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DAVIDE OLDANI
DAVIDE OLDANI
SIAMO INCLUSIVI NON ESCLUSIVI
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«LA MIA CUCINA POP È NATA DAL DESIDERIO DI AMALGAMARE L’ESSENZIALE CON IL BEN FATTO, IL BUONO CON L’ACCESSIBILE, L’INNOVAZIONE CON LA TRADIZIONE»
Di Paolo Gobbi
IDEATORE DELLA CUCINA POP, fatta di alta qualità e accessibilità, Davide Oldani ha aperto nel 2003 il suo ristorante, il D’O, a Cornaredo, in provincia di Milano, suo paese d’origine. Dopo un anno di attività, le più autorevoli guide gastronomiche lo annoverano fra i grandi chef della cucina italiana, tanto da essersi guadagnato due stelle Michelin e una stella verde per la gastronomia e sostenibilità
Le esperienze precedenti l’apertura del D’O, lo avevano visto a fianco di Gualtiero Marchesi, Albert Roux, Alain Ducasse, Pierre Hermé.
La sua attività di designer, nata dall’osservazione quotidiana dell’ospite, rispecchia quella di cuoco: tavoli, sedie, piatti, posate e bicchieri sono ispirati al POP: semplici, funzionali, eleganti.
Lo abbiamo incontrato a Cornaredo, in una caldissima giornata di luglio. Queste le sue parole.
Handmade parla del tempo e della sua creazione, perciò iniziamo proprio con questo argomento: com’è il suo rapporto con il tempo, quello privato e quello nel lavoro?
«Come per tutti, purtroppo il tempo “passa”. Bisogna perciò scandirlo bene, anche nella cucina. Ad esempio, i napoletani quando parlano della pizza ti dicono che dev’essere di tot centimetri larga, con il cornicione, per fare in modo che nel tempo che te la servono e che la mangi rimanga fino alla fine ancora calda e buona. Per cui il tempo per poterla mangiare è relativo alla dimensione. Questo è un esempio per dire che il cibo, nel tempo che tu impieghi a mangiarlo, deve avere sempre la stessa la qualità. Nel caso del mio lavoro, il tempo più importante è quello da quando ti siedi a quando inizi a mangiare.»
Sembra una cosa semplice.
«Quindici anni fa scrissi un libro, “Cuoco andata e ritorno”, dove parlavo del tempo che devi dare alle persone da quando si siedono a quando servi il primo piatto per far sì che non si annoino. Il tempo è tutto e niente, però se lo scandisci bene diventa tutto, diventa la cosa più importante. Per cui bisogna impegnarlo bene: una delle cose che a me non piace quando sei a tavola è aspettare tanto il cibo. Una cucina che impiega tanto tempo a mandar fuori un piatto fa scomparite tutta la poesia che c’è dietro a ogni momento che noi condividiamo sulla tavola.»
C’è una regola?
«Ho calcolato che il tempo giusto tra un piatto e l’altro è di otto minuti, almeno per la mia esperienza: è il minutaggio giusto per poter godere del tuo momento. Poi il tempo è fondamentale per il mio lavoro, perché tu sai che in una cucina di precisione hai bisogno del tempo per poter cucinare una cosa piuttosto che un’altra. È un tempo un po’ astratto, molte volte determinato dal buon senso di chi fa la cucina, perché cambia a seconda che si tratti di carne, pesce, verdure, pasta, riso o dolci. Hai determinati timing da rispettare.»
Anche perché gli ospiti di ogni tavolo devono essere serviti contemporaneamente.
«Se su un piatto ci sono quattro persone che ci lavorano, tra la guarnizione, la salsa, il prodotto, le cotture, se non prendi il tempo giusto per poter arrivare insieme al pass (il piano sopra al quale vengono posati i piatti, prima che siano serviti in sala, dove lo chef dà l’ultimo sguardo o l’ultimo tocco, n.d.r.) si raffredda tutto e devi rifarlo. È tutto un meccanismo da orologio svizzero. La sincronizzazione è alla base della nuova cucina.»
Una volta era diverso?
«Mia madre di novant’anni, ad esempio, viene da una cultura secondo la quale il cibo era una necessità per vivere, lo condividevi in famiglia come segno di stare tutti insieme a tavola, un momento di crescita e di educazione. Adesso il cibo non è più pura necessità per vivere: siamo in una società ricca ed è diventato quasi un di più. Questa è una cosa che io non accetto perché il cibo è l’unica cosa che ci permette di essere vivi. Oggi è visto più come esperienza. Ci sono tanti aggettivi che vengono utilizzati, secondo me anche a volte in maniera errata, per definire il cibo. Ma il cibo rimane primario perché l’uomo ne ha bisogno. Una volta prima di mangiare si faceva il segno della croce per rispetto, per fede, per educazione: era un momento veramente sacro. Adesso con la scusa che puoi aver tutto, anche online, secondo me, da artigiano
cuoco, un po’ di qualità si è persa. Per questo motivo, quando si parla di cibo, bisogna farlo in una maniera seria, anche perché il cibo è come dicevo l’unica cosa che ci permette di essere vivi. Allora più lo rispetti, più hai il senso di quello che è realmente: lo devi studiare, devi rispettare le stagioni.»
