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Sabato 7 Ottobre 2017
PRIMO PIANO
Lo dice l’imprenditore Bepi Covre, leghista della prima ora, espulso dalla Lega da Salvini
Zaia rispetta la Costituzione Nell’indire il referendum sull’autonomia regionale DI
GOFFREDO PISTELLI
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uando l’attualità oscilla a pendolo fra il separatismo della Catalogna e l’autonomia dei referendum simbolici di Lombardia e Veneto, dalla rubrica telefonica spunta subito il nome di Giuseppe «Bepi» Covre, imprenditore di Oderzo (Treviso), che fu uno dei primissimi sindaci della Lega in Italia e uno dei primi parlamentari del Carroccio, salvo poi entrare in rotta di collisione con Umberto Bossi e finire per essere bollato come «eretico». «Ma a cacciarmi è stato Matteo Salvini, l’anno scorso, perché avevo deciso di sostenere il Sì al referendum di Matteo Renzi», dice al telefono. Covre, classe 1950, è un industriale del settore dell’arredo: «Siamo arrivati a quota 200 addetti, Pistelli, grazie al Jobs Act di Renzi: quel governo ha fatto cose ottime, almeno nel campo del lavoro. È stato un esecutivo che io definisco socialdemocratico di stampo nordeuropeo, a me è piaciuto». Domanda. Covre, partiamo dalla Catalogna. Che idea s’è fatto? Risposta. Guardi, la Spagna è un paese che amo. Ho clienti là, nella stessa Catalogna, ho anche un paio di commerciali, con cui ci siamo sentiti in questi giorni. D. E che idea s’è fatto? R. Hanno perso tutti, mi pare, ma Mariano Rajoy ha perso di più. D. Perché, doveva lasciar fare? R. Doveva fare come una campana rotta, dire a quella gente che stava perdendo tempo, che non era quella la via, che non risolvevano niente. Invece ha fatto manganellare. E il sangue, anche se poco, ricade sempre su chi lo fa versare. D. In Lombardia e Veneto è un’altra storia? R. Totalmente. Luca Zaia s’è mosso nelle legalità, nel rispetto della Costituzione. Io andrò a votare e voterò Sì. D. Ecco, spieghiamo perché. Secondo alcuni è una costosa e inutile parata, quella del 22 ottobre. R. Ho sentito il governatore emiliano-romagnolo. Come si chiama? D. Stefano Bonaccini. R. Già, Bonaccini. È venuto a Vicenza, col sindaco Achille Variati, per dire che otterrà più lui, dal governo, di quanto faranno Zaia e Roberto Maroni. D. Percorrono la via di un tavolo con Palazzo Chigi, mi pare. R. Beh, intanto lui è del Pd, come quelli che gli siederanno davanti, e quindi questo non è un grande argomento: il governo gli farà sponda. Gli chiederei piuttosto perché non ha comin-
ciato prima? Perché solo ora? È evidente che lo fa, e ottiene, grazie a quei referendum leghisti. Li conosco questi del Pd. D. In che senso? R. Il mio amico Gianclaudio Bressa, per esempio, che è un bellunese ma s’è impiantato in Trentino, guarda caso. D. Cioè ha scelto una regione autonoma? R. Appunto, Pistelli, appunto. Ma so che ci sono un bel po’ di sindaci piddini, del Veneto e della Lombardia, che non l’han presa bene, questa contrarietà al referendum, di non votare Sì per non dare soddisfazione a Zaia. Il governatore non ha bisogno di consenso, ce lo ha già! Ha stravinto le regionali e, nella hit parade dei presidenti di Regione, è in testa. D. A che cosa gli serve
