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PRIMO PIANO
Martedì 26 Luglio 2011
Divieto del sovrintendente di ricavare un bar sul belvedere del Museo in piazza Duomo a Milano
Sul Novecento non si bevano drink
Si vedono minacce laddove ci sarebbero solo delle opportunità DI
I
GOFFREDO PISTELLI
l ristorante sul belvedere del Museo? Niet. Accade a Milano, nella nuovissima struttura dedicata al Novecento nel palazzo dell’Arengario e che non è valsa a Letizia Moratti la rielezione a sindaco. Il sovrintendente Alberto Artioli ha infatti liquidato in un fiat la richiesta del ristorante “da Giacomo”, che già impiatta cotolette alla milanese ma anche pietanze al tartufo bianco all’ultimo piano del museo, dopo aver vinto un concorso comunale. Il ristoratore toscano Giacomo Bulleri, con insegne anche nell’elegante via Sottocorno, aveva chiesto alla direttrice della galleria, Marina Pugliesi, di allargarsi sul belvedere dell’edificio, la veranda, che sta in cima alla struttura progettata dagli architetti Peregalli e Rimini. Non è chiaro se l’imprenditore avesse prospettato un aggiornamento dei canoni e quindi maggiori introiti del museo ma la disponibilità della direttrice è stata appunto frustrata dall’autorità ultima del Sovrintendente. Artioli infatti sembra essersi subito adeguato al diktat di Stefano Boeri, assessore alla Cultura,
che giorni fa aveva esternato alla sua maniera in materia di utilizzo delle piazze più belle del centro. Frustrato dal fatto che il sindaco Giuliano Pisapia gli ha contingentato gli interventi nella sua materia di elezione (nel senso dei desiderata) e cioè l’Expo 2015, Boeri ha cominciato a fare la faccia feroce su argomenti dove sa che non sarà smentirà due secondi dopo. «Non faremo gli affittacamere a pagamento», aveva
ringhiato, preannunciando la linea dura, «non si vedranno più installazioni incongrue con il valore della piazza e delle architettura che la circondano». Artioli probabilmente s’è adeguato. D’altra parte siede anche lui al tavolo ad hoc, voluto da Boeri. Gli altri membri sono il responsabile dei trasporti, Pier Francesco Maran, l’assessore al Commercio, Franco D’Alfonso, e quello dello Sport, Chiara Bisconti. Boeri ha chiamato l’arciprete del Duomo,
Stefano Boeri
monsignor Luigi Manganini e il direttore della Fabbrica, Benigno Visconti. Proprio l’arciprete s’era infuriato, a Natale scorso, quando l’assessore al Commercio della Moratti, Maurizio Cadeo, aveva offerto il cuore di Milano ai gioiellieri di Tiffany, che ci avevano messo in un bel temporay shop dove, a migliaia, i cittadini avevano scelto di portare le loro tredicesime. Monsignore aveva parlato di sacrilegio, forse ancor di più di quando, un anno prima, la piazza era stata occupata per la preghiera dai musulmani milanesi, ma la boutique del gioiello, con albero di Natale annesso, era stata realizzata lo stesso. Artioli invece s’era scagliato con la Torre di luce, grande istallazione luminosa prevista dal Led festival sponsorizzato politicamente dallo stesso Cadeo, che doveva sorgere nella piazza di fronte alla cattedrale, più o meno nello stesso periodo. “Inopportuna”, aveva detto anche in quell’occasione, negando il benestare e ottenendo che l’opera fosse spostata sul retro del Duomo, spalleggiato per l’occasione dall’assessore alla Cultura d’allora, il teatrante Massi-
miliano Finazzer Flory. Erano state evidentemente giudicate “opportune” dal Sovrintentendente altre iniziative di vario genere che, negli ultimi anni, avevano trasformato la piazza in un suk, dalle mostre di auto d’epoca al museo del rock del dj Red Ronnie, peraltro anche consulente del sindaco Moratti nello stesso periodo. Ma per la teoria degli opposti estremismi dell’arredo urbano, la piazza Duomo e quanto la circonda sembrano ora passare dalla stagione fieristica, in cui il criterio principe era l’introito per le casse comunali e la visibilità del singolo assessore, alla pulizia un po’ sovietica di Boeri che, col suo passato di militante dell’extrasinistra, sa come interpretare. Il no alla allargamento del ristorante all’Arengario, pronunciato da Artioli ma in qualche modo suggerito dallo stesso assessore, la dice lunga. Business e cultura insieme? Orrore, anzi “ovvove”, ripetono all’unisono i Boeri boys, dai solotti in cui amano ritrovarsi a criticare il sindaco Pisapia, il cementificatore dell’Expo. © Riproduzione riservata
E GUAI A CHI PARLA DI PRESUNZIONE DI COLPEVOLEZZA PER GLI UNI E DI INNOCENZA PER GLI ALTRI
Papa è colpevolissimo. Penati invece è innocentissimo DI
DIEGO GABUTTI
Come la nebbia in Val Padana, anche gli scontri in Val di Susa, un fenomeno atmosferico tipico sia delle mezze stagioni che di quelle intere, sono diventati un classico della nostra metereologia. *** Temo, invece, che non diventeranno mai un classico della nostra climatologia politica e nemmeno una costante della nostra scena pubblica, come gli acquazzoni estivi e l’abitudine di portarsi dietro l’ombrello quando il cielo si copre di nuvoloni scuri, le adunanze (ad usum tigì della sera e talk show a seguire) dei leader del cosiddetto ma più che altro sedicente Terzo Polo: Pier Ferdinando Casini dell’Udc e quell’altro tizio (come si chiama? ma sì, il cognato di Giancarlo Tulliani, l’amico d’Italo Bocchino) che presiede la camera dei deputati e guida i due o tre futuristi ancora su piazza alla conquista di Palazzo Chigi. No, mi sbaglio, scusate. Quello che vuole conquistare Palazzo Chigi è Nichi Vendola (già «compagno», oggi «amico», non so, oppure «fratello») mentre Coso al più si ripromette il bivacco dei suoi manipoli nelle aule sorde e grige delle istituzioni democratiche imbelli. *** «Mezzo secolo fa, quando i reparti del KGB deportavano cittadini dagli stati baltici che l’URSS aveva invaso e soppresso, c’erano anche i filatelici tra le categorie sociali da prelevare» (Iosif Bodskij, Profilo di Clio, Adelphi 2003).
