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il N° 0 - DICEMBRE 2014

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Periodico dell’Associazione Culturale Il Guitto

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Chiese “scomparse”: la chiesa abbaziale di Sant’Angelo

Panorama dell’emigrazione ciociara in cinque secoli di storia

Essere “Festaroli” a Fumone

Un americano a Fumone

Il sociologo Feliks Gross studia i “bonagentesi”

“Vox populi fumonis” Un patrimonio immateriale da conoscere e tutelare

Ai contadini e cittadini di Bonagente il cui ricordo è legato ai giorni felici trascorsi nelle vallate e dolci colline e antiche città della Ciociaria tra un popolo che serenamente affronta un duro lavoro

EDITORIALE

Feliks Gross

di Elisa Potenziani

Appartenere, appartenersi. Quello dell’appartenenza (a una cultura, a una nazione, a un gruppo di qualunque genere) è un bisogno che ci spinge a reagire, a proteggere, a lottare… è tuttavia un valore che tendiamo a disconoscere credendo che “poco conosciuto” sia sinonimo di “poco importante” e che “storico” lo sia di “vecchio, superato”. Guardando attraverso il buco della serratura ci accorgiamo che tra le pieghe della quotidianità prende forma un’altra vita, l’eredità culturale di una civiltà che muta, giorno dopo giorno, ma che ci chiede di essere conosciuta e custodita. - Pag. 2

di Stefano Petri

Con questa dedica si apre il volume che contiene uno studio socio-antropologico sul paese di Fumone condotto dal sociologo Feliks Gross tra il 1957 e il 1971. Ma chi è stato Feliks Gross? E come è arrivato a Fumone? Il sociologo umanista – così definito dall’ ASA (American Sociological Association) nel giorno del suo centesimo compleanno – nasce il 17 giugno 1906 a Cracovia, a quel tempo vivace centro della vita intellettuale e culturale polacca. Dopo essersi laureato in giurisprudenza, grazie a una borsa di studio, arriva a Londra dove conosce il famoso antropologo Malinowski, padre della moderna etnografia, la cui influenza lo avrebbe portato a occuparsi per tutta la vita delle scienze sociali.Tornato in Polonia diventa un attivista politico e sociale, coraggioso e rispettato, a tal punto da riuscire a fondare, nel 1934, la Scuola di Scienza del lavoro; è proprio per questo suo forte impegno che allo scoppio della seconda guerra mondiale, considerando anche le sue origine ebraiche, è costretto a lasciare la sua patria per trasferirsi negli Stati Uniti. - Pag. 3


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segue da Pag. 1 - Non vogliamo essere i paladini dell’età dell’oro che non torna più ma salvaguardare una memoria che è costituita prevalentemente dai racconti dei nostri nonni, ultimi depositari di testimonianze tramandate oralmente, per generazioni: testimonianze che, con il venir meno dei nostri cari, rischiano di andare perdute per sempre. A tale scopo è nato “Il Guitto”, la rivista trimestrale di cultura fumonese e ciociara. “Il Guitto” ci permetterà di conoscere Fumone attraverso le sue tradizioni, le festività religiose, l’attualità, il folclore, gli aspetti storici, architettonici, archeologici e culinari: verranno condotte ricerche d’archivio e interviste, sarà raccolto materiale foto-

grafico con lo scopo di conservare la memoria collettiva e visiva. Partiamo dal nome: “Il Guitto”. In passato erano chiamati “guitti” quei ciociari che, in cerca di un avvenire migliore, migravano verso l’Agro Romano e l’Agro Pontino oppure nelle grandi città: guitto significa dunque “nomade, spiantato” ma la sua figura conserva tutto il fascino del pioniere, del coraggioso, dell’uomo artefice della propria sorte. Ora veniamo al progetto. Della rivista, pubblicata con cadenza trimestrale, prevediamo la distribuzione cartacea delle copie a Fumone e in diversi luoghi della provincia di Frosinone e la diffusione a oltre 10.000 contatti, tramite posta elettronica. Ogni fumonese potrà partecipare a

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questo progetto: scrivendo articoli, raccontando episodi di vita quotidiana individuale o collettiva; recuperando dal pozzo della memoria preziose testimonianze della cultura e della tradizione fumonese e ciociara. Per la stampa cartacea delle copie abbiamo chiesto il sostegno delle attività commerciali di Fumone e dei paesi limitrofi e il contributo di privati cittadini: li ringraziamo tutti perché il loro entusiasmo, nonostante i tempi duri, ci incoraggia e ci sprona a fare molto. A voi, lettori, promettiamo il nostro impegno, la nostra curiosità, la nostra perseveranza, la nostra passione. A voi dedichiamo il primo numero de “Il guitto”… Buona lettura!

Ballo dell’Orso. Incisione di B. Pinelli (1809). Vicino al Pantheon, un ciociaro ed uno zampognaro fanno esibire un orso tenuto alla catena.

il Guitto - Periodico trimestrale di cultura fumonese e ciociara Direttore: Elisa Potenziani - Direttore artistico: Francesco Caponera Hanno collaborato a questo numero: Lamberta Caponera, Mariano D’Agostini, Stefania Del Monte, Giuseppe Gatta, Bruno Mastromoro, Stefano Petri, Federico Pica, Alessandro Potenziani, Michele Rossi.

info.ilguitto@gmail.com


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segue da Pag. 1 - Arrivato a New York, insieme al suo professore

e mentore Malinowski, fonda l’Istituto polacco delle Arti e delle Scienze d’America, vero e proprio faro democratico e indipendente per gli studiosi polacchi prima che la Polonia tornasse di nuovo “libera” nel 1989. Dal 1946 al 1977 Gross è stato membro della Facoltà di Sociologia presso il Brooklyn College; nel corso della sua lunga e stimata carriera ha ricoperto diversi incarichi prestigiosi, scritto oltre 20 libri (di cui uno tradotto anche in cinese), tenuto conferenze in Usa e in Europa. È proprio durante un ciclo di conferenze in Europa che conosce, a Feliks Gross Roma, il professor Vittorio Castellano, preside della Facoltà di Scienze statistiche demografiche e attuariali dell’Università “La Sapienza” e matura la decisione di avviare uno studio sulle dinamiche sociali di un “villaggio italiano” in un periodo storico di transizione. Dalla collaborazione fra Feliks Gross e il professor Cerase, suo amico – anch’egli sociologo e già conoscitore di Fumone – ha origine la ricerca pubblicata nel 1973 con il titolo “Values and social change in an italian village” (tradotta in italiano con il titolo “Contadini, rocche e contrade della Ciociaria”): essa indaga l’evoluzione sociale di una comunità, i suoi valori e gli obiettivi collettivi e individuali che sono parte del tessuto sociale dell’uomo e si concretizzano nei vari ambiti della vita quotidiana attraverso la famiglia, la parentela, il matrimonio, l’alimentazione, il vestiario, l’abitazione, l’organizzazione politica, la religione, il linguaggio, le arti, l’educazione e la formazione della personalità.

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Il professor Gross ha adottato come tecnica di studio il cosiddetto “osservatorio partecipante”, metodo attraverso il quale si osservano i comportamenti di un determinato gruppo di individui prendendo parte alla loro vita; il sociologo polacco conduce dunque la ricerca sul campo dimorando a Fumone in località Fossa Zoffrena in tre momenti diversi: la prima volta tra il 1957 e il 1958, la seconda nel 1969 e la terza nel 1971. Per sua stessa ammissione, la ricerca all’inizio doveva essere più contenuta essendo parte integrante di uno studio comparativo a lunga scadenza ma il paese, i suoi abitanti e soprattutto il “mutamento sociale di cui essi hanno fatto esperienza, hanno acquistato un interesse particolare”: questo lo ha indotto a modificare i presupposti dello studio stesso. Durante i suoi soggiorni, grazie soprattutto al sostegno del sindaco, il professor Eugenio Genesio Del Monte, lo studioso riesce a creare un rapporto intenso e profondo con diverse persone di Fumone: abbandona i questionari della fase iniziale di documentazione e li sostituisce con interviste singole e collettive. Il professor Gross, nel prosieguo della ricerca, rimane notevolmente sorpreso dai cambiamenti intercorsi fra le sue diverse visite a Fumone a tal punto che pur essendo pronto, nel giugno 1969, lo studio per la pubblicazione e la successiva presentazione al ventiduesimo Congresso dell’Istituto internazionale di sociologia a Roma, decide di organizzare una nuova e più lunga visita a Fumone per integrare i dati raccolti in precedenza. Egli è testimone di quel processo di mutamento che ha trasformato una società da “tradizionale” a tecnologicamente avanzata che guarda al futuro con occhi diversi rispetto al passato. Nel 1971 decide di tornare nel paese ciociaro per capire meglio le novità che caratterizzano i nuovi “bonagentesi” (così Feliks Gross chiama i fumonesi della fine degli anni ’60). La penna del sociologo umanista traccia con precisione e acume i ritratti delle persone conosciute a Fumone, arricchendo di dettagli e curiosità il suo studio, descrivendo innumerevoli momenti di vita di una società che sta affrontando, inconsapevolmente, una trasformazione epocale. Ed è proprio di questi momenti, nati dalla commistione fra studio e umanità, che tratteremo nel nostro prossimo appuntamento.


