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DIFFERENT, NOT LESS
di Francesca Oriti
Per il mese della sensibilizzazione sull’autismo abbiamo intervistato Anita, educatrice e attivista. Anita è stata già ospite di seguitissimi podcast, tra i quali Palinsesto Femminista, e siamo molto onorati di aver avuto l’opportunità di poterla intervistare.
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Hannah Gadsby, famosa comica australiana, rivelando la sua appartenenza allo spettro autistico, nello spettacolo Douglas ha affermato “Diversity is strength, Difference is a teacher” (“La diversità è una forza, la differenza insegna”). Qual è la tua personale definizione di diversità?
La diversità è l’unica caratteristica comune a tutti gli esseri umani. La più grande differenza tra persone neurotipiche e autistiche sta nell’intensità con cui vediamo il mondo. La percezione di tutto ciò che è sensoriale è amplificato in molte persone dello spettro, sia in eccesso che in difetto, infatti entrambi si presentano agli estremi con l’ipersensorialità e l’iposensorialità. È diverso anche l’oggetto dell’interesse, infatti spesso le persone autistiche tendono a concentrarsi sulle cose molto piccole e semplici da cui traggono un enorme benessere. Io personalmente provo un’immensa gioia quando osservo le bolle di sapone o i rumori della natura in un prato, quindi riesco a trovare del bello e del buono anche senza l’interazione continua di cui invece spesso le persone neurotipiche hanno bisogno per stare bene. Tuttavia è un falso mito che le persone autistiche non abbiano bisogno di relazioni interpersonali, anzi per me è vero il contrario.
Tu sei molto impegnata anche nel campo del femminismo intersezionale. Qual è il legame tra questo e l’attivismo per l’autismo?
Mi sono avvicinata all’attivismo per l’autismo in ambiti sempre medicalizzati, che fosse in compagnia di terapisti, genitori o insegnanti mi trovavo in ambienti che guardavano l’autismo come una malattia, concezione che è stata superata dalla comunità autistica. Lo sguardo sul mondo neurodiverso è ormai diventato attenzione verso una delle tante minoranze ed è questa visione che avvicina l’attivismo per la neurodiversità a quello del femminismo, con cui condivide la ricerca di diritti per quelle persone che non ne godono. Per me l’avvicinamento al femminismo è stato fondamentale perché da tempo volevo parlare dell’autismo al di fuori del
campo medicalizzato e lavorare con persone che si occupassero di diversità e non di disturbi. Quando si guarda una persona non con l’ottica di aggiustare qualcosa, ma di comprendere, cambia la prospettiva. Ciò non significa che le persone autistiche non abbiano bisogno di ausili e supporti, tutt’altro, ma supportare è molto diverso da aggiustare.
Dunque è proprio per l’accesso a questi supporti e ausili che serve la diagnosi. Secondo te quanta importanza ha la diagnosi, anche in età avanzata?
La diagnosi è sempre vitale, ovviamente prima arriva e meglio è, ma fa la differenza nella vita di una persona di qualsiasi età perché dà risposte a una serie di situazioni e di caratteristiche che avevano generato domande irrisolte durante la crescita. Se vivessimo in una società che accetta e celebra ogni persona per la propria individualità, non ci sarebbe neanche bisogno di una diagnosi perché tutto ciò che questa fa è spiegare e validare delle caratteristiche e dare accesso a degli strumenti di supporto. Purtroppo però è necessaria una parola, un’etichetta, perché è l’unica cosa che permette di capire che non si è sbagliati, ma diversi. Lo scopo di una diagnosi anche più avanti in età è quello di permettere alla persona che la riceve di smettere di giudicarsi e di iniziare a comprendersi e a validare la propria esperienza e i propri bisogni. Inoltre la diagnosi è la chiave agli strumenti di supporto che talvolta sono necessari anche quando a un’analisi superficiale non si direbbe ed è il primo passo verso la comunità autistica, che è fondamentale perché le persone autistiche non si sentano sole e isolate. Con la diagnosi si ha la libertà di essere, perché spesso le persone che non la hanno vengono viste come dei neurotipici sbagliati e costrette per tutta la vita a entrare in una scatola che non li comprende. Quindi anche se le persone autistiche adulte sono andate avanti arrangiandosi, non significa che questa sia l’unica soluzione o la migliore.
Qual è l’errore peggiore che possono fare le persone neurotipiche quando si relazionano a una persona autistica?
