Intervista a Luigino Bruni, ItaliaOggi 24 dicembre 2016

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Sabato 24 Dicembre 2016

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Potrebbe capitare perché chi ha preso più voti è stato sospeso da una condanna di due anni

Una donna musulmana come premier In Romania, un paese diviso a maggioranza ortodossa da New York ALBERTO PASOLINI ZANELLI

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uropa mai tanto varia da quando è unita. Il più fantasioso degli esperimenti (e il più «coraggioso» date le coincidenze) potrebbe diventare realtà da un’ora all’altra e nemmeno probabile nel Paese. Un primo ministro di religione islamica è sul punto di assumere il potere in una terra, la Romania, che nella sua lunga e tormentata storia ne ha viste davvero di tutti i colori ma non si era mai spinta tanto in là. Le ultime elezioni hanno portato a un capovolgimento fra maggioranza e minoranza. Il governo di centrodestra, al comando nell’ultima legislatura, è stato sconfitto dal risorgente Partito socialdemocratico, che ha ottenuto il 45 per cento dei voti e la maggioranza dei seggi assieme al suo alleato liberaldemocratico. Tutti aspettavano dun-

que che il leader del partito più forte, Liviu Dragnea, fosse incaricato di formare il nuovo governo. Ma Dragnea non può farlo perché sta scontando una condanna a due anni di carcere sotto accuse di brogli elettorali. Egli deve aspettare prima di tornare al timone e nominare dunque un premier di temporanea emergenza. Tutti si aspettavano dunque che passasse la mano al numero due della socialdemocratica. E lui lo ha fatto. Scegliendo però un personaggio inatteso. La Romania è un Paese fortemente nazionalista, anche a causa della sua storia tormentata; che lo ha visto oscillare fra domini estranei, guerre civili che hanno lasciato alla storia l’esperienza e il mito di Dracula e delle sue crudeltà, di una lunga lotta contro il dominio turco e un’amministrazione dai turchi affidata ai greci, ostilità tenaci nei confronti dell’Ungheria e della Russia, un regime filona-

zista, un totalitarismo sovietico semisecolare, la colorita dittatura di Ceausescu poi perfino un governo affidato all’ex re. La Romania è un Paese fondamentalmente di religione ortodossa, con una presenza attiva delle minoranze: l’attuale presidente della Repubblica, Klaus Iohannis, è un tedesco della Transilvania, protestante. E adesso deve decidere se affidare la guida del governo a un politico ancora più «originale» e sperimentale. Si chiama Sevil Shhaideh. È una donna. È musulmana. Etnicamente è una tartara che ha sposato un siriano. Ce n’è abbastanza per suscitare qualche polemica e soprattutto un certo stupore. Ha poco più di 50 anni, ma ha una certa esperienza politica e addirittura di governo: nella precedente incarnazione socialdemocratica è stata per sei mesi ministro per lo sviluppo regionale, sempre molto vicina poli-

ticamente a Dragnea. Ma non il suo atteso successore. Tutti si aspettavano che quest’ultimo proponesse un interim con la prospettiva di continuare a dirigere gli affari di governo fino alla sua «riabilitazione». I socialisti non sono abituati a vincere, i romeni lo sono ad essere accusati di una versione locale del nazionalclericalismo, chiamato a Bucarest «ortodossismo» e la migliore difesa, deve avere pensato Dragnea, è portare avanti una donna tartara, musulmana e sposata con un siriano. La signora Shhaideh è considerata più una manager che una donna di partito politico. È una economista che per molti anni ha ricoperto incarichi burocratici in una amministrazione regionale, a Costanza, un porto sul Mar Nero. Ha delle proprietà, ma in Siria. Dalla sua ha dei precedenti nel mondo islamico: Tansu Ciller fu, vent’anni fa, il primo premier femmina della Turchia e Atifete Jahjaga

