Intervista a Stafano Magrini, Corriere Fiorentino 9 settembre 2017

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Sabato 9 Settembre 2017 Corriere Fiorentino

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Il «Nencioni» a una giovane ricercatrice svizzera. Lunedì la premiazione E l’Accademia della Crusca porta online il dizionario della Utet È Aline Kunz, studiosa svizzera, la vincitrice del sesto «Premio Giovanni Nencioni», il riconoscimento che l’Accademia della Crusca, con l’Associazione Amici dell’Accademia della Crusca, conferisce a giovani linguisti che hanno conseguito un

dottorato in un’università straniera. Aline, premiata per la tesi «Tra la polvere dei libri e della vita-Il carteggio Jaberg-Scheuermeier (1919-1925)» riceverà 2000 euro e la possibilità di fare un soggiorno di studio di un mese, gratis, alla Crusca.

La cerimonia si svolgerà lunedì alla villa Medicea di Castello. L’Accademia martedì firmerà un accordo con la Utet Grandi Opere che consentirà la consultazione gratuita via web del «Battaglia», il Grande Dizionario della Lingua Italiana. (Ivana Zuliani)

L’intervista I ricordi fiorentini di Stefano Magrini, presidente di Medicina a Brescia «Una corsa all’ospedale da bambino per un incidente e l’impegno politico nel ‘68»

Al Meyer la prima volta Poi una vita da medico Gallery

Gli studi A scuola si andava alla Matteotti. Quindi il liceo classico, al Dante, dove feci la maturità nel 1971

Info ● Stefano Maria Magrini, classe 1954, è presidente della facoltà di Medicina a Brescia dal 2013 ● Ha studiato Medicina qui a Firenze e si è specializzato in radiologia e radioterapia ● È ordinario di Radioterapia

di Goffredo Pistelli L’incontro con Stefano Maria Magrini si svolge nel campus dell’Università di Brescia, a due passi dagli Spedali civili. Fiorentino, classe 1954, ordinario di radioterapia, nel cuore della Leonessa d’Italia, Magrini è presidente della facoltà di Medicina. Dal suo studio si vedono le colline bresciane: «Ci sono voluti 20 anni perché questa città mi piacesse», sorride. Professore, ci racconti un’estate toscana che le è rimasta impressa. «Ricordo bene l’estate del 1961, si era ai primi di settembre. Correvo nel campino intorno alla Flog, nella collina di Montughi, dove abitavo. Un capitombolo e mi finì un grosso pezzo di vetro rotto nel polpaccio, con conseguente piccolo dramma familiare». Di corsa al Meyer? «Mio padre mi portò in macchina, clacson a tutta, e fazzoletto bianco fuori dal finestrino, smadonnando perché c’era la coda di quelli che andavano alla partita. Ricordo come fosse ora: “Questi bischeri che vanno a vedere altri undici bischeri in mutande che tirano calci a una palla”... Ho ancora la cicatrice, ma in realtà a mio padre il calcio piaceva». Era preoccupato. Dove abitavate? «Non lontano, in Via Barbera. E quello era il luogo dei gio-

chi: una collina a disposizione, teatro di mille battaglie. A scuola, si andava in Viale Morgagni, alla Matteotti. Quindi il liceo classico, al Dante, dove feci la maturità nel 1971». Poi Medicina. Com’era, allora, senza numero chiuso? «Affollata: per l’esame di anatomia davano a ognuno piccole parti di tessuti umani da dissezionare. E si faceva a gruppi di cinque-sei». C’è qualche docente che è stato importante? «Ricordo con piacere Giancarlo Zampi, patologo, un uomo brillante. E ovviamente Giulio De Giuli, che aveva fondato una grande scuola di radioterapia negli anni ‘50 e che fu il mio maestro con Giampaolo Biti, col quale mi laureai. De Giuli fu uno dei più moderni oncologi clinici dell’epoca: sapeva quello che succedeva nel mondo. Si è trovato in sintonia con un mondo medico che stava cambiando». Che cosa fece? «Con lui sono arrivate macchine avanzatissime, ricordo un betatrone della Boveri, una delle attrezzature più moderne al mondo. Il ministro della Salute dell’epoca, Luigi Mariotti, che aveva avuto un figlio curato lì, pensò di fare un istituto tumori a Firenze, e De Giuli gli disegnò una struttura avanzatissima, sul modello del Gustave Roussy o di Stanford».

