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Grazie, William

Lo scorso dieci settembre, a novantasei anni, è mancato William Klein, a tutti gli effetti uno dei più innovativi fotografi del secondo Novecento, che ha contribuito a traghettare la Fotografia da un prima di buone intenzioni a un dopo di consapevolezza espressiva. In ricordo, in due tempi (e mezzo). Uno: valore e influenza della sua monografia Life Is Good & Good for You in New York: William Klein Trance Witness Revels, semplicemente storicizzato come New York, del 1956, in parallelo con altri due titoli degli stessi anni Cinquanta del Novecento (Images à la sauvette / The Decisive Moment, di Henri CartierBresson, del 1952, e The Americans / Gli americani, di Robert Frank, del 1958-1959). Due: intervista rilasciata a Antonio Ria, nel Duemilauno. E mezzo: nutrita quantità e qualità di dediche personalizzate su sue monografie

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Generalmente (e genericamente?) semplificato in New York, richiamo inequivocabile sulla copertina originaria del 1956 della monografia di William Klein, fondamentale nella Storia della Fotografia, il titolo effettivo e completo è Life Is Good & Good for You in New York: William Klein Trance Whitness Revels.

di Maurizio Rebuzzini (con Antonio Ria)

Nel corso degli anni Cinquanta del Novecento, tre monografie hanno impresso una sostanziale svolta al linguaggio fotografico, traghettandolo da un prima di buone intenzioni a un dopo di consapevolezza espressiva, che si è allungato avanti nei decenni, approdando fino ai nostri giorni (almeno, lo speriamo). Comprensibilmente, ci riferiamo alla fotografia del e dal vero, avvincente applicazione per la registrazione (documentazione?) della vita nel proprio svolgersi.

In origine, c’è stato Images à la sauvette (Immagini di nascosto?), di Henri Cartier-Bresson (1908-2004), pubblicato da Éditions Verve, nel 1952, con simultanea edizione statunitense Simon and Schuster The Decisive Moment (Il momento decisivo); e attuale riedizione anastatica Steidl, del 2014. Da qui, generazioni di fotografi si sono ispirati per un avvicinamento lieve e rispettoso, alle vite altrui, congelando per sempre istanti che avrebbero dovuto (?) rimanere effimeri.

Nella vita odierna, ricca di contraddizioni e povera di emozioni autentiche, c’è tanto bisogno di certa fotografia. Abbiamo soprattutto bisogno della sua capacità di discernere dall’insieme quell’istante significativo, dal quale ognuno di noi può decollare per pensieri propri, per osservazioni individuali. È il momento decisivo, che Henri Cartier-Bresson ha fatto proprio (e nostro!), riprendendo un pensiero del Cardinale de Retz (Jean François Paul de Gondi; 1613-1679): «Non vi è alcunché a questo mondo che non abbia un momento decisivo».

È giusto il momento decisivo, che Henri Cartier-Bresson ha addirittura teorizzato in forma fotografica, introducendo l’originaria raccolta di sue immagini, pubblicata a quarantaquattro anni: per l’appunto, Images à la sauvette / The Decisive Moment, monografia eccezionale e unica, fondamentale per un certo uso della Fotografia.

Anche a ancora qui, rimandiamo gli approfondimenti al testo introduttivo, sostanziale come pochi, in traduzione italiana presso Agorà Editrice di Torino (in Fotografi sulla fotografia; seconda edizione 2004). Ma, in estratto e richiamo e Credo (perché no?), si impone un passaggio di Henri Cartier-Bresson: «A volte c’è un’unica immagine la cui struttura compositiva ha un tale vigore e una tale ricchezza, e il cui contenu-

to irradia a tal punto al di fuori di essa, che questa singola immagine è in sé un’intera narrazione».

DOPO HCB: ROBERT FRANK A fine decennio, nel 1958-1959, è stata la volta di The Americans (Gli americani), di Robert Frank (1924-2019): a propria volta, una delle raccolte fotografiche discriminanti della Storia della Fotografia, quantomeno dal punto di vista di coloro i quali se ne occupano e la intendono come materia / espressione / disciplina tenuta in considerazione (per il resto, il grande pubblico è completamente estraneo e distante dalle nostre sottigliezze lessicali).

«Un libro diventa un classico, quando condensa in una vicenda individuale una grande esperienza collettiva; quando narra una storia concretamente e irriducibilmente personale, che esprime quella di tutti». Questo è l’incipt con il quale, nel giugno Duemilaotto, dalle pagine del Corriere della Sera, Claudio Magris ha ricordato lo scrittore Mario Rigoni Stern, mancato ad Asiago lunedì sedici.

Ancora una di quelle coincidenze, che, come sempre rileviamo, sarebbero i soli accadimenti che possono/possano far

Maurizio Rebuzzini

sospettare che la vita possa avere anche senso. Nel Duemilaotto, la stessa sera di lunedì sedici giugno è stata ufficialmente presentata l’attuale riedizione Contrasto Books di The Americans / Gli americani, di Robert Frank, nel cinquantenario dall’origine, per la quale Ferdinando Scianna ha espresso analoghe considerazioni di “classico” della Fotografia.