è stata presidente del Kosovo per cinque anni e fino a pochi mesi fa. Ma i precedenti non sembrano rassicurare l’opinione pubblica in un momento in cui le tensioni sono forti in Europa a causa delle ondate di immigranti dal Medio Oriente. I tartari, tuttavia, sono conosciuti per la loro moderazione religiosa, per un islamismo moderno, più noto nella sua versione della Crimea, dove costituiscono la minoranza più forte dopo gli ucraini. Sevil Shhaideh, tra l’altro, ha sempre girato a capo scoperto, il che dovrebbe o almeno potrebbe tranquillizzare le ansie antislamiche. Dopotutto i precedenti non mancano in Europa e nel mondo. Il sindaco di Londra è da quasi un anno musulmano, ministri di quel background religioso sono da tempo una presenza tradizionale nei governi francesi. E forse il nuovo leader del Partito democratico Usa potrebbe essere un musulmano. Pasolini.zanelli@gmail.com

RITORNA DI MODA, NEI FATTI, LA TESI CHE IL POVERO, IL MALATO È COLPEVOLE DEL SUO STATO

Contro la tesi che il povero se la meriterebbe Un economista della Lumsa rispolvera adesso il Libro di Giobbe DI

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GOFFREDO PISTELLI

uigino Bruni, ascolano, classe 1966, insegna alla Lumsa di Roma, dove è ordinario di Economia politica, ma ha portato da poco in libreria, per le Edizioni Dehoniane di Bologna-Edb, La sventura di un uomo giusto. Una rilettura del libro di Giobbe. Domanda. Professore, che c’azzecca lei, uno studioso dell’economia, dell’economia civile certo, con un personaggio biblico? Risposta. Ma il Libro di Giobbe è un’opera straordinaria, delle più belle. In ebraico, poi, è un pezzo di letteratura, è una trama di bellezza. D. Capisco, ma serve all’oggi? R. Ha ispirato arte e letteratura. Le dico di più: non possiamo capire oggi, fino in fondo, Leopardi, Dostoevskij, lo stesso Kafka, se non capiamo quel libro. D. Ci siamo distratti, nei decenni, dunque. R. Ma perché guardiamo la Bibbia con uno schema, imprigionati in un a priori: che si tratti, cioè, solo di faccende religiose. D. Non lo sono? R. Certo, che sì. Ma sono anche antropologiche: il Libro di Giobbe, ma anche il Qoelet, e i Profeti sono anche testi della grande saggezza umana. D. Qual è, professore, l’attualità di quel pensiero? R. Il grande tema è la distinzione fra la povertà, o per meglio dire la sventura, di una persona, dalla sua colpa. Nella religione «economica» di quel tempo, il povero, il malato, era colpevole in quanto tale. E così la sventura era doppia: era la maledizione di Dio, un’ingiustizia pazzesca. D. Invece Giobbe?

R. Giobbe è il tentativo di dire che lo sventurato non è ingiusto e viceversa. Lui, Giobbe, finito in malora, deprivato di tutto, senza colpa alcuna, chiede conto a Dio, lo chiama a processo, gli chiede perché esiste il dolore degli innocenti: «Se non sei un idolo, spiegami». Alla fine, quasi sfinito, è tentato di credere anche lui che sia così, come gli dicono i quattro amici che cercando di convincerlo, in realtà i suoi carnefici D. Sta quasi per chiedere il rito abbreviato, si direbbe oggi. R. Sta quasi per patteggiare, infatti, ma resiste, va avanti fino in fondo a chiedere. D. E Dio risponde. R. Sì, arriva nel processo, ma è meno interessante delle domande incessanti di Giobbe. Infatti gli studiosi hanno successivamente spiegato che si tratta di un lavoro redazionale ex-post: i rabbini aggiustarono il finale, con Dio che arriva e rimette in riga l’impudente. In realtà, il vero Libro di Giobbe terminerebbe proprio senza la risposta di Dio, aperto a tutte le risposte. D. Una rivoluzione, in certo qual modo. R. Una rivoluzione antropologica, una storia di un’umanità pazzesca, che noi moderni abbiamo a lungo dimenticato, malgrado poi il Vangelo avesse detto cose che, senza Giobbe, non si potevano capire fino in fondo. Pensi all’episodio del cieco nato. D. Gli apostoli chiesero a Gesù se avesse peccato lui o sui genitori, per quella disabilità. Ma qual è l’attualità del pensiero di Giobbe, professore. Perché rileggerlo oggi? R. Ora, non voglio certo strumentalizzare i libri antichi, ma vedo nel capitalismo post-moderno un grande ritorno di quella religiosità economica del tempo di Giobbe.