Venire al D’O a pranzo o a cena è comunque un’esperienza...
«Questo lo deve dire lei, non io. Io do da mangiare, punto. Voglio far mangiare bene e servire il piatto nei tempi giusti. Dopo a tavola ci si può stare delle ore, ma quello è un altro tempo, che è il divertimento. Quando devo mangiare, devo mangiare. Non posso sedermi a tavola e aspettare un’ora un piatto. Poi viene la convivialità, che arriva subito dopo aver mangiato non quando stai mangiando realmente. Stai bene quando mangi, non puoi parlare di lavoro se hai fame. Se mangi bene ti metti in pace con te stesso e con i tuoi commensali. Dopodiché concludi gli affari. Si fa tutto a tavola, ma secondo me c’è una scaletta delle tempistiche.»
Sono d’accordo, tra l’altro il suo è oggi un punto di vista non certo convenzionale. Altri chef avrebbero detto che quella che offrono è un’esperienza.
«Il più bel complimento che io possa ricevere è quando la gente ti dice che ha mangiato bene.
Mi basta quello, perché è quello che devo fare.»
Si è sempre detto che si mangia prima negli occhi. Lei hai inserito questo concetto del design del cibo e del design della tavola.
«I fondamenti della mia cucina POP si sono tradotti in oggetti di design. Ho disegnato per Artemide una lampada, ho disegnato per Kartell e per Riva 1920 dei tavoli. Tutto questo l’ho fatto per far sentire la tavola più comoda, non per fare il designer.»
Fabrizio Buonamassa, il responsabile della creatività dell’orologeria Bulgari, dice che il designer è un facilitatore, ossia colui che ti rende un oggetto facile da utilizzare senza che tu neanche te ne accorga...
«Tu stai seduto comodo su una sedia e devi pensare a mangiare. La sedia però deve essere ergonomica per non farti venire il mal di schiena, poi i tavoli devono avere sotto dei vani contenitori porta borse, porta cellulari e chiavi, oggetti che non sai mai dove mettere. Così la tavola è libera. Questo è il mio concetto di design.»
Ritorniamo sul tempo. Chi è che scandisce il tempo in cucina?
«Ovviamente il timer serve a determinare i tempi di uscita di una comanda, poi ci si regola anche con un lavoro di squadra. Ora la cucina è di precisione, devi sapere come trattare i prodotti, che hanno determinate cotture e tempistiche a seconda dell’annata. Ogni anno il vino è diverso, il riso cambia a seconda del tempo per cui lo devi adeguare ogni volta, così la farina. L’anno scorso, ad esempio, abbiamo avuto dei piccoli problemi con la farina e siamo dovuti intervenire con le cotture e con i tempi di lievitazione, perché era diversa dal raccolto dell’anno prima.»
Per Franco Cologni, un grande guru dell’orologeria, uno dei diktat era quello del lusso accessibile, il lusso democratico. Lei parla invece di una cucina buona e accessibile. Nell’immaginario collettivo se si pensa a Oldani si immagina un grande chef e di conseguenza dei costi alti. Come fa la tua cucina a essere accessibile?
«Chi conosce Oldani sa che ha mantenuto la coerenza con la qualità e l’accessibilità. Anche un tartufo bianco può essere accessibile. Anche una cipolla buona per qualcuno può essere costosa e per qualcun altro no. Quello che intendo è che l’insieme del buono non dev’essere paragonato a un prezzo, la qualità non sono i soldi.»
Nella sua cucina ci sono tanti ragazzi...
«Sono i ragazzi che fanno la qualità. Cinque anni fa abbiamo iniziato un progetto statale con l’istituto professionale Olmo di Cornaredo per la formazione dei giovani. Abbiamo un programma didattico invertito: prima della ricetta i giovani imparano a conoscere i prodotti.»
Lo chef è un mestiere di passione?
«Non conosco nessun mestiere in cui raggiungere le soddisfazioni senza il sacrificio, senza la passione e la condivisione. È il fatto di essere inclusivi e non esclusivi. Io faccio un lavoro di inclusività, un lavoro identitario.»
Ha disegnato dei tavoli, delle forchette, dei bicchieri, dei piatti... Le piacerebbe disegnare un orologio?
«Bella domanda. Pensi che sto aspettando il prototipo di scarpe che ho disegnato con un’azienda di Napoli. Ma ho fatto anche delle penne con Montegrappa. Nasce tutto da un feeling con le persone. Non disegno su commissione perché non sono un designer. Sarebbe bello fare un orologio, però dovrebbe essere qualcosa di diverso.»
Quando nasce la sua passione cper l’orologeria?
«Il primo orologio importante l’ho avuto a 19 anni.»
Si considera un collezionista?
Non so cosa voglia dire essere un vero collezionista. Possiedo e indosso prevalentemente dei Cartier.»
L’orologio è un oggetto assolutamente tradizionale. Come il Santos che ha al polso, che ha una storia che parte dagli anni Venti, all’interno della quale poi arriva l’innovazione. Come fa nella sua cucina a innovare rispettando la tradizione?
«La rispetti per prima cosa se la conosci e poi se l’hai praticata. Se hai i pilastri, se le fondamenta sono solide puoi fare quello che vuoi, perché quando fai il nuovo parti già con una base.»