Nel 1955, il giovane fotografo svizzero Robert Frank, trapiantato a New York, ottiene una borsa di studio dalla John Simon Guggenheim Memorial Foundation, per comodità sempre semplificata in Fondazione Guggenheim, per realizzare un lavoro fotografico sugli Stati Uniti. Con una Ford di seconda mano, così vuole e recita la leggenda, l’allora trentunenne Robert Frank percorse l’immenso paese, attraversando quarantotto dei suoi Stati. «Le strade, i volti delle persone incontrate, le piazze delle città, i bar e i negozi, i marciapiedi, i particolari più insignificanti passano e si fermano di fronte all’obiettivo intelligente e partecipe del fotografo», come recita la presentazione ufficiale del reportage.

Raccolte in monografia, le fotografie di The Americans si imposero presto come una delle svolte fondamentali e

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discriminanti del linguaggio fotografico (sempre in riferimento a chi ne è consapevole e lo frequenta), aggiungendosi all’immediatamente precedente Life Is Good & Good for You in New York: William Klein Trance Witness Revels [grafia che adottiamo], semplicemente storicizzato come New York, di William Klein, del 1956, al quale intendiamo approdare, prendendola lunga e larga.

Autentico “poema per immagini”, dedicato alla strada americana e alla sua nuova e sconsolata epopea, quello di Robert Frank è un reportage che, come pochi altri, ha segnato e rappresentato un’epoca, diventando e offrendosi come riferimento principale per generazioni di fotografi, dal quale in molti sono successivamente partiti e ri-partiti per fotografare, viaggiare e conoscere con lo sguardo. Verso la Vita.

Curiosamente, prima che negli Stati Uniti, Les Américains è stato pubblicato in Francia, nel 1958 (si storicizza addirittura il quindici maggio), dall’editore Robert Delpire, anche critico e storico, che tanto peso ha avuto nella Storia della Fotografia del secondo Novecento: dai primi anni Cinquanta, ha pubblicato Henri Cartier-Bresson, Robert Doisneau, Brassaï, Werner Bischof e altri autori che si sono successivamente imposti come autentici maestri. Più che selezione d’autore, questa prima edizione francese originaria Les Américains fu inserita in una collana che presentava i paesi stranieri attraverso parole e immagini, appunto Encyclopédie essentielle. Comunque, le ottantatré fotografie furono impaginate nello stesso ordine delle successive edizioni librarie americane e internazionali, con personalità d’autore (Robert Frank), tutte sulla pagina a destra. Sulla pagina a fonte, a sinistra, Alain Bosquet raccolse e ordinò testi di carattere storico e sociale sugli Stati Uniti.

Il successivo giugno 1959, la stessa impostazione editoriale caratterizzò l’edizione italiana Gli americani, che Il Saggiatore pubblicò nella propria collana Specchio del mondo - Sezione storia, modificando leggermente i testi originari, con una ulteriore selezione di autori italiani (a cura di Raffaele Crovi). La copertina riprende l’originaria impostazione di Robert Delpire, con due disegni di Saul Steinberg, uno in fronte e l’altro in retro.

Nello stesso 1959, negli Stati Uniti, Grove Press di New York pubblicò quella che possiamo storicizzare come l’edizione originaria della raccolta The Americans, di Robert Frank, così come l’abbiamo intesa per decenni: dai ventiquattromila scatti, realizzati da Robert Frank tra il 1955 e 1956, la selezione di ottantatré immagini ribadisce la sequenza del volume di Robert Delpire, ma questa nuova edizione e messa in pagina è autentica opera d’autore, non più banalizzata illustrazione geo-politica (propria dei precedenti volumi di Robert Delpire e Il Saggiatore). La sequenza di fotografie è introdotta da un testo di Jack Kerouak; e, sulla pagina sinistra, bianca, a fronte della consecuzione delle immagini, pubblicate soltanto sulla facciata di destra, Robert Frank ha aggiunto la sola indicazione dei luoghi. WILLIAM KLEIN: NEW YORK Ora, dopo tanta introduzione/contestualizzazione, approdiamo all’attualità: per onorare William Klein, mancato lo scorso dieci settembre a novantasei anni (è nato il 19 aprile 1926). Come appena accennato, è l’autore della seconda delle tre monografie fotografiche stravolgenti sul linguaggio, pubblicate negli anni Cinquanta del Novecento. In ordine temporale: 1952, Images à la sauvette / The Decisive Moment, di Henri Cartier-Bresson; 1956; Life Is Good & Good for You in New York: Trance Witness Revels / New York, di William Klein, per l’appunto; 1958-1959, The Americans, di Robert Frank.

