cronaca politica internazionale, il nostro pensiero fotografico torna a un momento di alto fotogiornalismo. Per quanto estranea ai parametri propri e caratteristici di questa fotografia, la serie Taliban -raccolta in avvincente e coinvolgente monografia Trolley Books, del 2003 (cinquantasei fotografie; 128 pagine 15,5x21cm, cartonato)- è a dir poco esemplare nella propria concreta e tangibile documentazione e testimonianza.
Si tratta di una incessante consecuzione di fotoritratti di miliziani talebani, recuperata dal reporter Thomas Dworzak della prestigiosa agenzia Magnum Photos in studi fotografi di Kandahar, Afghanistan, quartier generale del teorico dell’integralismo Mullah Omar. Ha trovato le fotografie entrando in città assieme alle truppe vittoriose [allora, nel 2002].
Advertisement
L’insieme dei ritratti rivela l’immagine che i talebani avevano di sé e avrebbero voluto esternare, indipendentemente dalle oscurantiste imposizioni religiose dei propri capi. I contesti sono sconcertanti; a parte l’immancabile presenza di armi, soprattutto il famigerato Kalashnikov, le vistose colorazioni artificiose danno risalto a fondi di alpi svizzere, con tanto di immancabili chalet, e alle tinte grigie e marroni ufficialmente proibite.
Soli o in gruppo, sono assassini fuggiti di fronte all’avanzata del nemico, lasciando una paradossale annotazione della propria presenza. Che, appunto, diventa consistente materia di reportage. In metafora, per quanto siamo lontani da questa affermazione e estranei a questo pensiero, qui ci vuole proprio: fotografie che valgono più di mille parole... ritratti rivelatori.
Come già rievocato, questi ritratti di militanti talebani (miliziani di un esercito multiforme e sfaccettato, tra le pieghe di mille equilibri tra tribù un tempo in contrapposizione tra loro) sono stati individuati e raccolti da fotogiornalista Thomas Dworzak durante la sua coper-
tura della caduta del regime talebano, nel 2002. Su basi comunque concrete, si ipotizza che la maggior parte di queste immagini provenga da guerriglieri talebani che hanno posato all’inizio del precedente novembre 2001, ma non sono riusciti a ritirarle, poiché hanno dovuto fuggire dall’avanzata militare dell’opposizione, appoggiata dai bombardamenti degli Stati Uniti. In definizione rigorosa, in base a una inflessibile applicazione della legge coranica, la fotografia e altre rappresentazioni visive dell’immagine umana avrebbero dovuto essere illegittime e vietate [nel testo di accompagnamento alla sua raccolta Taliban, già richiamata, Thomas Dworzak ricorda di aver visto «un culturista che pubblicizzava una palestra aveva la testa sostituita da una mappa dell’Afghanistan; gli annunci di cosmetici importati avevano gli occhi cancellati»]. Ma, quando la fotografia del passaporto è stata nuovamente autorizzata e ripristinata, alcuni talebani -per propria vanità personale- sono andati oltre: hanno chiesto di posare per ritratti più lusinghieri, colorati e ritoccati. Queste sessioni fotografiche sono state allestite di nascosto, per lo più nella stanza sul retro degli studi. Tre le attribuzioni certe: ai fotografi afghani a Kandahar presso gli studi Shah Zadah (Figlio del re Shah), Roshan (Luce) e Nazir Photographer. A seguito della diparTaliban, a cura di Thomas Dworzak (Magnum Photos) e Jon Lee Anderson: fotoritratti tita dei talebani da Kandi guerriglieri talebani, recuperati dal fotogiornalista in studi fotografici di Kandahar, dahar, accompagnato Afghanistan, sede del teorico dell’integralismo Mullah Omar; Trolley Books, 2003; 56 dal giornalista Jon Lee fotografie; 128 pagine 15,5x21cm, cartonato; quotazione attuale, oltre trecento euro. Anderson, Thomas Dworzak ha visitato lo stu-
dio fotografico Shah Zadah, successivamente americanizzato di Photo Shah Shop [orribile!], di proprietà dell’afghano Said Kamal.
