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ARIA SOTTILE

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MUCCHIO DI NIENTE

MUCCHIO DI NIENTE

ARIA SOTTILE di Irene Spalletti

Si direbbe quasi che intorno alla parte superiore di quelle grandi cime sia stata tracciata una linea oltre la quale nessun uomo riesce a spingersi. La verità, naturalmente, è che ad altitudini di 7600 metri e oltre gli effetti della bassa pressione atmosferica sul corpo umano sono così intensi che diventa impossibile compiere delle imprese alpinistiche di un certo rilievo e persino le conseguenze di un modesto temporale possono essere letali; che solo le condizioni ideali del tempo e della neve offrono una sia pur minima probabilità di successo e che nell’ultimo tratto della scalata nessuna spedizione è in grado di dettare le sue condizioni... No, non è strano che l’Everest non abbia ceduto ai primi tentativi di conquista; anzi, sarebbe stato molto sorprendente e non poco triste se lo avesse fatto, perché non è questo il volto che ci mostrano le grandi montagne. Forse eravamo diventati un poco arroganti con la nostra nuova tecnica dei ramponi da ghiaccio e degli scarponi di gomma, con la nostra Era della facile conquista meccanica. Avevamo dimenticato che è sempre la montagna ad avere in mano la carta vincente, a concedere il successo solo a suo tempo. E perché mai, altrimenti, l’alpinismo conserverebbe ancora il suo profondo fascino?

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ERIC SHIPTON, Upon That Mountain (1938)

Era l’anno 1852 quando nella località di Dehra Dun, nella sede del Servizio geodetico dell’India, un impiegato fece irruzione nello studio di Andrew Waugh, ispettore generale per l’India, esclamando che un contabile bengalese addetto ai rilevamenti per l’ufficio di Calcutta aveva “scoperto la montagna più alta del mondo”. La montagna in questione, denominata Peak xv, svettava sulla catena montuosa dell’Himalaya, nel regno del Nepal. Prima che il contabile, Radhanath Sikdar, effettuasse i calcoli, nessuno sospettava ci fosse niente di notevole nel Peak xv, essendovi stati effettuati in precedenza rilevamenti poco accurati. Tuttavia, secondo i meticolosi calcoli di Sikdar, la montagna raggiungeva l’altezza di 8840 metri sopra il livello del mare, il punto più elevato del pianeta. Nel 1865, nove anni dopo la conferma dei calcoli di Sikdar, Waugh assegnò al Peak xv il nome di monte Everest, in onore di sir George Everest, suo predecessore in quella carica. In realtà, i tibetani che vivevano a nord della montagna l’avevano già battezzata Chomolungma, che tradotto significa “Dea madre del mondo”, mentre i nepalesi che vivevano a sud chiamavano la vetta Sagarmatha, cioè “Dea del cielo”. Waugh però ignorò quelle denominazioni e il nome che rimase definitivamente in uso fu Everest. Dopo che fu appurato che l’Everest era la montagna più alta del mondo, essa fu definita “terzo polo”, poiché dopo che l’esploratore americano Robert Peary aveva sostenuto nel 1909 di aver raggiunto il Polo Nord e Roald Amundsen aveva guidato una spedizione norvegese al Polo Sud nel 1911, l’Everest divenne l’oggetto più desiderato nel regno dell’esplorazione terrestre. Come proclamò Gunther O. Dyhrenfurth, influente alpinista e cronista dei primi tentativi di scalata dell’Himalaya, raggiungere la vetta era “un’impresa umana a livello universale, una causa di fronte alla quale è impossibile tirarsi indietro, quali che siano le perdite che può esigere”. Quelle perdite, in effetti, non furono insignificanti. Dopo la scoperta di Sikdar del 1852, sarebbero stati necessari gli sforzi di quindici spedizioni e 101 anni, oltre alla vita di ventiquattro uomini, prima che la cima dell’Everest fosse finalmente raggiunta. L’Everest, che delimita il confine tra Nepal e Tibet, svettando oltre 3650 metri più in alto delle valli che ne circondano la base, appare come una piramide a tre lati di ghiaccio scintillante e roccia scura e striata. Fra gli alpinisti e i conoscitori di forme geologiche, esso non è

ritenuto una vetta particolarmente attraente; è troppo tozzo nelle proporzioni, troppo largo di raggio, sbozzato in modo troppo rozzo. Ma ciò che manca in fatto di grazia architettonica è compensato dall’assoluta imponenza della massa. Le prime otto spedizioni sull’Everest erano inglesi, e tentarono tutte di scalare la montagna dal versante settentrionale, quello tibetano, in quanto nel 1921 il governo del Tibet aprì finalmente i confini del paese, mentre il Nepal continuò a restare risolutamente chiuso. I primi alpinisti erano costretti a percorrere a piedi circa 650 chilometri da Darjeeling, attraversando l’altopiano Tibetano, per giungere ai piedi della montagna. Essi avevano una conoscenza molto scarsa degli effetti dell’altitudine. Gli esseri umani non sono fatti per poter funzionare alla quota di crociera di un 747; arrivati in cima al Colle Sud, sella montuosa posta a un’altitudine di 7906 metri, il corpo inizia letteralmente a morire, non a caso si chiama la “zona della morte”. La bassa pressione può causare edema polmonari, come cerebrali, dai quali si può sperare di salvarsi solo con una rapida discesa ad un’altitudine più bassa. Dal punto di vista medico, inoltre, arrivare in cima all’Everest è soprattutto un problema di ossigeno, e della sua mancanza; per avere buone probabilità di arrivare in vetta, bisogna preparare i propri corpi all’aria rarefatta. Di tutto questo i primi scalatori non erano a conoscenza, tuttavia, nel 1924 uno dei membri della terza spedizione inglese, Edward Felix Norton, raggiunse l’altezza di oltre 8570 metri, appena 300 metri sotto la vetta, prima di essere sconfitto dalla stanchezza e dalla cecità causata dalla neve. Fu un’impresa straordinaria, che probabilmente non fu superata da nessuno per ventinove anni. Non ve ne è la certezza, in quanto quattro giorni dopo la scalata di Norton, altri due membri della squadra inglese, George Leigh Mallory, il cui nome è legato all’Everest in modo indistricabile, e Andrew Irvine, partirono per raggiungere la vetta. Mentre essi avanzavano verso la cima dell’Everest, un alone di nebbia avvolse la parte superiore della piramide, impedendo ai compagni di seguire i due scalatori. Alle 12:50 la nebbia si diradò per un attimo e un loro compagno, Noel Odell, intravide per un istante Mallory e Irvine prossimi a raggiungere la cima. Tuttavia, quella sera i due scalatori non tornarono alla tenda e nessuno li rivide mai più. È impossibile giudicare se essi avessero raggiunto la vetta prima di essere inghiottiti dalla montagna, ma in mancanza di prove tangibili, la loro vittoria non è stata riconosciuta.

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