Con il suo New York, preparato nel 1954 e pubblicato nel 1956, William Klein ha dato una svolta al linguaggio fotografico. Quel suo racconto, al quale ne sono seguiti altri, fu una tappa fondamentale della comunicazione visiva: per la prima volta, il fotogiornalismo cambiò tono ed espressione. William Klein evidenziò come potesse esserci qualcosa di diverso da una storia raccontata fedelmente e con immagini narrative.

Volume rarissimo, mito, oggetto di culto, nel 1996, New York 1954.55 è stato ripubblicato in un’edizione internazionale, alla quale ha partecipato anche l’italiano Peliti Associati. Per dovere di cronaca, va rivelato che anche l’originario Life Is Good & Good for You in New York: Trance Witness Revels ha avuto una propria edizione italiana, del 1956 di riferimento, in monografia Feltrinelli, completa di opuscolo/traduzione allegato: e, sia chiaro, è proprio questa integrità che ne determina la quotazione antiquaria... di stima economica sostanzialmente alta.

Proprio in relazione al “ritorno” di fine Novecento, edizione libraria più facil-

mente rintracciabile, è necessario che i lettori compiano un doveroso passo indietro, per tornare agli anni Cinquanta di origine, quando -presso gli addetti- la raccolta di William Klein ebbe un effetto stravolgente. Soprattutto abituati a un tipo di reportage che scandiva con ritmo lineare l’andamento delle storie raccontate, per la prima volta, gli osservatori si trovarono allora di fronte a un libro audace, irruente e irriverente, costruito attorno a una impaginazione apparentemente “sporca”, che colpiva direttamente al cuore.

A metà degli anni Cinquanta del Novecento, New York, di William Klein, espose una visione distante dal lucido sguardo indagatore con il quale altri avevano già raffigurato gli Stati Uniti (Henri Cartier-Bresson, nel 1947). Volontariamente e consapevolmente contrastate, più che contrastate (considerati gli stilemi del tempo, scanditi da grigi ben equilibrati), spesso raffigurate con avvicinamenti grandangolari in prossimità dei soggetti, le fotografie di William Klein si presentarono con neri profondi abbinati a toni alti brillanti, esaltati altresì da una grana evidente, fioccosa e aspra, perfettamente in sintonia con gli accostamenti dell’impaginazione, i tagli arditi e le accattivanti doppie pagine, che lo stesso William Klein aveva imposto. Presso i fotografi più sensibili l’impatto fu forte. ANCHE QUESTO E qui, e ora, non possiamo non tenere conto della tecnologia chimica di quei giorni, sempre e comunque per quel legame tra espressività e mediazione tecnica che siamo soliti considerare anche determinativa, magari a partire dalla lezione dell’Impressionismo pittorico, con le proprie inevitabili basi operative a supporto della creatività.

Da cui e per cui è imposto il richiamo temporale alla pellicola bianconero Kodak Tri-X, introdotta sul mercato internazionale il Primo novembre 1954, imponendosi come l’emulsione bianconero più rapida dell’intera offerta fotografica. I propri 400 Iso (ai tempi, 27 Din / 400 Asa) hanno suggestionato il modo di fotografare, l’interpretazione tonale del bianconero fotografico e lo stesso linguaggio espressivo della Fotografia, influenzato da una resa che poteva, e può ancora, essere indirizzata verso la completa distribuzione della scala dei grigi o nel senso di un volontario contrasto alterato e interpretato dall’autore.

A questo punto, è scontato riferirci esplicitamente alla forma del fantastico reportage New York, di William Klein, finalizzata a un contenuto che ha avviato e introdotto un nuovo modo di avvicinare e raffigurare il soggetto. In questo senso, in visione nazionale, va evocata la monografia Milano, Italia, di Mario Carrieri, in prima (e unica) edizione italiana 1959: sulle orme di New York, di William Klein.

Inoltre, in termini oggettivamente utilitaristici, l’alta sensibilità di 400 Iso (27 Din / 400 Asa, per chi ha frequentato questi codici antichi... agée) spinse la fotografia bianconero in luce ambiente, senza uso di flash, verso situazioni in precedenza proibitive. Da allora, luoghi di scarsa luminosità e movimenti hanno potuto essere fotografati con risultati eccellenti.

Fotografi professionisti ed esperti del settore hanno esaltato la pellicola Kodak Tri-X per la propria eccellente varietà tonale, l’ampia latitudine di esposizione e sviluppo e la peculiare struttura della grana, mai invadente, mai sovrapposta alla raffigurazione del soggetto fotografato.

Nelle confezioni dal rullo 35mm al medio formato 120/220 alle piane grande formato (dal 4x5 pollici in su), la pellicola Tri-X ha documentato il mondo, negli apparecchi fotografici di grandi autori, interpreti e fotogiornalisti dalla metà degli anni Cinquanta del Novecento. In testimonianza vicina ai nostri giorni attuali: «Quasi tutto quello che ho fotografato nella mia vita, è stato realizzato con la pellicola Tri-X», ha dichiarato Sebastião Salgado; «Sono così legato al Tri-X, che anche quando cerco di immaginare tutte le possibili sfumature di grigio, materializzo i miei pensieri con le tonalità riprodotte da questa fantastica emulsione».