Perché non si fece? «Forse era un progetto troppo avanti, per l’epoca. E forse perché, nei fatti, lo era già». Gli anni in cui lei fece l’università furono quelli del post ‘68, stagione di grande infatuazione politica. Cosa fece? « Con quella che è stata mia moglie per 40 anni, eravamo impegnati politicamente: io segretario del Pci a San Quirico, sezione che stava nella casa del popolo che lei presiedeva». Berlingueriano, amendoliano, ingraiano? «Berlingueriano doc. Era l’epoca di una famosa barzelletta». E quale? «Quella in cui un militante diceva: “Compagni, i coccodrilli volano”. E un altro, gli rispondeva: “Ma non dire bischerate”. E quello, di rimando: “L’ha detto il compagno Berlinguer” e allora, lo scettico, si correggeva: “Ora, volarevolare, no. Però volicchiano”». Che cosa ricorda? «Una casa del popolo di vecchi bellissimi, 70-80enni, nati con Stalin, che avevano fatto cose importanti, come costruire quella struttura o l’asilo nido, ma s’erano spiaggiati quando Berlinguer, con l’austerità, aveva annunciato il Compromesso storico. E noi, ventenni, a cercare di convin-

Colpi di sole

Protagonista Stefano Maria Magrini, fiorentino, è presidente della facoltà di Medicina a Brescia

Pci Ero berlingueriano doc Se per lui i coccodrilli volavano al partito si diceva: «Sì, volicchiano»

Ritorno in città A Firenze oggi mi sembra che i lavori della tramvia stiano andando avanti

cerli. Comunque con la politica chiusi nel 1978». Perché? «Cominciai a fare le guardie mediche in Casentino, a Stia. La mattina dopo, mi buttavo a tavoletta con una 126, giù dalla Consuma, per arrivare a Careggi in tempo». Cosa le piaceva della radioterapia? L’applicazione del metodo scientifico: si passava dai libri alla cura, stando dentro un ambiente di ricerca». Non c’era l’idea di battere il cancro? «No, e quando ancora lo sente dire, anche da colleghi à la page, come se dovesse succedere domani e per tutti i tumori, penso che sia una bischerata. Semmai...» Semmai? «Semmai la sfida è stata provare a migliorare gradualmente e ostinatamente i risultati, con un metodo scientifico. Quando iniziai, la cura del morbo di Hodgkin (tumore del sistema linfatico, ndr.) era considerata una grande vittoria, oggi si può dire che, per quella malattia, sia la regola. Ma niente enfasi, per carità». Brescia, in tutti questi anni, come le è sembrata? «È una città che può apparire chiusa, stretta al mito della brescianità, fatto di solidità e solidarietà. Devi superare questa buccia per entrare in un mondo estremamente produttivo, pieno di persone capaci appassionate al proprio lavoro. Gente seria: mi stupì, sin dall’inizio, la puntualità e la precisione con cui gli uffici rispondevano alle lettere». A Firenze, invece? «Noi non siamo così. Ricordo ancora con terrore quando, a Careggi, da aiuto, mi dovetti occupare di allestire una camera calda a radioterapia: fui travolto dalla burocrazia.» Torna nella sua città? «Certo, ci sono le mie figlie, Emma e Arianna, e mia mamma Paola, del’34, nata in una famiglia di cultura, che si laureò in storia con Ernesto Sestan, incinta del sottoscritto». Cosa fece dopo la laurea? «La preside, a lungo, e poi, andata in pensione ancor giovane, diede una mano a mio padre, Umberto, che era del 1926, ed era stato direttore editoriale di Garzanti e Lattes, occupandosi sempre di scolastica. Un uomo che s’è fatto da sé e che, per un po’ di anni, ha fatto Amici miei.» In che senso? «Nel senso che ci mise un po’ a laurearsi, preferendo la compagnia goliardica, degli amici. Storie che Leo Benvenuti e Piero De Bernard, che lo conoscevano, trasposero nella sceneggiatura nel primo film di Pietro Germi, diretto da Mario Monicelli». Firenze come la trova? «Mi sembra d’esser diventato come quei vecchietti incazzosi che attraversano la strada agitando il bastone. L’unico risultato che vedo, da un po’ è che i lavori della tramvia sembra stiano finalmente andando avanti». 5. Fine. Le interviste precedenti sono uscite il 9, il 17 e l 27 agosto e il 3 settembre. © RIPRODUZIONE RISERVATA


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