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Camminare nella storia Cioce e tradizione di Giuseppe Gatta

La “ciocia” è una calzatura tradizionale tipica di varie regioni: era in uso fino a qualche decennio fa nel Lazio, Abruzzo, Molise e Campania. Il nome cambia

di zona in zona: può chiamarsi “ciocia” o “zampitto”, “chiochiera” o “scìascia” (in napoletano). Nonostante la varietà di nomi, però, la tipologia di questo tipo di calzatura era unica: essa era infatti composta da ampie suole di cuoio trattato che avvolgevano il piede, fermate alla gamba con delle strenghe, anch’esse di cuoio. Di solito erano indossate con una calza resistente, per evitare che il contatto del piede con il cuoio trattato causasse calli e piaghe dolorose. Tali calzature erano tipiche di pastori e contadini, usate sia dagli uomini che dalle donne. La forma e il materiale di cui erano fatte

permetteva a chi le indossava di far adattare il movimento del piede ad ogni tipologia di terreno, lasciando inoltre un’ampia libertà di movimento nello svolgimento del lavoro contadino. Nessuna regione italiana attuale corrisponde all’area geografica in cui tali calzature erano maggiormente usate. Dalla ciocia deriva infatti “Ciociaria”, nome attraverso il quale, a Roma, venivano identificati i territori provinciali verso sud, comprensivi anche di buona parte della valle del fiume Aniene. La Ciociaria, dalla fine del XVII secolo viene convenzionalmente identificata con buona parte della provincia di Frosinone, costituita, però, successivamente. La ricostruzione summenzionata convive con un’altra tradizione più fantasiosa, secondo cui il nome ciocia deriva dal latino “soccus” (ovvero “zoccola” cioè


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topo), poi per influssi dialettali modificato lunga durata della calzatura. L’ultimo avve- addurre a questo rifiuto (presumibilmente in “socia” e quindi “ciocia”. Questa tradi- nimento storico importante legato all’uso insieme a tanti altri motivi di importanza zione è legata alla leggenda secondo cui in delle cioce sembra risalire al XVII secolo maggiore) la lotta ingaggiata dai briganti ciociari contro lo Stato Ponalcune zone del basso Lazio, tificio; da questo momento i Molise, Abruzzo e Campania vigeva la tradizione, per alcubriganti iniziarono a far rifeni aspetti simile a un rito, di rimento al territorio a sud di uccidere grandi topi per ricaRoma chiamandolo “Magna Ciociaria”, espressione rivarne delle calzature. La scelta masta in vigore fino al 1950 dei topi era data dalla resiquando fu creata la regione stenza della loro pelle e dalla Lazio. La stessa Azienda di capacità di adattarsi al piede umano. La ricerca delle bePromozione Turistica della Provincia di Frosinone idenstiole doveva essere fatta in un periodo particolare dell’anno, tifica la Ciociaria con la quasi totalità del territorio del frudurante la notte dell’equinosinate. L’uso delle cioce oggi zio d’estate, da soli uomini e ovviamente è in desuetudine. nelle paludi. ContemporaneIl loro uso resta circoscritto amente, le donne dovevano accendere grandi falò sulle a manifestazioni folkloristiche e rievocazioni storiche a cime delle montagne circoPunch (rivista satirica inglese) 24 agosto 1861: vignetta satirica con Pio IX stanti. Gli uomini avrebbero tema. La donna con le cioce, indicato come il vero capo dei briganti, con tiara e cioce l’ampia gonna merlettata e ucciso a mani nude gli animentre distribuisce armi ai briganti due file di coralli rossi al collo mali, li avrebbero privati delle interiora e ne avrebbero utilizzato il corpo quando i ciociari vollero imporre la cal- è l’icona della Ciociaria nel mondo, resa come calzatura, introducendo direttamen- zatura alla gerarchia ecclesiastica che de- celebre dall’incredibile interpretazione di te nei resti dell’animale sventrato il piede: clinò l’invito mancando ancora una volta Sofia Loren nel film “La Ciociara” diretto questo procedimento avrebbe garantito la l’appuntamento con la sobrietà: sembra da da Vittorio De Sica.


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Chiese “scomparse”

La chiesa abbaziale di Sant’Angelo di Alessandro Potenziani

Erano molte un tempo le chiese che animavano la vita religiosa nel territorio di Fumone: lo storico Giuseppe Ricciotti, alla fine dell’Ottocento, ne menzionava

facendo riferimento alla sola ubicazione. Oggi, in qualche caso, si è perso anche quel ricordo. Di queste chiese, molto probabilmente, la più antica e impor-

La chiesa di Sant’Angelo in un’antica incisione tratta dalla rivista: “Album, giornale letterario e di belle arti”, Roma 1851.

alcune tra cui quella di San Doce, di San Pietro, della Santa Croce, di San Pantaleo e di Sant’Angelo, già allora ricordate

tante era quella di Sant’Angelo, fuori le mura del castrum, la quale aveva sotto la sua giurisdizione l’omonima parroc-

chia di San Michele Arcangelo. Alcuni documenti rintracciati in vari archivi, unitamente a informazioni tratte da pubblicazioni del passato, permettono di tracciare, seppur sinteticamente, un quadro abbastanza completo su questa antichissima chiesa. La chiesa di Sant’Angelo era situata a meno di cento metri a sud dell’abitato di Fumone, arroccata in un luogo assai panoramico su uno spiazzo roccioso del monte. Fu edificata come chiesa abbaziale intorno al XII secolo ad opera dei Benedettini, come dimostrano le prime notizie risalenti agli inizi del 1200, quando compaiono le “decime” e i relativi abati che le corrispondevano agli enti ecclesiastici. Successive notizie della chiesa si hanno in due bolle di Bonifacio VIII, tra cui una dell’anno giubilare 1300, come riferisce l’illustre archeologo fumonese Giuseppe MarchettiLonghi. Un antico documento ipotizza che la chiesa sorse sulle vestigia di un antichissimo tempio pagano dedicato a Marte, a protezione del paese; considerando il carattere militare che aveva allora la rocca di Fumone, non sarebbe del tutto fuori luogo pensarlo. È molto probabile che l’origine del culto di san Michele Arcangelo a Fumone sia da ricondurre al ruolo attribuito al santo di “custode e patrono della Santa Chiesa”, assimilabile alla funzione che svolgeva la rocca di Fumone come sen-


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tinella di difesa dei confini meridionali dello Stato Pontificio. Del resto già la guarnigione militare che presidiava la rocca di Fumone aveva preposto a suo protettore un’altra autorevole figura di “santo soldato”, quella di san Sebastiano. Finora non è dato sapere quando la chiesa divenne parrocchiale ma, nel 1585 ormai malridotta e caduta in disuso per la scomoda ubicazione, per decreto dell’allora vescovo diocesano Ignazio Danti si cominciarono a esercitare le funzioni religiose nella chiesa di San Gaugerico, fondata intorno alla fine del Duecento, situata internamente all’abitato di Fumone e compresa nel territorio parrocchiale di San Michele Arcangelo. Una bolla di Pio VI del 14 settembre 1781 ribadì la distinzione e l’autonomia delle due parrocchie fumonesi, quella di Santa Maria Annunziata e, appunto, quella di San Michele Arcangelo. Tuttavia, soltanto nell’anno 1920 fu aggiunto il titolo di San Michele Arcangelo alla chiesa di San Gaugerico e ciò avvenne per l’interessamento dell’abate parroco don Angelo Celani, supportato dai suoi parrocchiani, con richiesta datata 5 agosto 1920. Tale risoluzione si concretizzò con decreto vescovile datato primo settembre dello stesso anno, firmato dal vescovo Antonio Torrini, ufficializzato da monsignor Ignazio Malandrucco prelato domestico del papa e dal cancelliere vescovile Francesco Saverio Cianfrocca, il giorno 19 settembre 1920: fu così creata la nuova chiesa parrocchiale alla quale veniva concessa la facoltà di celebrare la festa annuale del santo il 29 settembre. Secondo una descrizione abbastanza esaustiva risalente alla seconda metà

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del XVIII secolo, la costruzione doveva della piazza di Santa Maria Annunziaavere una struttura semplice, tipica delle ta, unitamente ai defunti di questa parchiese rurali del secolo XII, a pianta ret- rocchia. I ruderi della chiesa dovevano tangolare, a navata unica, conclusa nel esistere ancora agli inizi del Novecenfondo da un’abside semicircolare, con to, ma, per la costruzione di un campo l’ingresso rivolto a ponente e l’altare a sportivo, vennero definitivamente rasi al oriente, secondo la prima tradizione cristiana. L’ingresso principale, che dava accesso a un piccolo atrio a pianta quadrata, aveva al di sopra del portale, una lunetta semicircolare e più in alto una finestra dalla forma tonda. La copertura era a padiglione con l’orditura in legno sorretta da capriate; all’esterno, sul lato Antica planimetria della chiesa di Sant’Angelo settentrionale, un tratta dal “Catasto Gregoriano” del 1819 (copia originale, conservata nell’Arpiccolo campanichivio storico comunale di Fumone). le conteneva l’unica campana la quale recava iscrizioni, suolo nel 1931. Da testimonianze locali stemmi e la data del 1581. All’interno si ha notizia che, all’interno del terresi trovavano: un altare in pietra, alcune no attiguo, vi era un grande pozzo in tracce di pitture, acquasantiere in forma pietra. di conchiglia quadra e, nella conca ab- Oggi, di questa antica e preziosa chiesa sidale, la raffigurazione del santo titola- romanica, non rimane altro che qualche re che calpestava il demonio tenendolo tratto di muro che delimitava quel picper una catena con una mano mentre colo cimitero. con l’altra teneva la spada sfoderata. Se da una parte queste informazioni All’esterno, lungo il lato settentrionale ci restituiscono qualcosa del passato dell’edificio, era annesso alla chiesa un irrimediabilmente perduto, dall’alpiccolo terreno adibito a sepoltura dei tra dovrebbero suscitare una maggiore defunti appartenenti alla parrocchia, i consapevolezza di quello che ci è stato quali, dal 1585 in poi, furono seppelliti tramandato, impegnandoci nella sua salnegli ambienti sotterranei della chiesa e vaguardia e valorizzazione.


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L’emigrazione ciociara in cinque secoli di storia

Guitti, soldati e operai i primi fumonesi all’estero di Stefania Del Monte

Gli italiani che scelgono una vita all’estero aumentano di giorno in giorno. Questa tendenza, particolarmente diffusa nei decenni successivi all’unificazione oltre che in concomitanza con le due guerre mondiali, è tornata alla ribalta in maniera prepotente in tempi recenti, interessando anche – e soprattutto – la zona della Ciociaria, inclusa Fumone. I Ciociari occupano oggi una delle prime posizioni nella classifica degli emigrati italiani all’estero. Basti pensare ad una ricerca pubblicata dal Corriere della Sera il 24 ottobre 2005, la quale evidenziava che su circa 3500 emigrati italiani presenti in Irlanda in quel periodo, il novanta percento proveniva dalla Ciociaria. La tradizione migratoria ciociara, comunque, non è una novità: al contrario, risulta diffusa fin dal sedicesimo secolo. Il primo esodo di cui si hanno tracce fu quello che dalla Terra di Lavoro settentrionale, e pertanto dalla Ciociaria meridionale, si diresse verso l’Agro Romano e Pontino. Alcuni di questi spostamenti erano stagionali, come nel caso dei pastori che scendevano in transumanza dalle montagne ciociare verso l’odierna pianura pontina. Altri invece avevano un carattere più permanente, e riguardavano principalmente braccianti reclutati da un “caporale”, nel proprio paese o nell’Urbe, con due tipi di contratto: quello alla montanara, per il quale prima di partire si riceveva una caparra e quello di piazza, che si firmava a Roma nella scomparsa Piazza Montanara, presso il Campidoglio. Provenienti dall’area ernica e dalle valli circostanti, i Ciociari (o Guitti) giungevano in città a piedi o – dalla fine dell’Ottocento – anche in treno. La Piazza Montanara (una specie di antica Porta Portese) era per loro anche un luogo ove vendere le erbe raccolte nei campi, le rane, le lumache, i fasci di gramigna, le sanguisughe, gli oggetti antichi rinvenuti lavorando nelle tenute. Le donne,

invece, oltre a lavorare da balie, serve o modelle, vendevano fiori di campo e di bosco. Per le feste natalizie giungevano in città anche pifferai e zampognari, che attiravano la simpatia degli stranieri e dei romani con esibizioni di strada. E proprio gli artisti di strada furono protagonisti dei successivi flussi migratori che, partendo da ogni angolo della Ciociaria, raggiunsero molti paesi europei. Dal 1700 pifferai, zampognari, suonatori di tamburello e di organetto, comici, saltimbanchi e improvvisati venditori ciociari furono dei veri e propri pionieri dell’emigrazione all’estero, esportando anche quella miscela tra sacro e profano che è tipica della cultura popolare nostrana. Ancora oggi si possono vedere, in ogni museo del mon-