Secondo me spesso le persone si concentrano solo su ciò che è problematico, fuori dalla norma, medicalizzato e quindi errato, perdendosi la bellezza di una condivisione con una persona che vede il mondo in modo diverso. Questo non vale solo per le persone autistiche verbali come me, che ho la fortuna di avere un linguaggio con cui comunicare, ma anche per i non verbali, bambini ed adulti. Anche dove c’è un estremo bisogno di supporto, c’è un’estrema capacità di godersi il mondo. Non bisogna dimenticarsi che c’è una persona oltre i comportamenti e non bisogna assumere che quello che viene comunicato abbia il significato che una persona neurotipica può attribuirgli, altrimenti si rischia di perdersi uno scambio positivo in un mare di difficoltà. Non è possibile negare che ci siano concrete difficoltà, ma concentrarsi su quelle trascina in una spirale verso il basso che non fa bene né alla persona autistica né alle persone che gli stanno intorno.
Siccome molte persone neurotipiche provano timore di fronte allo stimming2, forse sarebbe meglio chiarire cos’è.
Lo stimming è un linguaggio e uno strumento di autoregolazione. Tutti abbiamo dei comportamenti stereotipati, anche i neurotipici quando sono intenti a concentrarsi spesso si attorcigliano i capelli. Le cause dello stimming sono da rintracciare nell’intensità della visione del mondo che hanno le persone autistiche e nella mancanza di un altro strumento comunicativo. O è l’unico mezzo di comunicazione o è l’unico efficace, ma ad ogni modo è quello che produce nell’immediato un’autoregolazione o un’esternazione di sentimenti, spesso e volentieri anche di gioia. Non deve fare paura, ci sono modalità comunicative normalizzate dalla società, come l’abbraccio, ma cos’è che rende un sfarfallare meno normale di un abbraccio? Il fatto che non siamo abituati a vederlo, quindi bisogna farci l’occhio. Lo
stimming diventa difficile da gestire quando ad esempio un bambino si fa del male per contenere uno stato di frustrazione, ma una persona che per strada fa uno sfarfallio dalla gioia non fa del male né a sé né agli altri. Inoltre bisogna imparare a godere anche di questa comunicazione di felicità, se vediamo persone sorridere o abbracciarsi per strada siamo riempiti da un’emozione positiva, lo stesso dovrebbe valere per lo stimming. Io mi sono dovuta riappropriare di questo strumento perché non era socialmente accettabile, ma quando l’ho fatto è diventato un mezzo straordinariamente naturale. Inoltre le persone che mi stanno vicine, vedendo questi comportamenti, si sentono più libere di fare ciò che li fa stare meglio, infatti lavorare per la libertà di un gruppo significa lavorare per tutti: la libertà crea libertà.
Come hai vissuto gli anni precedenti alla diagnosi?
Da piccolina leggevo libri di psicologia perché avevo capito che il mio modo di approcciare le altre persone non funzionava, ma essendo molto intelligente gli altri mi giudicavano menefreghista e cattiva. Ancora una volta questo è un esempio di una comunicazione fraintesa perché si assume sempre il significato più ovvio per un neurotipico. I miei comportamenti non solo non venivano capiti, ma venivano visti come delle cattiverie fatte di proposito, pertanto ho iniziato a guardare a ripetizione continua serie tv che mi permettevano di capire le interazioni neurotipiche e ridurre così il bullismo, ma mi sono trasformata in una persona che non ero più io. Tutti indossano una maschera, ma fingere costantemente, senza nessun supporto da persone vicine e senza che nessuno comprendesse perché agivo in un certo modo e chi fossi veramente è stato estenuante. L’assenza di diagnosi si conferma quindi come totale solitudine, che sono riuscita a superare solo grazie a una persona vicina che mi ha strappata alla rassegnazione di “essere nata storta” e mi ha regalato una spiegazione per il funzionamento diverso del mio cervello. Non sono fuori posto e non sono l’unica, infatti quando mi sono ritrovata con altre persone autistiche sono rimasta molto stupita scoprendo che altre persone pensassero sulla mia stessa lunghezza d’onda.
L’interesse per la psicologia è continuato?
Il mio interesse principale è l’uomo, per questo continuo a coltivare la passione per la psicologia e oggi sono un’educatrice. Non è affatto vero che le persone autistiche non provano interesse per il mondo che le circonda o che non sono capaci di empatia. O c’è una totale difficoltà di mettersi nelle scarpe degli altri o c’è un’intensissima percezione delle emozioni dell’altro che spesso sconvolge. Io al momento attuale lavoro con dei bambini e ancora mi sfuggono le loro dinamiche di gioco, ma ciò non significa che io non voglia capirli o supportarli in tutti i modi possibili. Spesso nelle persone autistiche l’interesse per chi li circonda ci sarebbe, ma giocare con le modalità degli altri, usare un linguaggio alieno e fingere interesse per cose che si trovano noiose costituisce un ostacolo. Un mondo che ti rifiuta non ti invita ad interagire. Una delle cose più sconvolgenti è sentire una mamma che dice di non vaccinare il figlio per evitare che diventi autistico, ammettendo neanche troppo implicitamente di preferire un figlio morto piuttosto che nello spettro.
