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Duecentottanta
Certo: Duecentottanta non è una cifra tra quante degne di attenzione, quantomeno dal punto di vista di ricorrenze e celebrazioni e commemorazioni. È un numero banalotto (e gli chiediamo scusa), che scorre via liscio in un anonimato denso di cifre altrettanto ordinarie, se non -addirittura- poco utili al di fuori di conteggi burocratici e/o fiscali. Però, oggi, approdiamo al numero Duecentottanta di questa rivista, in un momento e frangente nei quali è opportuno riflettere a giro ampio; addirittura, è doveroso farlo.
Infatti, senza alcun annuncio preventivo, subordinati da implacabili condizioni esistenziali sovrastanti, questo è il terzo numero del corrente Duemilaventidue che ha imboccato una inevitabile (?) cadenza bimestrale, diversa da quella mensile, perseguita fino allo scorso dicembre, numero Duecentosettasette in un conteggio avviato nel (lontano?) maggio Novantaquattro... fatidico Numero Uno.
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È imperativo andare dietro-le-quinte, per decifrare cosa e quanto questo significhi in termini di contenuti, ovverosia in merito al mandato redazionale e giornalistico, e in relazione all’indirizzo verso il pubblico al quale ci si rivolge.
Per certi versi, apparentemente, cambia nulla nell’aspetto esteriore della rivista; per altri versi, sottotraccia, si spostano a lato passo e cadenza della realizzazione: dalla progettazione alla scrittura, alla messa in pagina. Certamente, questo slittamento sfugge al pubblico-ricevente; altrettanto indiscutibilmente, è dovere sottolineare talune condizioni concettuali che stabiliscono punti di osservazione e svolgimenti.
Facciamo a capirci, decodificando interpretazioni che definiscono (dovrebbero definire) le divulgazioni periodiche. Non ci riferiamo tanto al gergo di mestiere, perché ognuno ha il proprio. Nel concreto, richiamiamo esplicitamente la filosofia di fondo, l’ideologia ispiratrice, la concezione della materia affrontata, palesata nella stessa testata FOTOgraphia. In una concezione secondo la quale la Fotografia non è mai intesa come arido punto di arrivo, ma sempre come fantastico (e privilegiato) s-punto di partenza, l’ulteriore passo a lato, in forma di cadenza bimestrale, influenza ancora di più l’approccio: che da “rivista” diventa più esplicitamente “pubblicazione”.
Questo introduce una distinzione in cadenza. Per quanto comunque vincolati a inevitabili attualità, l’avvicinamento e lo svolgimento scartano la cronaca, per imboccare e distendere riflessioni e considerazioni senza obblighi temporali. Espressamente, è anche questa, è soprattutto questa la distinzione sostanziale tra “rivista” e “pubblicazione. Comunque: la pubblicazione contiene la rivista; e non il contrario.
Con tutto, rimane inviolato il senso del nostro impegno con e nella Fotografia. In metafora, da e con Francesco Guccini; con aggiustamenti, da Canzone a Pubblicazione: Una canzone (in Ritratti, 2004).
La canzone è una penna e un foglio così fragili fra queste dita, è quel che non è, è l’erba voglio ma può essere complessa come la vita. La canzone è una vaga farfalla che vola via nell’aria leggera, una macchia azzurra, una rosa gialla, un respiro di vento la sera, una lucciola accesa in un prato, un sospiro fatto di niente ma qualche volta se ti ha afferrato ti rimane per sempre in mente e la scrive gente quasi normale ma con l’anima come un bambino che ogni tanto si mette le ali e con le parole gioca a rimpiattino.
La canzone è una stella filante che qualche volta diventa cometa una meteora di fuoco bruciante però impalpabile come la seta. La canzone può aprirti il cuore con la ragione o col sentimento fatta di pane, vino, sudore lunga una vita, lunga un momento. Si può cantare a voce sguaiata quando sei in branco, per allegria o la sussurri appena accennata se ti circonda la malinconia e ti ricorda quel canto muto la donna che ha fatto innamorare le vite che tu non hai vissuto e quella che tu vuoi dimenticare.
La canzone è una scatola magica spesso riempita di cose futili ma se la intessi d’ironia tragica ti spazza via i ritornelli inutili; è un manifesto che puoi riempire con cose e facce da raccontare esili vite da rivestire e storie minime da ripagare fatta con sette note essenziali e quattro accordi cuciti in croce sopra chitarre più che normali ed una voce che non è voce ma con carambola lessicale può essere un prisma di rifrazione cristallo e pietra filosofale svettante in aria come un falcone.
Perché può nascere da un male oscuro che è difficile diagnosticare fra il passato appesa e il futuro, lì presente e pronta a scappare e la canzone diventa un sasso lama, martello, una polveriera che a volte morde e colpisce basso e a volte sventola come bandiera. La urli allora un giorno di rabbia la getti in faccia a chi non ti piace un grimaldello che apre ogni gabbia pronta ad irridere chi canta e tace. Però alla fine è fatta di fumo veste la stoffa delle illusioni, nebbie, ricordi, pena, profumo: son tutto questo le mie canzoni.
Questo, per quanto riguarda il perché. Per il come, avviciniamo e facciamo nostri due autorevoli conforti di Pensiero e Maitre-a-penser:
Negli antichi tempi dell’arte / i costruttori lavoravano con la massima cura / ogni parte minuscola e invisibile, / perché gli dei sono ovunque. [Henry
Wadsworth Longfellow (1807-1882)].
Il senso di questi versi è chiaro. Nei tempi antichi, artisti e artigiani non si concedevano scorciatoie. Lavoravano con attenzione, e curavano ogni aspetto della loro opera. Prendevano in considerazione ogni parte del prodotto, e ciascuna era progettata e realizzata esattamente come avrebbe dovuto.
Non allentavano la loro attenta autodisciplina nemmeno riguardo ad aspetti che di norma non sarebbero stati visibili. Anche se nessuno si sarebbe mai accorto di tali imperfezioni, loro dovevano rispondere alla propria coscienza. Perciò, non si nascondeva lo sporco sotto il tappeto. O, si potrebbe forse dire, non c’erano stronzate. [Harry
G. Frankfurt (in Stronzate. Un saggio filosofico, dall’originario On Bullshit).
E anche:
Tutti i lavori di qualità devono avere un prezzo proporzionato all’abilità, al tempo, al costo e ai rischi inerenti la propria preparazione. I buoni prodotti non si ottengono mediante compromessi o attraverso modificazioni, e non si possono realizzare con piccola spesa. Qualunque sia il procedimento usato per la loro fabbricazione [creazione!], fruttano all’artefice assai meno di quelle cosiddette “a buon mercato”. [John Ruskin (1819-1900), anche abile dagherrotipista].
FOTOgraphia! ■ ■