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Francesca Pomeri – Io proprio io vi racconto Rio

Io proprio io, vi racconto Rio Francesca POMERI

Osimo (An) il 18/02/1993

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Pallanuoto – Centro Vasca

Rio de Janeiro 2016 – Argento con il “Sette Rosa”

Alle Olimpiadi senti tutto più forte... è come entrare dentro una favola Pensando a nonno Attilio, il gol all’Australia

di Francesca Pomeri

Partecipare almeno una volta alle Olimpiadi: il sogno di ogni atleta, il sogno che dovrebbe avere ogni bambino che inizia a fare sport. Ma per me non fu così. Per una ragazzina che appena sedicenne lascia famiglia, amicizie, scuola, per uscire da quel paesino di nemmeno diecimila abitanti, Filottrano (An), e coltivare una passione che, chi lo poteva sapere, mi avrebbe portato alle Olimpiadi. Fu proprio così che i miei genitori acconsentirono a lasciarmi andare a Imperia, ancora ricordo precisamente i 622 chilometri che la separano da Filottrano, e quante volte li ho percorsi su e giù per tornare a casa.

È lì, a Imperia che iniziò tutto: crebbi come persona e come atleta. Con le ragazze di Imperia, guidate dall’allena-

tore Marco Capanna (che è ancora un grande amico per me) e il magnifico tifo della piscina Cascione, scrivemmo la storia: uno scudetto, due Coppe Europee e una Supercoppa. Furono anni indimenticabili, ma poi la magia lentamente scomparve e le nostre strade si divisero: chi cambiò squadra, chi andò all’estero, chi lasciò la pallanuoto. Io sapevo che l’unico modo per continuare a crescere era seguire Marco Capanna a Cosenza, un salto da nord a sud per provare a mettere un piede nella squadra Nazionale, dove da un po’ di tempo iniziavo a farmi spazio. A Cosenza furono gli anni dove iniziai a prendere coscienza di quello che ero, di che tipo di giocatrice potevo diventare, e di quali fossero i miei punti deboli per lavorarci sopra. Nel Club però non riuscivamo a raggiungere i risultati che tutti si aspettavano, per due anni faticammo a salvarci. Intanto però iniziavo a prendere posto nella Nazionale. Per via della mia timidezza, avevo difficoltà a confrontarmi con le ragazze con più esperienza, ma sono riuscita a farmi posto solo grazie al grande impegno e alla dedizione che mettevo negli allenamenti: volevo essere “il soldato perfetto”. Dello spogliatoio della Nazionale non c’è compagna che non ricordo con piacere: con alcune di loro sono cresciuta a Imperia, come Giulia Emmolo e Giulia Gorlero, con altre siamo state compagne dalla Nazionale giovanile, come Chiara Tabani, Elisa Queirolo; poi ho avuto modo di conoscere da compagne in Nazionale e non solo come avversarie sul campo, grandi campionesse come Roberta Bianconi, Rosaria Aiello, Arianna Garibotti, Tania Di Mario. Ognuna di loro ha lasciato qualcosa di indimenticabile dentro di me, difficile dimenticarsi le persone con cui hai sudato tanto, fianco a fianco, per costruire un sogno comune: quelle “maledette” Olimpiadi! Ricordo bene quando iniziai a sentire che dentro di me stava prendendo forma quel sogno: partecipare alle Olimpiadi. Marzo 2016, avevamo appena conquistato la qualificazione olimpica al torneo di Gouda, e tornata a Cosenza decisi di adottare un cane. Avevo scelto una femmina, un cucciolo di maremmano: morbidosa, bianca candida, volevo chiamarla Rio. Poi ho pensato “e se non riuscirò ad andare alle Olimpiadi?”, così le misi di nome… Nana.

La preparazione estiva fu estenuante, sia dal punto di vista fisico, che mentale, soprattutto per chi come me non era certa di avere un posto fra le 13 convocate per il Brasile. Ma dal giorno che l’allenatore Conti pubblicò le convocate, fu tutto irreale, quasi come vivere dentro ad una favola. A chi mi chiede cosa si prova ad andare alle Olimpiadi riesco a dare una sola risposta: è come vivere una vita a parte, in un mondo parallelo; può scoppiare la terza guerra mondiale, ma nel Villaggio Olimpico si continua a vivere solo di sport. Se ci si pensa bene, dal punto di vista tecnico, il torneo olimpico è uguale a qualsiasi altro torneo: 3 partite di girone, quarti, semifinale e finale. Ma alle Olimpiadi ogni emozione è amplificata, senti tutto più forte, dagli applausi del pubblico ai fischi degli arbitri, all’inno prima della partita. Ed è stato proprio durante l’inno d’Italia prima della partita con l’Australia che ricordo il momento più emozionante delle mie Olimpiadi: mentre cantavo l’inno di Mameli (a squarciagola come al solito, anche se sono stonata come una campana) mi chiesi se mio nonno paterno, nonno Attilio, morto da ormai 16 anni, sarebbe stato fiero di me e se mi stava guardando da lassù. In quel momento mi si incrinò la voce, una lacrima mi scese dagli occhi, ma con il SI’ che chiude l’inno ritorno con la concentrazione al campo. Non sapevo ancora che avrei segnato il mio primo e unico gol del torneo (non mi dispiace la cosa, mi considero un soldato e non una bomber), ma soprattutto non sapevo che quel giorno era anche il compleanno del mio caro nonno. In questo episodio è riassunto il mio torneo olimpico. Le emozioni sono state tantissime, positive ma anche negative, e la soddisfazione di salire sul podio anche se per il secondo posto, ricevere la medaglia anche se d’argento, è stata enorme. Me ne sono resa conto quando scoprii che nella mia piccola Filottrano, avevano allestito un maxischermo in piazza per vedere la finale, e quando al mio rientro a casa, tutto il paese era in piazza ad applaudirmi e a cantare l’inno d’Italia con me. E’ stata una grande sorpresa che mai mi sarei aspettata da quella cittadina, senza piscina, che come diceva l’allenatore della Nazionale giovanile, Roberto Fiori, non è nemmeno sulla cartina geografica. Sono nata ad Osimo (An), è lì che ho mosso le mie prima bracciate, poi il trasferimento a Filottrano che al ritorno dai Giochi mi ha accolto come se fossi sempre stata lì. Invece ero via da 10 anni, anche per questo sentii il bisogno di tornare, di rivivere quel paese, quella casa, come mai avevo fatto in quegli anni. Dopo la bella avventura delle Olimpiadi tornai dai miei, giocai due anni con la squadra di Ancona, la Vela Nuoto, di cui ero il capitano, in serie A2. Raggiunsi con le ragazze di Ancona la massima serie, poi lasciai questo sport, a cui avevo dato tanto. C’è chi pensa che avrei potuto giocare ancora e che magari avrei potuto provare a giocarmi un’altra Olimpiade, ma io ero consapevole di aver dato tutto e ormai ero curiosa di scoprire com’è la vita fuori dalla piscina, la cosiddetta vita reale. Così, durante il grande lockdown imposto dal Covid-19, sono riuscita a laurearmi in Economia, e ora lavoro in banca (ancora a contratto determinato, ma incrociamo le dita…). Durante tutto questo percorso mi ha sempre accompagnato la mia famiglia. I miei genitori e i miei fratelli mi sono sempre stati vicini e mi hanno sostenuto in ogni minuto: dedico a loro tutti i grandi risultati raggiunti, non solo perché quando c’era da festeggiare l’hanno fatto con me, ma soprattutto perché nei momenti più difficili hanno sempre continuato a tifare per me. Non saprò mai quanto possa essere difficile lasciar andare tua figlia, di appena 16 anni, a più di 600 chilometri da casa, sapendo di poterla vedere un weekend al mese, quando va bene.

Senza questo loro grande sacrificio, non avrei fatto niente.

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