Cosa significa essere parte della comunità autistica e trovarsi a contatto con le persone autistiche non verbali?
Io ho avuto molto a che fare con persone non verbali e ogni volta mi chiedo cosa ci sia di simile e cosa di diverso e se io abbia il diritto di vedermi nella stessa categoria. Non perché qualcuno faccia più o meno fatica, ma perché queste fatiche sono apparentemente diverse. Tuttavia io con le persone autistiche non verbali mi sento a casa, quindi ho la sensazione che ci sia la stessa radice di base che produce esperienze diverse. Infatti spero proprio di poter
lavorare con bambini autistici perché li capisco, è quasi rilassante starci intorno anche nei momenti di difficoltà per poterli aiutare, un esempio di cosa difficile per una persona neurotipica che diventa semplice per me. E questo significa fare parte della comunità autistica, sapere che c’è uno spazio di esperienza condivisa. Per me è bellissimo vedere che anche in Italia si sta muovendo qualcosa, dopo essere stata per anni da sola con altre due colleghe, tutte con backgrounds ed età diverse, a portare avanti il messaggio come delle pioniere. Le esperienze di vita sono tante e molte voci diverse arricchiscono il discorso e aiutano a creare un approccio che sia il più inclusivo possibile. È bello da vedere, è bello da sentire, più siamo in grado di creare un dialogo più ci sarà speranza che le prossime generazioni non soffrano quanto abbiamo sofferto noi. L’aspettativa di vita per una persona autistica è in media di 36 anni, come dice uno studio statunitense del 20173; ovviamente il dato è riconducibile a comorbidità, come l’epilessia, ma anche alla salute mentale, perché vivere in un contesto che non ti comprende e non ti vuole ha pesanti conseguenze che ostacolano qualsiasi forma di dialogo. Quando sei troppo impegnato a sopravvivere non hai energie di scorta. Ora sempre più persone rispondono all’appello morale a essere ciò di cui avremmo avuto bisogno da piccoli e quindi iniziamo a costruire una strada in modo che chi venga dopo accetti la propria esistenza, costruisca ponti tra due realtà diverse e porti avanti il messaggio che non c’è nessuno da soffocare o da cambiare, ma che bisogna che tutti si incontrino a metà strada.
Ti chiedo infine se hai libri o serie tv da consigliarci per approfondire il tema dell’autismo.
Posso consigliarvi “Neurotribù”, che è molto tecnico, ma dà anche un po’ di contesto storico sulla ricerca, o “In altre parole. Dizionario minimo di diversità”, di Fabrizio Acanfora. Poi per lo più ci sono pubblicazioni in inglese, come “Stim”, di Lizzie Huxley-Jones. Per quanto riguarda le serie, posso citare “Bones” che, pur non dicendolo, ha fatto un perfetto ritratto di una donna autistica, realistica anche se un po’ stereotipata, senza rendere troppo pesante l’argomento. Io e la mia compagna abbiamo guardato insieme “Atypical” e abbiamo riso molto riconoscendo i miei comportamenti. L’unica difficoltà di “Atypical” è rappresentare, ancora una volta, un personaggio maschile, come avviene in quasi tutte le serie riguardanti le persone autistiche. Il film “Music” ha al centro una figura femminile, ma è moralmente disastroso, infatti la comunità autistica ha chiesto di inserire delle avvertenze prima delle scene di contenimento, dato l’elevato pericolo che rappresentano, e questa richiesta non è stata accettata, quindi ancora una volta si sfrutta l’esperienza di qualcun altro come fonte di spettacolo. Quando un lavoro simile non viene fatto insieme alla comunità interessata la possibilità di fare errori è enorme. “Qualcosa su di noi senza di noi”, questo è il centro focale delle critiche che sono state mosse e delle critiche di qualsiasi minoranza nei secoli. C’è l’ostacolo della medicalizzazione, ma pian piano cerchiamo strade nuove.
Ti ringrazio per le tue parole, alla prossima!
Contatti dell’intervistata per ulteriori domande: Instagram: @anita.autistic; email: asperger.anita@gmail.com
1 Titolo di un libro di Temple Grandin, professoressa associata della Colorado State University, una delle più importanti attiviste autistiche. 2 Interessi e comportamenti ripetitivi e stereotipati. 3 https://edition.cnn.com/2017/03/21/health/autism-injury-deaths-study/index.html