Proprio Said Kamal ha rivelato che i miliziani sono entrati per un «ritratto lusinghiero, ritoccato dal fotografo, scattato di nascosto nella stanza sul retro dello studio e decorato al meglio che il fotografo poteva gestire». I combattenti posavano davanti a fondali dipinti, con pistole o fiori come oggetti di scena, e Said Kamal, specializzato nel ritocco (a pennello; nessuna possibilità di post produzione digitale), ha spesso aggiunto nella composizione/inquadratura aloni di tonalità vibranti.
Oggi, a distanza di vent’anni dalla propria origine, ma in un contesto che non è cambiato per nulla da allora, come se il Tempo si fosse fermato, c’è da rimanere ancora colpiti dal contrasto tra queste raffigurazioni stilizzate e l’immagine pubblica dei miliziani, che hanno di nuovo occupato il paese. Sono tornati.
A parte la propria ruvidità espressiva, che si allunga sulle contraddizioni lessicali del linguaggio fotografico -considerazione da addetti-, questi ritratti hanno comunque anche compensato la scarsità giornalistica di documentazione fotografica delle operazioni militari statunitensi contro i talebani, in Afghanistan, nell’autunno del 2001. La rapidità della campagna, i luoghi spesso eccezionalmente remoti in cui è stata condotta e l’estrema elusività del nemico hanno condizionato il fotogiornalismo, impossibilitato a tenere il passo. In effetti, molte delle immagini più memorabili emerse dalla guerra in Afghanistan, probabilmente, non provengono da giornalisti professionisti che coprivano il conflitto, ma invece da quelle che erano essenzialmente fotografie trovate, spesso prodotte sotto gli auspici degli stessi soggetti.
Allo stesso modo in cui si è registrata una certa profusione di immagini distribuite o fatte pervenire dai maestri della propaganda mondana, a partire dalla squadra dell’allora adorato Osama bin Laden (individuato? e ucciso? nel maggio 2011), anche l’oscurità fotografica del Mullah Omar, e dei suoi seguaci, ha perfettamente senso, soprattutto in considerazione del contesto culturale dal quale sono emersi i talebani.
Cresciuto nelle capanne di mattoni di fango di Singesar, un piccolo villaggio alle porte dalla capitale provinciale di Kandahar, il quarantacinquenne Mullah Omar è stato un veterano della guerriglia contro i sovietici invasori; ha trasformato l’Afghanistan nel più severo regime islamico del mondo, un’area in linea con le interpretazioni inflessibili e intransigenti delle ingiunzioni coraniche contro l’idolatria. Da cui, dalla metà degli anni Novanta, nell’Afghanistan controllato dai talebani, la fotografia è stata vietata. Punto. Del resto, in simultanea, i membri della tribù Pashtun, alla quale apparteneva il Mullah Omar, e in particolare quelli dell’area di Kandahar, erano noti per apparizioni personali sorprendentemente vistose. Sfoggiavano barbe e capelli tinti, prediligevano sandali con tacco decorati in modo eccentrico, decoravano le unghie delle mani e dei piedi con l’henné e delineavano gli occhi con il kohl scuro. Ecco qui che i ritratti “clandestini” recuperati da Thomas Dworzak a Kandahar mostrano uomini soli e in gruppi giocosi, a volte affettuosi, trattati con svolazzi romantici di fioriture colorate a mano o semplicemente in posa davanti a allegri fondali alpini con accessori floreali femminilizzanti. Ecco qui che queste immagini propongono ancora oggi un ritratto meravigliosamente intimo e assolutamente controintuitivo di un terribile “nemico” in gran parte invisibile agli occhi degli occidentali.
Secondo lo stesso Thomas Dworzak, nessuno dei fotografi ritrattisti «ha mai minimamente immaginato, né pensato, che le immagini fossero contraddittorie o ipocrite nei confronti dei talebani, né dissidenti o di alcun valore particolare [...] Siccome c’erano poche possibilità che i talebani tornassero a ritirare i propri ritratti, i fotografi sono stati felici di vendermi le stampe». Del resto, come avrebbe osservato uno di loro, «è improbabile reincontrarli; la maggior parte di loro è certamente morta».
Ora, sono tornati. ■ ■