2 minute read

Editoriale

Next Article
Noi poveri

Noi poveri

Anche è un congiuntivo (e avverbio) molto applicato nella lingua italiana di tutti i giorni. In un certo modo, che ci sta infastidendo oltre misura, sia nella vita quotidiana, sia in Fotografia, nostro territorio comune (forse), da tempo, è troppo usato. Soprattutto, viene applicato per tenere a distanza, per stabilire frontiere fortificate che non possano essere valicate, per sopravanzare con la propria la personalità altrui. Apparentemente, si declina “anche” fingendo di allacciare l’interlocutore a una condizione, soprattutto negativa, presuntamente comune. In realtà, è vero l’esatto opposto: non si crea alcuno spazio comune, nel momento nel quale se ne impone uno proprio a discapito altrui. Naturalmente (?), come spesso accade, soprattutto in Fotografia, entro i cui termini -probabilmente- agiamo tutti noi, il congiuntivo / avverbio “anche” serve per scartare a lato vicende proposte, spesso sostituite da altre e proprie, in modo da alternare il soggetto della conversazione. Ciò a dire che, quando iniziamo un racconto, per ovvi motivi in cadenza autobiografica, l’interlocutore interrompe, e -impugnando l’“anche” come arma travolgente- parte per la tangente in propria autobiografia. Per esempio, “ho acquistato una intensa monografia di XY, fotografo al quale non riconoscevo tanta e tale intensità espressiva...”. Prima di poter entrare in considerazioni, osservazioni, riflessioni e analisi, l’immancabile “anche” si affaccia alla ribalta in prepotente avvicendamento fonetico e di soggetto. “Anche io, ho acquistato un libro di KW, che mi ha affascinato...”, e il pallino della conversazione cambia direzione. Come dire, e diciamolo!, che l’arte della conversazione è andata perduta. Soprattutto, si è persa per strada la nozione principale del dialogo e del colloquio, che consiglierebbe, prima di altro, di ascoltare. Addirittura, in eccesso, questo sta sempre più accadendo anche quando si risponde a domande espresse. Si inizia a rispondere, e si è bloccati dal fatidico “anche” che slitta altrove, che non c’entra, che accantona le intenzioni originarie. Ho in testa anche un’altra forma di “anche”: quella che, in solidarietà intesa (?), cercherebbe di consolare disagi espressi, per quanto in misura rispettosamente lieve e non approfondita. “Ho disagi e problemi” (punto e basta); invece di crederci e stare cortesemente zitti, in comprensione, eccoci qui: “anche io”, “anche un mio amico”, “anche altri”. Concretamente, quando non stiamo proprio bene, non ci interessa sapere che altri vivono condizioni simili, e forse anche peggiori: tenderemmo (e tendiamo!) ad elevare noi stessi sopra tutto, in quanto... noi stessi... quantomeno, nel frangente. Per esempio, non si può ottenere solidarietà, né comprensione, da nessuno quando -supponiamo- si ha il mal di denti. A bocce ferme, siamo tutti consapevoli del dolore che provoca il mal di denti; ma, quando non l’abbiamo, è solo teoria. Così, non ci interessa nulla sapere che “anche” l’interlocutore avrebbe il raffreddore. Tanto per dire. Insomma, siamo espliciti: a volte, l’aiuto (?) può risultare opprimente. E, allora? Presto detto, la comprensione degli altri dovrebbe tornare in prima fila nei nostri rapporti sociali e di amicizia e di frequentazione: soprattutto, in Fotografia; per quanto, non soltanto in Fotografia. Via... concediamo spazio agli altri, ascoltando: condizione base per la buona conversazione, per l’apprendimento individuale, per qualsivoglia conoscenza. Anche . Maurizio Rebuzzini

Advertisement

This article is from: