5 minute read

ARTEMISIA GENTILESCHI

Next Article
L’OMOFOBIA

L’OMOFOBIA

di Daniele Gulizia

Siamo nel 1593, a Roma. In quegli anni (per la precisione in un lasso di tempo compreso tra il 1592 ed il 1594) nell’Urbe giunge Michelangelo Merisi, meglio noto come il Caravaggio. La sua ascesa nella scena artistica è rapida e folgorante. Forse un “punto di non ritorno” nella storia dell’arte: porta nella pittura delle innovazioni di incredibile portata. Proprio in questa città, nei suoi primi anni di attività riscuote un grande successo e molti pittori ne rimangono profondamente colpiti. Tra questi vi è Orazio Gentileschi, che in breve tempo porterà nella sua pittura lo stile del Caravaggio. In quell’anno, il 1593, nasce sua figlia Artemisia Gentileschi, anch’ella destinata alla pittura, anch’ella destinata ad una vicenda umana piuttosto “accidentata”, come la storica dell’arte Mina Gregori definisce quella di Caravaggio. Forse Orazio non sapeva che sarebbe stata destinata ad essere un astro nella pittura Italia del Seicento o forse è proprio il primo che intravede nel suo precoce talento i numeri per una possibile carriera artistica. Quello che sappiamo è che la istruisce al mestiere del pittore, insegnandole prima a fabbricarsi colori e materiali e poi la tecnica pittorica. Artemisia ha modo di coltivare la sua dote, cresce in un ambiente -la bottega del padre- frequentato da vari artisti che all’epoca operavano a Roma (sappiamo che anche lo stesso Caravaggio vi giunse, anche se è improbabile un contatto diretto con Artemisia) e respira il fervente clima artistico-culturale che animava la città papale in quel secolo. È una donna fortunata, bisogna ricordare che a quel tempo alle donne non era concesso nemmeno di frequentare le accademie. Purtroppo, nel maggio del 1611, quando ha appena 18 anni, la sua vita subisce un tracollo ed è vittima di un evento che la segnerà indelebilmente per tutta la vita: lo stupro da parte di Agostino Tassi, pittore anch’egli, abilissimo nello prospettiva e collaboratore del padre che aveva deciso di portare Artemisia proprio sotto la sua ala (affinché fosse iniziata alla prospettiva) Costui era effettivamente conosciuto come un uomo iroso e violento, mandante di diversi omicidi, ciononostante Orazio doveva avere una grande stima di lui. Nel 1611, entrato nello studio di Orazio, approfittando della temporanea assenza dell’artista, ne violenta la figlia Artemisia. Le vicende che si accavallano dopo questo tragico avvenimento sono numerose e contorte, ma, alla fine, Orazio denunciò l’accaduto ed ebbe inizio una vicenda giudiziaria che mise in luce tutta la forza d’animo della giovanissima Artemisia, profondamente colpita e umiliata dall’accaduto, ma animata da un violento desiderio di rivalsa. Durante il processo Artemisia fu sottoposta a delle torture umilianti per dimostrare la veridicità delle sue affermazioni e in queste rischiò quasi di perdere l’uso delle dita, ma alla fine ottenne la vittoria. Il Tassi fu riconosciuto colpevole e condannato ad un esilio che, tuttavia, non scontò mai. Tormentata dall’avvenimento e dal processo, dopo essersi sposata, nel 1612 Artemisia lasciò Roma per dirigersi a Firenze, dove, finalmente, la sua carriera artistica sbocciò, e dove vide venirle riconosciuto tutto il talento che possedeva. Quivi entrò in contatto con la corte

Advertisement

medicea e pure con il nipote di Michelangelo, Michelangelo Buonarroti il giovane, sotto la committenza del quale affrescò la volta di casa buonarroti con una raffinata “allegoria dell’inclinazione” (oggi visibile con le coperture eseguite successivamente da Baldassarre Franceschini, detto il Volterrano). Nel 1616 il coronamento del successo che aveva riscosso: fu la prima donna, nella storia, ad essere ammessa in questa città all’accademia del disegno, altissima dimostrazione della sua qualità pittorica,

Giuditta ed Oloferne (versione fiorentina del 1620 circa)

talmente alta da superare perfino i pregiudizi del tempo. Purtroppo ben presto I rapporti con la città si deteriorano e attorno al 1619 Artemisia sentì l’impulso di tornare nuovamente a Roma, sebbene non perse mai i contatti con quella città, Firenze, che tanto le aveva riconosciuto come artista. A Roma Artemisia visse da Artista, ormai perfettamente inserita in quel clima così ricco dal punto di vista artistico e culturale. La sua vita proseguì tra continui spostamenti, talvolta al seguito del padre Orazio: si spostò a Genova, Venezia, Napoli, persino a Londra (insieme al padre) e a Roma tornò in varie occasioni ma con sempre più pulsante il marchio dello stupro che aveva subito. Le malelingue col tempo aumentarono e costrinsero Artemisia, quella gloriosa pittrice che aveva ottenuto successo ed onori, ad assistere ad un progressivo declino della sua fama, in una società che vedeva le donne vittime di violenze come “donne dai facili costumi” e, finì col morire povera e scarsamente considerata.

Tanto si è detto e scritto su di lei, tanti movimenti femministi, per esempio, hanno utilizzato il suo nome per avvalorare le loro battaglie.

Cosa REALMENTE sia stata Artemisia , questo è un mistero che si è portata con sé in tomba.

Quello che ha rappresentato invece, non solo una realtà artistica da guardare con ammirazione ma anche un esempio umano.

Della sua opera si ammira, oltre che l’abilità con cui ha saputo rendere propri gli stilemi caravaggeschi, traducendoli in una pittura di straordinaria qualità, anche la tematica costante che l’ha percorsa, testimonianza della tragica vicenda della quale fu vittima.

Se si considera per esempio un’opera come

“la Giuditta ed Oloferne” (della quale esistono due versioni, una a Napoli ed una a

Firenze) queste cose sono chiare.

Non c’è, infatti, solo il forte naturalismo e i forti contrasti luce ed ombra di matrice

Caravaggesca, ma c’è anche l’emergere della personalità e del vissuto di Artemisia che colpiscono in modo straordinariamente potente allo spettatore. Siamo lontani dalla rappresentazione della scena che Caravaggio diede attorno al 1597, con una Giuditta scossa e quasi terrorizzata dal gesto che stava compiendo, la Giuditta della Gentileschi è fiera, determinata, uccide Oloferne come se fosse un animale da macello, con una freddezza che lascia sconvolti. Oloferne è colto in un ultimo spasimo di vita, cristallizzato in un inefficace gesto di difesa: è completamente impotente, Giuditta domina

l’intera la scena con tutto il suo impeto. È una donna che dentro di sé deve avvertire tutto quel desiderio di rivalsa nei confronti dell’uomo che anche Artemisia sentiva pulsante, dopo lo stupro del 1611. La figura della donna attraversa tutta la produzione della Gentileschi, c’è la fiera e vittoriosa Giuditta, la terribile eroina biblica Giaele che con immane ferocia uccide Sisara, c’è una Lucrezia che si uccide, dopo la violenza di Tarquinio, per l’onore offeso ....insomma tutto un mondo femminile che emerge con tutta le sue sfaccettature umane ed emotive, che Artemisia indaga con grandissima abilità. Alla fine di tutto, la Gentileschi ha avuto un ruolo eminente nella storia, non solo dell’arte del Seicento, ma anche in quella della nostra società, tra le prime donne ad affermarsi con grinta e a dar sfoggio di una pittura potente, passionale ed evocativa laddove solo agli uomini era concesso di emergere.

Confronto tra Giuditta di Caravaggio e Giuditta di Artemisia Gentileschi (versione esposta al Museo di Capo di Monte di Napoli)

This article is from: