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Joseph LaBrava
/ DALLA NARRATIVA / JOSEPH LaBRAVA
CITAZIONI COLTE, RICHIAMI ATTINENTI... È SCRITTURA STATUNITENSE
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di Angelo Galantini
«Sono tre anni che fotografa. Guarda che lavoretti», disse Maurice. «Prendi questo tipo. Guarda che posa, che espressione. Chi ti ricorda?»
«A me sembra un delinquente», rispose la donna.
«Ma è un delinquente. È un pappa, questo. Solo che io non parlavo di lui. Ecco, prendi quest’altra. Danzatrice esotica dietro le quinte. Ti ricorda nessuno?»
«Chi, la ragazza?»
«Dai, Evelyn, parlo dello stile. Il feeling. La ragazza che fa la graziosa, mette in mostra i suoi tesori, tutt’altro che disprezzabili. Ma guarda il camerino, tutta questa roba fasulla, questo scintillare da carta stagnola.»
«Vuoi che ti dica Diane Arbus?» [citazione colta]
«Voglio che tu mi dica Diane Arbus. Già di questo ti sono grato. Voglio che tu mi dica anche Duane Michaels, Danny Lyon. Voglio che tu mi dica Winogrand, Lee Friedlander. Vogliamo tornare indietro di qualche anno? Sarei tanto felice che mi dicessi anche Walker Evans.»
«Il tuo vecchio socio.»
«Un bel po’ di tempo fa. Prima ancora dei tempi tuoi.»
«Attento a te», lo ammonì Evelyn, e vagò con lo sguardo sulle venti-venticinque in bianco e nero sparse sul banco, lucide di lampade fluorescenti.
«Non è malaccio», commentò.
Maurice sospirò. Aveva catturato il suo interesse. «Ha l’occhio, Evelyn, ha l’istinto giusto e non ha paura di farsi avanti a sparare il suo rullino. Ti dirò un’altra cosa. Ha il talento naturale di quello che mi sono fatto io in sessant’anni di fotografia. E lui fotografa massimo da quattro.»
Lei replicò: «Vediamo, questo a che età ti porta, Maury? Hai sempre settantanove anni?»
«Per adesso sì», rispose lui. «Finché mi stufo.» Maurice Zola: cinquantacinque anni per cinquantotto chili e parlava con un morbido accento sud-metropolitano che conteneva risonanze sapienti, inflessioni raccolte in decenni di angoli di strada, decantate e offerte, a torto o a ragione, con spassionata autorità. Trentacinque anni prima quella rossa aveva lavorato fa parte del feeling. Ma guarda le facce, si vede il tempo che gli scivola via davanti. Prendi qui, Lummus Park. Sembrano uno stormo di uccelli, no? Con quei paranaso come becchi.»
«Vecchi ebrei e cubani newyorkesi», osservò Evelyn.
Chiese: «Maury, chi è Joseph LaBrava?» Lui era da qualche parte nel suo passato [...] «È quello che ha fotografato il tizio buttato giù dal cavalcavia.» «Oh, mio Dio».
per lui ai tempi in cui Maurice aveva licenza fotografica in alcuni dei più importanti alberghi e locali notturni di Miami Beach. Evelyn Emerson: lui le diceva che adorava la melodia del suo nome, era così lirico, e glielo cantava mentre se la portava a letto, ma mai sulla stessa aria. A quel punto lei aveva un’attività propria, la Evelyn Emerson Gallery a Coconut Grove e pesava una ventina di chili in più di lui.
«Non ho certo bisogno di tagli impressionistici da art-déco», disse Evelyn. «Piacciono, ma non si vendono.»
«Ma quale art-déco?» Maurice frugò tra le stampe, ne scelse una. «Lui fotografa la gente. Guarda qui, queste vecchie battone ebree in veranda... Si capisce che c’è dentro uno scorcio dell’albergo. L’albergo
«È la gente del quartiere, ragazza mia. Lui documenta South Beach com’è oggi. Ne coglie la drammaticità, il pathos. Guarda questo, con questi tatuaggi...»
«È spaventoso.»
«Cerca di rendersi attraente, di adornarsi il corpo. Ma guardalo attentamente, si sente qualcosa a guardarlo, si sente la persona. Uno che la mattina si alza ed esce di casa, scambia i suoi buongiorno come chiunque altro.»
«Sarà, comunque non è nello stesso giro di molte persone di cui potrei farti il nome qui, su due piedi», ribatté lei.
«E non è nemmeno presuntuoso come molti di loro», sottolineò Maurice. «Qui non ci sono né balle né fronzoli. È uno che fotografa fatti nudi e crudi. Ha percezione e la sa comunicare nell’immagine.» «Come si chiama?»
«Joseph LaBrava.»
Evelyn ripeté: «LaBrava. Come mai non mi suona nuovo?»
Osservava lo scalpo abbronzato di Maurice che aveva abbassato la testa per scrutarla da sopra la montatura degli occhiali prima di rialzarseli sul naso: un gesto automatico, come portarsi due dita alla tesa del cappello.
«Perché sei una che gira con occhi e orecchie aperti. Secondo te come mai sono venuto qui invece di andare a una di quelle gallerie di Kane Concourse?»
«Perché mi ami ancora. Non essere...»
«C’è gente che deve sbattersi per anni per farsi un nome», affermò Maurice, «mentre certi vengono scoperti da un giorno all’altro. 2 settembre 1935. Mi trovo casualmente a Islamorada a lavorare sul prolungamento ferroviario di Key West, quello della Florida East Coast, giusto?»
Evelyn conosceva a menadito quella storia, di quando l’uragano del ’35 si era abbattuto sui key e Maurice aveva fotografato il più terribile disastro ferroviario nella storia della Florida. Duecentottantasei manovali uccisi o dispersi tra quelli che lavoravano alla ferrovia... e due mesi dopo faceva servizi per conto del dipartimento dell’Agricoltura e documentava la situazione delle aree rurali durante la Depressione.
Chiese: «Maury, chi è Joseph LaBrava?»
Lui era da qualche parte nel suo passato e dovette chiudere gli occhi e riaprirli, aggiustare il suo orpello scenico, quei suoi occhiali pesanti.
«È quello che ha fotografato il tizio buttato giù dal cavalcavia.»
«Oh, mio Dio», mormorò Evelyn. ■ ■ Elmore Leonard; (da Dissolvenza in nero; Sperling & Kupfer Editori, 1992)