D. In che senso? R. Si fa strada il pensiero che i poveri siano colpevoli, dei pigri fannulloni e che, pertanto, anche l’idea di un welfare universale sia sbagliata. D. Da Giobbe è tanta strada. R. Lo so, ma ci pensi. È il pensiero che deriva direttamente da un certo calvinismo nord-americano e che si va diffondendo anche in Europa, per cui la globalizzazione è diventata una sorta di religione e i poveri sono tali per colpa loro. Una certa idea di meritocrazia vuol colpevolizzare il povero, in quanto demeritevole. Alla fine dal pensiero di Giobbe deriva una critica a questa mentalità. D. Spieghiamolo bene. R. Giobbe è uno che si trova nel letame, solo e malato, senza alcuna colpa: gli accade, per sventura. E questa ideologia della meritocrazia, spesso, sostiene il contrario: con una certa spocchia fa un discorso sul merito che non è mai dalla parte di poveri. D. Professore, ma il contrario della parola meritocrazia è, spesso, la parola «ingiustizia», il luogo dell’abuso e dell’arbitrio. R. La parola meritocrazia è una bella parola. Tutti vorremmo che il nostro stipendio, o i voti nei compiti a scuola, fossero all’insegna della razionalità, fossero un rapporto fra merito e performance. Anzi potremmo dire che è un’esigenza di razionalità del mondo. D. E la sua critica? R. È che occorra spezzare l’idea che l’uomo ricco, di successo, sia di per sé meritevole e che si usi la meritocrazia come legittimazione nei luoghi alti del potere. Legittimare, di volta in volta, chi comanda. Ovviamente non mi riferisco al settore pubblico, dove la rivendicazione del merito è necessaria. D. E dove l’assenza del merito è

spesso clamorosa. R. Sì, ma è appunto uno dei casi, che dicevo prima: uno non critica il merito per lodare i demeritevoli e i fannulloni. Se il mestiere dell’intellettuale, oggi, ha ancora un senso, è quello di dire cose scomode. D. Le dica. R. Certo. E allora chiedo: che ne facciamo dei demeritevoli? Li mettiamo nei centri di recupero? Li scartiamo? D. Un altro grande tema che lei individua in Giobbe è la giustizia. R. Giobbe dice una grande verità: esiste la sventura. Ci sono cioè dei fatti che producono grandi danni a noi stessi e alle nostre famiglie e che non vanno ridotti al contratto: c’è qualcosa che ci accade, cioè, e che non è frutto del nostro impegno. Questo è un messaggio importante per il nostro tempo: non c’è sempre una giustificazione morale, del tipo «chissà cosa ha fatto». D. Giobbe è il giusto innocente. R. Lo sventurato che non ha fatto niente di male. La giustizia negata. Giobbe dice: «Non è colpa mia». Ai suoi amici, che lo attaccano volendo fargli ammettere che c’è un ordine nell’universo, che vogliono fargli riconoscere una giustizia ultima ma a lui invisibile, Giobbe si ribella: «Se Dio è questo Dio, preferisco essere ateo. Non voglio credere». Giobbe sfiora l’ateismo. Lo dicono gli esegeti che i redattori successivi hanno emendato i passi troppo scandalosi: Giobbe arriva quasi a dire che Dio non c’è, se è un Dio che permette il dolore innocente. Meglio che non ci sia, se dovesse essere un mostro. D. Un giudizio duro. R. No, nel canto di Giobbe c’è una grande speranza: un Dio possibile. Moderno, se vuole, per un mondo che rifiuta la religiosità semplice. . twitter @pistelligoffr


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