Alfonso Papa — così ha deciso la procura che l’ha tratto in arresto — non potrà votare in aula, né tanto meno partecipare alle sedute del parlamento, come aveva chiesto. Potrebbe inquinare con la sua presenza fisica (ma possiamo star sicuri che inquinerebbe anche per posta o in teleconferenza e persino via piccione viaggiatore, come nelle storie di Paperino) il risultato delle votazioni parlamentari. Da quel bandito che è, le farebbe pendere dalla parte della maggioranza. *** Ancora una quindicina o una ventina d’arresti e (come per magia, senza bisogno di ribaltoni) il sole tornerà a splendere sulla repubblica. *** Ma Alfonso Papa — da magistrato, dall’altra parte della porta della prigione — che cosa rispondeva alle persone che aveva fatto arrestare quando gli chiedevano di poter tornare a casa la sera per dare il bacio della buonanotte ai bambini o anche per farsi una doccia e guardare un po’ di tivù o per passare una serata con gli amici, cose molto più importanti che votare di persona leggi ad personam? Rispondeva «prego, s’accomodi» o «ma mi faccia il piacere»? *** Mentre il piquattrista (e magistrato senza stipendio) Alfonso Papa, colpevolissimo fino a prova contraria, se ne sta dietro le sbarre a ripassarsi il codice penale, il vicepresidente della Regione Lombardia Filippo Penati, già braccio destro di Pier Luigi Bersani, accusato d’aver
intascato tangenti in tempi sia remoti che recenti, si dimette dalla vicepresidenza della regione ma non dalla carica di consigliere regionale né tanto meno dallo stipendio e rimane insomma dov’è, innocentissimo — lui, Penati — fino a prova contraria. Si va avanti così da più di vent’anni, presunzione di colpevolezza per gli uni ma non per gli altri, e sia anatema su chiunque osa parlare di più pesi e più misure. *** «Poi la macchina delle calunnie si volse contro Giuliano, tratto di recente in giudizio a Milano (lui, che sarebbe diventato un imperatore memorabile). Capitava però a volte che i ricchi, battendo alle porte delle case dei potenti comprassero l’assoluzione pagando somme ingenti, mentre i poveri erano condannati in modo sconsiderato. Così la verità veniva nascosta dalla menzogna e il falso ebbe forza a volte di vero» (Ammiano Marcellino, Storie, Mondadori 2001). *** Secondo il Cavaliere, che non ricorre agli eufemismi per buona educazione né per timidezza ma per arruffianarsi gli alleati insolenti e sleali, il ministro Roberto Maroni è «un po’ discolo». Se dopo averlo tramortito due volte in aula, prima mandando Alfonso Papa in galera e poi bruciando il provvedimento antispazzatura della maggioranza, Maroni l’avesse anche preso a schiaffi e pugni, il Cavaliere si sarebbe rialzato da terra e, asciugandosi il sangue dal naso, avrebbe detto con un bel sorriso: «Be’, Bobo, oggi sei un po’ nervosetto».
Ci sono due Leghe, una pro e una anti, una ormai mezza decisa al ribaltone e l’altra dura, berlusconiana fino alla morte, come piace credere agli opinionisti, che per lo più tifano Maroni contro Bossi, il primo «costola della sinistra», il secondo un troglodita? Oppure c’è una Lega sola, sempre eguale, sempre la stessa, che prende per il cecio amici e nemici, elettori e giornalisti, cittadini e valligiani, recitando in eterno la commedia del druida buono e del druida cattivo? *** Due soli sono autorizzati a recitare una parte nella commedia celtica: Maroni e Bossi (tra un po’, mangiata qualche altra pagnotta, forse anche il Trota). Gli altri leghisti, chiamati ogni giorno in causa nei talk show, devono limitarsi a dire che nella Lega non ci sono divergenze, che tutti seguono ciecamente il Capo (Maroni più di tutti) e che la lega ha una parola sola, quella del capotribù. Dicono la verità, ma come capita a tutti i bugiardi non sono creduti. Bobo e l’Umberto sorridono. *** «Questa invasione del cervello da parte d’espressioni preconfezionate (gettare le fondamenta, compiere una radicale trasformazione) può essere evitata soltanto se si è costantemente in guardia contro di esse, altrimenti ogni frase fatta anestetizzerà una parte della nostra mente» (George Orwell, La politica e la lingua inglese, in Nel ventre della balena e altri saggi, Rizzoli 1996). © Riproduzione riservata