INTERVISTA Comunque, sollecitati alla riflessione dalla scomparsa di William Klein, ci si può domandare perché, ancora oggi, a distanza di quasi settant’anni, la sua lezione conferma ancora una propria influenza? Addirittura, la ribadisce. Lasciamo la parola a un’intervista rilasciata a Antonio Ria, raffinato e colto lettore della comunicazione visiva contemporanea, nell’estate Duemilauno, quando anche noi incontrammo William Klein, intrattenendoci a parlare di baseball dei decenni gloriosi. Da qui... le dediche a sue monografie che riportiamo in queste stesse pagine. A seguire!

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William Klein, lei nasce e cresce a New York, a Manhattan. Nel 1948, a vent’anni, lascia gli Stati Uniti per Parigi. Perché questo trasferimento in Europa?

«Durante l’occupazione della Germania, io ero nell’Esercito americano. Ero venuto in Europa per svolgere il servizio militare. Ero nelle truppe d’occupazione.

«Sono stato inviato a Parigi durante il servizio di leva, perché stavano cercando venticinque soldati per fare un’esperienza di amicizia franco-americana: hanno visto nel mio dossier che ero uscito dall’Università a diciott’anni, che parlavo francese... Così ho passato un anno e mezzo del mio servizio militare alla Sorbona».

A Parigi, lei si interessa di pittura, frequenta gli atelier di grandi artisti, come Fernand Léger, espone (anche a Milano). Tornato a New York, nel 1954, inizia -invece- a fotografare: e compone un eccezionale diario fotografico del suo ritorno a New York (che, subito dopo, diventerà una monografia fondamentale).

Cosa l’ha spinta a lasciare la pittura per privilegiare il mezzo fotografico? Perché la fotografia?

«È stato un caso. Avevo esposto una mostra a Milano, e un architetto mi ha chiesto di dipingere dei pannelli ruotanti per un certo allestimento: di dipingerli da entrambe le parti. Ho fotografato questi pannelli, che giravano -erano pannelli astratti-, e ho visto che le forme astratte cambiavano col movimento, mentre i pannelli ruotavano. Così mi sono detto: forse la fotografia può portare un nuovo modo di “lavorare l’arte”.

«Ma non è solo questo. Sono arrivato a Parigi dopo la guerra, quella Parigi che sognavo fin da bambino. Sognavo di fare l’artista a Parigi come la “generazione perduta” (in America, si dice così): insomma, avevo sempre avuto questo desiderio. Sono rimasto un po’ deluso di Parigi: perciò mi sono rivolto più al Bauhaus e ai costruttivisti russi.

«L’idea di dedicarmi alla pittura, alla fotografia, alla grafica, al design, al cinema? Pensavo che fosse il ruolo di un artista oggi. Non ho lasciato la pittura: ho iniziato in più a fare fotografia». Già le sue prime fotografie su New York presentano uno stile proprio, innovativo, inconfondibile: l’uso esasperato dell’obiettivo grandangolare, primi piani che immettono direttamente nella scena, grande uso dello sfocato che accentua il movimento... In qualche modo, c’è Francis Bacon, la grande pittura innovativa del Novecento, la sua prima passione; ma c’è anche, annunciata, in prospettiva, l’altra sua forma espressiva dominante, la cinematografia, nell’esigenza di dare alle immagini fotografiche un forte senso di movimento.

Perché il suo passaggio al cinema, già nel 1958, con il suo primo film Broadway by Light? Perché il cinema, che continua a essere una parte predominante della sua espressione artistica, con una trentina di film, tra corti e lungometraggi?

«Ho sempre avuto voglia di fare cinema, ma non pensavo che avrei mai potuto arrivarci. Non sapevo da dove cominciare, come si fa un film, eccetera. D’altronde, pensavo anche di non essere in grado di fare fotografia, perché -quand’ero bambino- c’erano degli amici che avevano delle camere oscure, e tutta la faccenda mi sembrava molto complicata. Le prime fotografie che scattai, sviluppate nel negozietto all’angolo, erano tutte sfocate e in più, da una parte, col segno del mio dito...

«Mi dicevo: la fotografia è molto complicata, non potrò mai occuparmene. Ma quando ho avuto l’occasione di avere la mia prima camera oscura e vedere bene le fotografie che avevo scattato, ingrandirle io stesso, con l’inquadratura e gli effetti che volevo dare io, mi sono reso conto che c’era qualcosa che si poteva fare con la fotografia.

«Allora, ho realizzato il libro su New York. Una volta concretizzato il libro, ho pensato che da questo poteva venir fuori un film. Ho mostrato il libro a un produttore, insieme a un copione, con scene che si scontravano, una dopo l’altra, in una maniera assurda. Ho detto al produttore: “Guardi questo libro. Vorrei fare un film così, senza capo né coda, che mescoli tutto”. Il produttore ha detto no. Io ho fatto ugualmente il film, Broadway by Light, che era un po’ come un antidoto al libro.

«Dicevano che avevo fatto un libro troppo nero, troppo grunge, troppo violento. Ho risposto: “New York è così”. Ma poi mi sono detto: c’è un altro modo di mostrare la pressione, il lavaggio del cervello che si verifica in America, a New York; ed è mostrare le luci delle pubblicità sulle strade. È qualcosa di colorato, di bello, ma è altrettanto spaventoso quanto il libro, perché è un lavaggio del cervello subìto con piacere».

Lei ha sperimentato direttamente le tre grandi forme espressive e artistiche del Novecento: la pittura, la fotografia, il cinema.

Cosa può dirci di questa sua eccezionale esperienza?

«Non è poi così eccezionale. Pensavo che fosse una cosa normale che nel Ventesimo secolo ci si occupasse di pittura e, nello stesso tempo, anche di cinema e di fotografia. Trovo che sia normale essere multidisciplinari. D’altronde, i pittori sono sempre stati multidisciplinari. In Italia, Giotto e Michelangelo si interessavano di architettura, di urbanistica, di scultura, di progettazione. Perché allora -oggi- un pittore non dovrebbe frequentare fotografia, televisione, cinema? È normale».

Ma, per lei, quest’esperienza molteplice, cos’è stata? La possibilità di potersi esprimere in queste tre forme contemporaneamente cosa ha realmente significato?

«Gli scrittori dicono spesso: “Ho scritto lo stesso libro tutta la vita”. Io penso che, sia che mi occupi di pittura, sia di fotografia o di cinema, sono sempre io, è sempre un mio modo di esprimermi: è il mio autoritratto. Penso che non ci sia differenza. La tecnica è diversa, ma ciò che esprimo è più o meno lo stesso».

I suoi primi studi a New York City, quand’era giovane e pieno di speranze, sono stati di sociologia. Quindi, fin da ragazzo, aveva il desiderio di scoprire e conoscere la società.

In che modo queste tre arti -insieme e nella propria specificità- l’hanno aiutata a capire la realtà sociale?

«La realtà sociale... c’è tanto da dire: avrei voluto dirlo più spesso.

«D’altra parte, ho detto molto nel mio ultimo film uscito l’anno scorso, Le Messie (Il Messia). Ho usato il testo della Scrittura, di cui Jennings ha fatto un “montaggio” a metà del Diciottesimo secolo; le musiche sono di Haendel. Ma parlo del mondo di oggi.

«Quindi, è vero che c’è stato un momento in cui gli artisti sono stati portatori di una forma di rivelazione, di verità sulla società. In particolare gli scrittori: Victor Hugo, Dickens, gli scrittori americani della nostra epoca, tutta la letteratura del secolo. Ma non so se la verità sociologica si sia effettivamente rivelata attraverso la pittura.

«D’altronde, è uno dei motivi per cui, a un certo punto, io mi sono dato alla fotografia, perché la mia pittura era molto lontana dalla realtà: era pittura astratta, geometrica, una forma di ricerca grafica. Ero frustrato e pensavo: in effetti, con la fotografia posso dire cose che non sono in grado di dire con la pittura. E con il cinema ancora di più... verso una comunicazione globale».

Oltre a mirare, a conoscere e comunicare la vita vera, il suo linguaggio visivo è sempre stato accompagnato da una forte ricerca formale.

Come è possibile far convivere una finalità di conoscenza sociale con una ricerca “pura”, estetica, d’arte?

«Penso che non ci siano problemi. Goya faceva critica sociale e, nello stesso tempo, ricerca estetica. Le due combinazioni possono procedere molto bene insieme: l’ho sempre pensato».

Non le chiedo chi sono stati o considera suoi maestri: nella pittura, nella fotografia, nel cinema. Ma almeno, chi considera suoi punti di riferimento in queste tre arti?

«Penso a Charlot, Charlie Chaplin. Amavo molto il suo cinema. Gli americani sono stati i primi a elaborare questo cinema tragico, slapstick (grottesco). Nel nostro secolo, restano grandi artisti James Joyce, Picasso e Charlot. Penso che tutti e tre abbiano una visione del mondo piuttosto simile.

«Joyce adoperava i materiali di tutti i giorni -prosaici, popolari- per creare di nuovo l’odissea del romanzo; così faceva anche Picasso, coi collage: tutta la storia dell’arte è compressa in ciascuno dei suoi quadri; e Charlot, che di fatto è il miglior documentarista del mondo. Perché, se si vuole sapere come viveva la gente all’epoca in cui ha girato i suoi film, più che consultare documentari o altri mezzi di informazione, possiamo ricostruire dai suoi film le fabbriche, gli operai in fila in attesa di un lavoro qualsiasi, le zuffe coi gendarmi, il lavoro ai grandi magazzini, le pensioni famigliari in cui si vive dentro quelle ridicole stanze dove tutto cade a pezzi. Ebbene, io credo che la visione di quest’epoca, del Ventesimo secolo, non si sarebbe potuta rendere meglio.