Il governatore del Veneto cerca, con il voto, di avere più forza, liberamente espressa per via democratica (cioè con un voto) per trattare con Roma. Zaia, di per sé, non ha bisogno di propaganda: ha stravinto le regionali e, nella hit parade dei presidenti di Regione, è in testa questa mobilitazione? R. A trattare con Roma avendo il 70% dei Veneti dalla sua. Infatti, molto seriamente, quando domenica scorsa è stato intervista da Lucia Annunziata, a la domanda se non volesse fare, invece, il candidato premier del Lega, ha risposto che non è interessato. D. E cosa farà, secondo lei? R. Resterà in Veneto a costruire il percorso dell’autonomia, il giorno dopo al referendum. E questo il Pd non lo capisce, non lo vuol capire. D. Diciamo che cosa, Covre. R. Noi del Nord Est non è che abbiamo bisogno di più risorse perché vogliamo fare la bella vita. Non mi frega un cazzo, a me, che sto dieci ore in fabbrica e non riesco quasi a fare un po’ di ferie. Abbiamo bisogno di più risorse per esportare meglio, per essere competitivi. Perché con la globalizzazione, la competizione è mondiale, non è uno scherzo. Nelle nostre aziende abbiamo dovuto cambiare pelle tre volte, in vent’anni, e se non lo avessimo fatto saremmo chiusi oggi. D. Invece la sinistra? R. La sinistra pensa solo alla solidarietà. Sempre. Ma qui ci vuole innanzitutto responsabilità. Anche nel Sud. D. Il Mezzogiorno c’entra sempre? R. Certo. Scusi, l’altro giorno Salvatore Rossi, direttore generale di Bankitalia, scrive-
Giuseppe «Bepi» Covre va sul Foglio, «da meridionale, figlio di meridionali», un lungo elenco dei ritardi del Mezzogiorno: vive al Sud un terzo degli italiani che producono un quarto del Pil, esportano per un decimo di quello che fa l’Italia e hanno il 50% dei disoccupati. Ma la cifra peggiore è un’altra. D. E quale? R. Quel 10% di gap di efficienza che l’Ocse indica, rispetto al Nord, e che è dovuto alla mancanza di capitale sociale, di senso civico. Ma, dico io, dobbiamo sentirla fare a un tecnico di Palazzo Koch un’analisi così? Perché non la fa mai un politico, cazzo! Perché non la fa mai un politico meridionale, aggiungo. D. Perché, secondo lei? R. Perché perdono voti. Ma capiamo tutti che, così, non si può più andare avanti. Scusi, in Sicilia non riescono a riscuotere neanche le cartelle esattoriali, pare che in 10 anni abbiano perso 40 miliardi. Lei pensa che qualche candidato, nelle regionali che ci saranno a novembre, avrà il coraggio di dire che così non possono andare avanti? Solo l’autonomia del Nord, può invertire questa tendenza. D. Le risponderanno che voi siete i soliti egoisti. R. Ma no! Io pago dieci volte di più di tasse e contributi di quando ho cominciato. Lo chiedo per i miei figli, per i miei nipoti. D. La Lega ha perso tempo finora. R. Lo ho sempre detto, sono diventato «l’eretico» per quello: hanno perso tempo dietro al separatismo, poi si sono fatti prendere in giro da Silvio Berlusconi sulla devolution, nel senso che lui gli diceva di sì ma, al Sud, i suoi, garantivano che non se ne faceva niente. E poi c’aveva altro per la testa. D. Cioè? R. Le morose, quella roba là. Poi è arrivata la crisi e siamo qua. Da questi referendum può ricominciare un ragionamento equilibrato di autonomia. D. Ma, scusi, al suo Zaia non conveniva prendere la leadership delle Laga, invece di mettersi a fare le battaglie da lassù. R. Premessa: Salvini non mi sta per niente simpatico. D. Sfido, l’ha cacciata. R. Lasci perdere. Non è solo per quello. Era ferocemente con-
tro l’euro e io sono stato sempre a favore. Era antieuropeista e io convinto che questa Europa, migliorabile certo, ci serva eccome. Era un lepeniano e io non lo sono affatto. Insomma ha detto cazzate per anni… D. Sento arrivare un «ma». R. Giusto: ma tutto ciò premesso, credo che faccia bene a cercare di fare un partito nazionale purché non di destra, perché il federalismo non è né di destra né di sinistra, peraltro. Quindi il tentativo fa bene a farlo. Anche se ha qualche peccatuccio da farsi perdonare, in questo senso. D. Del tipo? R. A Napoli gli han tirato le uova, dicendogli ca nisciuno è fesso. D. Per via di alcune sue vecchie battute. R. Da consigliere comunale a Milano e da europarlamentare di fesserie ne ha sparate tante. Per rifarsi la verginità non basta più il Marocco. Dov’è..? D. A Casablanca. R. Già, Casablanca. Oggi c’è YouTube pronta a farti vedere quando cantavi che «senti che puzza/scappano i cani/stanno arrivando i napoletani». Insomma, avrà da farsi perdonare per diventare un leader anche da quelle parti. D. In questa Lega pare messo in un angolo il senatur Bossi. Lei è stato un suo
Noi del Nord non abbiamo bisogno di più risorse per fare la bella vita. Io sto dieci ore in fabbrica e non faccio le ferie. Noi abbiamo bisogno di più risorse per esportare meglio, per essere competitivi. La competizione mondiale non è uno scherzo ma una necessità avversario, a un certo punto. Ma che effetto le fa? R. Nella Lega c’era sempre il complesso del capo. Tutti si spellavano le mani. Io più di una volta gli ho detto: «No, Umberto, non sono d’accordo». D. Per esempio, quando? R. Quando era pro-Serbia e pro-Misolevic, nel 1999, si ricorda quando il governo di Massimo D’Alema bombardò. D. Lei cosa gli obiettò? R. Gli dissi che la mia gente, che viveva a 80 chilometri dal confine, dei comunisti slavi, come Milosevic, aveva un pessimo ricordo. D. E lui? R. E lui si arrabbiò di brutto: «Bepi, sei il solito democristiano e non capisci un cazzo, i comunisti non ci sono più!». Io gli risposi che eran sempre quelli. Un’altra volta, invece, davanti a 30-40 persone, al consiglio
nazionale veneto, a Padova, mi chiese un parere su una cosa: «E tu sindaco, cosa ne pensi?». E io glielo detti così, pubblicamente, anche un po’ controcorrente. Lui s’alzò in piedi per dirmi: «Fossero tutti come te, la Lega andrebbe meglio». L’uomo era fatto così. D. Qualche errore l’ha fatto. R. C’è stata una parentesi infelice, c’è stata la malattia, era circondato da pescecani. Sulla sua onestà personale non dubito. D. Un altro leghista sconfitto è Flavio Tosi. R. Lei non può sapere quanto mi dispiace! Con lui ho continuato a intrattenere un rapporto, anche quando è stato cacciato ed emarginato, come un traditore. Ma il tradimento, se esiste, lo si trova in amore, al massimo. D. Qualche passo falso l’ha fatto anche lui. R. Ha avuto anni fantastici di leadership, poi questo inutile corpo a corpo con Zaia. Io ne parlai anche alla compagna Patrizia Bisinella: dovevano andare d’accordo. Anzi insieme potevano fare grandi cose. D. E cioè? R. Cioè Tosi doveva prender la Lega, che è lombardocentrica, conquistando Via Bellerio, mentre Zaia doveva governare il Veneto. Tosi doveva portare pazienza. Invece s’è messo a fare un partitino nazionale da Verona, peccato. D. La sua amicizia con Zaia come nasce? Lei ha cominciato qualche anno prima. R. Sì, io ho fatto il parlamentare a metà degli anni 90, ma poi, tornato a casa, ho accettato volentieri di fare il consigliere provinciale, nel 2002, quando lui si candidò alla guida della provincia di Treviso. E in quell’occasione, lo vidi all’opera: grande capacità di fare squadra. D. «Razza Piave», direbbe Giancarlo Gentilini. R. Attenzione, io e Zaia siamo «sinistra Piave», lui di Conegliano, io di Santa Maria di Palù. D. C’è differenza, con la «destra Piave»? R. Urca! Il Trevigiano è tagliato a metà dal Piave, il nostro fiume sacro. Quando gli Austriaci furono fermati, nel 1917, i territori oltre la riva sinistra, rimasero per un anno sotto un’occupazione durissima: morirono di fame non so quanti. Cosa che, dall’altra sponda, non immaginarono neppure. Si dice ancora: «L’è brut come l’anno dea fame». Capisce? D. Capisco. R. Però avendo sofferto tanto, la gente è come stata forgiata, rafforzata, squadrata dalla storia. La «sinistra Piave» è l’unica che funziona in Italia, mi creda. © Riproduzione riservata