«E poi, uscendo da un film di Charlot, penso che si sia vissuto tutto: l’assurdo, la tristezza, e anche la gioia. Perché vedere un suo film è comunque una grande gioia, anche se si è vicini alle lacrime per la maggior parte del tempo».

E nella fotografia, chi sono i suoi punti di riferimento? Ce ne sono, o no?

«Sì, ci sono dei fotografi che amo: e spesso sono americani. Walker Evans, per esempio: penso che abbia mostrato quello che sono veramente i muri, le case, la strada.

«In Francia, c’è Atget.

«Anche oggi, ci sono fotografi che amo molto, come Witkin, Les Krims... Ma non posso dire che ci sia un fotografo che io consideri mio vero modello».

Ora, vorrei concentrare il nostro discorso sulla sua ricerca fotografica. Tra i maestri della fotografia del secondo Novecento, lei è stato uno dei più innovatori, introducendo uno stile nuovo, violento e ironico, tra satira e poesia, anticipando Pop Art e Nouveau Réalisme.

In che modo inquadrature, ottiche, formato, metodi di stampa giocano in questo nuovo linguaggio visivo che lei ha realizzato? Insomma, vorremmo entrare in qualche maniera nel laboratorio segreto della sua ricerca fotografica...

«Quando mi sono avvicinato alla fotografia, ho avuto l’impressione che lì ci fosse pochissima ricerca. Nella pittura, nella scultura, nell’arte moderna si cercava qualcosa di nuovo e c’erano molti modi di trattare la pittura e le altre arti. Mentre nella fotografia la ricerca si era arenata. Pensavo che ciò fosse stupido e che bisognasse spingere la fotografia a liberare se stessa, perché la fotografia ha una propria specificità. La fotografia ha qualcosa che la pittura non ha.

«Si è sempre pensato che la composizione propria della pittura, ereditata dal Rinascimento (le prospettive, la sezione aurea, eccetera), si potesse applicare alla fotografia. Ma la fotografia ha qualcosa di assolutamente specifico: per esempio, se si cambia obiettivo si ha un altro tipo di prospettiva, se si tiene l’apparecchio di traverso si ha un’altra visione dell’orizzonte, un’altra visione della vita... Ora, questo è proprio della fotografia.

«Non si sfruttava abbastanza ciò che esiste nella fotografia e non esiste altrove. Per esempio, un’immagine la si può “tirare”, farla molto contrastata, molto scura, molto sgranata, solarizzata: si possono fare molte cose. Allora, questa immagine, che è davanti alla macchina fotografica, inizialmente può essere frutto di un punto di vista che dà luogo a un’inquadratura tipicamente fotografica; ma, per esempio, per me, la composizione era data spesso dalle masse, dalla folla, dal modo in cui le persone si incontrano, per strada o altrove: e si incontrano in modi molto diversi.

«Per me questo è un modo di comporre. Quindi, ritenevo che i fotografi non sfruttassero tutte le potenzialità della fotografia».

Per il suo stile, cos’è stato più importante, ai fini comunicativi: per esempio, la visione grandangolare, il “mosso”, le tecniche di stampa?

«Tutte queste componenti insieme. Una volta, in un film documentario su di me, dovevo illustrare le differenze tra i vari obiettivi: il grandangolare, l’obiettivo normale, il teleobiettivo. Allora, ho fatto un esperimento con la troupe. Ho detto: “Ora vi fotograferò col grandangolare, con l’obiettivo normale, eccetera”. Il risultato è stato un po’ strano: era sempre la stessa fotografia!

«Si è abituati a lavorare col grandangolare, perché tra la folla è più facile, permette di “catturare” molti particolari contemporaneamente, a una distanza ravvicinata. Ma se io avessi fatto disporre le persone secondo una certa “messa in scena”, avrei ottenuto lo stesso effetto con un obiettivo normale o con un teleobiettivo. Dunque, io amo un’immagine molto piena: piena di contraddizioni, di movimento, di folle, di visi, di tutto. Ma penso che usare un obiettivo piuttosto che un altro sia soprattutto una questione di comodità e non una regola».

Lei ha iniziato a fotografare mentre esercitava una pittura astratta, quasi a compensare o a contrapporre un’esigenza di astrattismo a una di realismo. Ma, nelle sue fotografie, è sempre presente una dimensione astratta. Forse questa dimensione dà alle sue immagini fotografiche una valenza di universalità, propria dell’arte?

«Si dice che oggi esiste un altro tipo di fotografia: la fotografia adoperata dai pittori, dagli artisti. È una nuova concezione della fotografia d’arte. Ma penso che le fotografie che ho realizzato in quel periodo, e che erano realiste -di un realismo, diciamo, “brutale”- erano comunque il lavoro di un artista che usava la fotografia.

«Ritenevo che ciò che andavo facendo fosse un modo di cambiare l’uso della fotografia. E se lei la definisce “astratta” o “d’arte” non ci sono problemi: per me, ogni volta, era una sorpresa e una nuova esperienza. Talvolta, mi succede di smettere di fotografare per un certo tempo. Questo perché non ho mai fotografato regolarmente, salvo quando lavoro a un grande progetto, per esempio a un libro: allora, fotografo giorno e notte, per un certo periodo. In quel caso, quando riprendo a fotografare, mi sembra di fotografare per la prima volta. Questo mi esalta. Amo questa “freschezza”, perché penso che se mi dedicassi alla fotografia regolarmente, alla fine diverrei indifferente e farei le cose meccanicamente».

Oltre che per le sue prime fotografie su New York negli anni Cinquanta -e per la novità che hanno significato nel linguaggio fotografico-, lei è noto in tutto il mondo per la nuova via che ha imposto alla fotografia di moda, portando il set sulla strada, incoraggiando le modelle a “recitare”, invece di posare.

Come è arrivato a questa “estetica da strada” nella moda? E in che modo la sua esperienza di pittore e di regista cinematografico ha influito in questa innovazione nella fotografia di moda?

«È stato un po’ al contrario. Perché, a quei tempi, la fotografia “personale” o creativa non si poteva vendere; non c’erano musei o gallerie che acquistassero fotografie, e nemmeno collezionisti. Se io regalavo una fotografia a qualcuno, la appendeva al muro con una puntina o la chiudeva in un cassetto. Oggi, quelle fotografie che io realizzavo per me stesso si vendono. Allora, però, non potevo guadagnare con questo genere di fotografia, e bisognava trovare il modo di mantenersi: mi hanno chiesto di scattare fotografie per la moda, e io le ho fatte. Ma, al di là del denaro che poteva procurarmi, ho pensato che fotografare per la moda fosse anche una sorta di “apprendistato per il cinema”, perché si è costretti a creare una messa in scena con indossatrici, lavorando con assistenti, in fretta, usando una scenografia...

«Penso proprio che questa sia stata una sorta di preparazione al cinema. Quindi, non è il cinema che mi ha portato a fare un certo tipo di fotografia di moda, bensì è stata la fotografia di moda a darmi l’opportunità di pensare che avrei potuto organizzare una situazione di regia che avrebbe potuto darmi indicazioni sulla condizione nella quale ci si trova obbligati a girare.

«Perché scattare fotografia in strada? Beh, io non sono il solo ad averlo fatto. Ci sono sempre stati fotografi che hanno realizzato immagini per la moda lungo la strada. È vero che io le faccio un po’ più sistematicamente di qualcun altro (ammesso, ma non concesso); ma mi ero stufato dello studio e pensavo che mostrare le modelle e gli abiti “in mezzo alla vita vera” sarebbe stato un modo di far “vivere” la situazione».

Negli ultimi anni, lei ha lavorato sui contatti fotografici, che sono come la materia prima del linguaggio fotografico. Li ha dipinti, colorati, quasi a voler ricuperare la sua prima vocazione alla pittura, intersecandola con la fotografia. Ha cosi trasformato il momento “primitivo”, che quasi nessuno mai vede, in un’opera d’arte.

Ci spieghi come è giunto a questa nuova scrittura fotografica, a questa nuova macchina narrativa, a questo nuovo linguaggio artistico. Da quali esigenze è stata motivata questa sua ultima ricerca?

«Questa serie di “contatti dipinti” è stata ispirata da una serie di film entro i quali ho introdotto molte innovazioni. Una decina di anni fa, mi è stato chiesto se avevo qualche idea per fare dei film sulla fotografia, per la televisione o per il cinema. Ho pensato che sarebbe stato interessante avere una cinepresa mobile, che riprendesse una strisciata di contatti e che il fotografo spiegasse perché aveva scelto una inquadratura piuttosto che un’altra [“contatto” è il risultato della stampa dell’intero rullo / rullino su un unico foglio].

«Era una lezione a più livelli: una lezione per lo spettatore, che imparava che il fotografo non riesce sempre a cogliere nel segno, a realizzare una immagine riuscita, e che a fianco c’è magari la fotografia “mancata” o una fotografia che è solo un’approssimazione di quella che poi si conosce. Ho constatato che, quando la cinepresa mobile riprendeva queste strisciate, si vedevano i segni fatti con la matita grassa. Ora, tutti i fotografi del mondo, per scegliere una fotografia, tracciano delle linee attorno, fanno dei riquadri, dei cerchi... E questa è un’altra maniera di mostrare le fotografie.

«Allora, c’era il boom della fotografia; io ero un idolo della fotografia. Perciò, mi sono detto: se devo tornare alla fotografia. devo mostrare le immagini in modo diverso. Dunque, questa esperienza è nata da queste due preoccupazioni: i film sui contatti e un modo nuovo di mostrare le fotografie. Mostrare certo l’immagine riuscita, ma anche quella vicina e prossima, che lo è di meno, e poi i segni che si tracciano per scegliere le fotografie. Ho pensato che si potessero enfatizzare questi segni, ingrandendoli per mezzo della pittura. Questo è ciò che ho fatto».

Nel suo primo libro fotografico su New York, già nel titolo, lei ha anticipato la sua concezione e definizione di fotografia, in tre parole.

Vuole dirci e spiegare lei stesso queste tre parole che definiscono il gesto del fotografare?

«Sì, il titolo del libro deriva da una frase pubblicitaria e dai titoli cubitali dei giornali, visioni che ho assorbito per anni. Non era New York, bensì Life Is Good & Good for You in New York (La vita è bella, ed è bella per te, a New York). A questo, ho aggiunto di seguito il mio nome e ho scritto: William Klein Trance Witness Revels. “Trance”, in inglese, è lo stato ipnotico e questo è un gioco di parole, perché spesso, sui giornali, si dice che un certo fatto è stato visto da un testimone -witness- che passava per caso.

«Dunque, un “testimone per caso”, un “chance witness” / ”trance witness”, dato che trance, per me, è lo stato in cui ci si trova quando si scatta una fotografia, mentre chance è il caso, che gioca anch’esso un ruolo fondamentale in questo processo. L’ultima parola, revels (in inglese, “revel” è la festa, il divertimento), è un altro gioco di parole col termine reveal, cioè rivelare. Allora, si “rivela” e si “esulta” nello stesso tempo, sempre che si intenda farlo».

Nelle sue fotografie, il senso tragico è sempre accompagnato da una sottile ironia.

Da cosa le deriva? Dall’antico humour ebraico newyorkese?

«Sì, il libro su New York è stato come una specie di humour da campo di concentramento. Lei ha ragione a parlare di humour newyorkese: si dice che nei campi di concentramento c’è sempre una sorta di humour ebraico, disperato. Certo, New York non è un campo di concentramento. Ma il mio libro è piuttosto tragico e, allo stesso tempo, lo trovavo così assurdo che pensavo... che era meglio ridere che piangere».

In che misura, William Klein, l’atto del fotografare è contemporaneamente e quasi inscindibilmente un atto fisico e un atto culturale?

«Beh, lei è indubbiamente perspicace, perché è vero che per me la fotografia è un gesto estremamente fisico. Penso che in questo consista la differenza tra la fotografia e le altre arti. Anche nella pittura c’è la “mano”, il “gesto” del pittore. Anzi, c’è stata una fase astratta della pittura newyorkese, molto violenta nel gesto, con il colore che colava dalle latte o dai tubetti: ecco, anche in quel caso il gesto contava molto.

«Ma il gesto conta davvero molto anche nella fotografia: se si è alti, si scattano fotografie più dall’alto; se si è bassi, più dal basso; se si è tra la folla c’è come una specie di eccitazione, ci si “getta” in mezzo alla gente, e poi bisogna indietreggiare... Insomma è un fatto molto fisico. Tuttavia, se la fotografia è un atto fisico, non è solo il corpo che entra in gioco: anche la testa è coinvolta. Dunque, è anche un atto culturale». Le questioni del movimento, del tempo e della forma, lei le aveva già affrontate da giovane nella sua ricerca pittorica negli atelier di Parigi.

In che modo questi tre problemi si sono poi presentati nella sua ricerca fotografica? E come li ha risolti? «È vero che io amo le fotografie che si muovono, che letteralmente si muovono. Amo molto il movimento, e ho anche accentuato il fatto del movimento con una delle tecniche della fotografia, cioè il “mosso”. Adopero molto il “mosso”, proprio per rendere il senso del movimento: quindi, con esposizioni lunghe, sovente in combinazione col flash, per cui si ha, insieme, un’immagine a fuoco e un’immagine mossa.

«Lei ha parlato degli atelier, della ricerca pittorica: ma la pittura, in fondo, è statica. Io credo che, in Italia, il Futurismo abbia cercato di infondere movimento nella pittura; ma, in generale, nella pittura il movimento non è un elemento che sia proposto sovente. La pittura è piuttosto statica, mentre invece nella fotografia il movimento è una delle materie prime fondamentali». La curiosità, si sa, è la prima qualità di un fotografo. Ma lei, più che un semplice “curioso dello sguardo” (un regardeur), è stato un attento lettore dei segni sociali, politici, culturali, estetici del nostro tempo. Soprattutto le sue fotografie, più che “dire il mondo” vogliono portarci a “leggere il mondo”: sono una continua “messa in scena” del mondo.

William Klein, alla fine, qual è la sua “lettura del mondo”?

«Mi hanno chiesto spesso chi erano le persone che ammiravo di più e io ho risposto proprio Charlie Chaplin. Io vedevo i film di Charlot come una perfetta “lettura del mondo”: una combinazione di assurdo e di esilarante, fino alle lacrime. Credo che, in effetti, viviamo in un mondo meraviglioso, ma disperato, strano, alla fine assurdo. Anche vivere e morire è piuttosto assurdo, ma che farci?

«Non abbiamo scelta». ■ ■

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