L’italiana (L’Italienne) Vincent van Gogh, 1887 Museo de Orsay, París

do, quadri raffiguranti questi artisti nei loro costumi tipici, talvolta accompagnati da animali esotici per rendere più vivaci i

loro numeri. Michele Santulli, nel volume dal titolo Modelle e Modelli Ciociari nella Storia dell’Arte Europea rivela però che non furono soltanto gli artisti di strada ad avere successo nel campo della pittura. I tratti straordinari di alcune donne ciociare vennero infatti immortalati in opere quali l’Agostina di Van Gogh, oggi esposta al Museo d’Orsay di Parigi, o Le Tre Sorelle di Matisse. In generale, i ciociari emigrati all’estero non ebbero difficoltà a farsi apprezzare per le loro numerose qualità e per la grande capacità d’integrazione. Lo dimostra tra l’altro la loro cospicua presenza nelle file dell’esercito americano, impegnato nella prima guerra mondiale in Francia. Gli emigrati nostrani si seppero distinguere e far amare nei loro paesi di adozione grazie ad uno stile di vita semplice, al lavoro duro, allo spirito di sacrificio, alla generosità e ad un grande senso di comunità. Ne è un esempio “Mama” Fernanda Delmonte, fumonese verace emigrata in Connecticut. La sua storia, pubblicata nel marzo 2007 dal periodico Hartford Courant a seguito della sua scomparsa, non si discosta molto da quella dei tanti fumonesi e ciociari che nel dopoguerra si trasferirono in America in cerca di fortuna. Vedova di Alberto Del Monte (“ribattezzato” Albert Delmonte al suo arrivo a Ellis Island), un veterano della prima e seconda guerra mondiale da cui ebbe due figli, Aida e Albert junior, Fernanda era nata a Fumone il 14 settembre 1921 da Giovanni e Pasqua Lucia. Cresciuta presso una fattoria, in una famiglia numerosa, aveva vissuto una vita rurale e faticosa, in cui aveva però appreso i valori della famiglia, dell’altruismo e della frugalità, contribuendo attivamente alla lotta partigiana durante la seconda guerra mondiale e assistendo i soldati alleati impegnati nella liberazione. Fernanda seguì suo marito Albert in Ame-


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Famiglia italiana sulla nave in partenza per gli Stati Uniti

rica nel 1948. In seguito al suo matrimonio divenne cittadina statunitense il 13 giugno 1952 e dopo aver vissuto brevemente ad Hartford si trasferì a Glastonbury con suo marito, dove rimase per il resto della sua vita. Entrambi lavorarono per molti anni alla Olivetti Underwood di Hartford, costruendo pezzi di ricambio per macchine da scrivere, e furono operai presso alcune fabbriche di tabacco della zona. Durante gli anni vissuti a Glastonbury, Fernanda conquistò tutto il vicinato con le sue armi migliori: l’amore e la cucina. Nessuno sapeva preparare la pasta fatta in casa e le polpette come “Mama” Delmonte e, in qualsiasi momento del giorno o della notte, chiunque giungesse nella sua casa poteva assaporare qualche prelibatezza ciociara! Sempre impegnata ad aiutare il prossimo, si distinse per anni nell’organizzazione di eventi benefici per la sua comunità. La storia di Fernanda è simile a quella di centinaia di altri compaesani che dalla seconda metà dell’Ottocento scelsero di tentare la fortuna all’estero. E non si può definire casuale neanche il trasferimento in Connecticut, stato che accolse tantissimi emigrati provenienti dal mezzogiorno italiano. Secondo uno studio pubblicato dalla Wethersfield Historical Society, il numero d’italiani presente nello stato americano nel 1868 ammontava a 117 unità, salite dieci anni dopo a 879 e, nei quattro decenni successivi, ad alcune decine di migliaia. Gli immigrati provenivano per la maggior parte dai paesi a sud di Roma, inclusa la Ciociaria. Oggi, quasi il venti percento della popolazione del Connecticut rivendica origini italiane, portandolo ad essere il secondo degli Stati Uniti d’America per numero di italiani presenti dopo Rhode

Island. Lo studio evidenzia alcune curiosità: ad esempio si menziona che, inizialmente, la comunità italiana era composta principalmente da giovani uomini scapoli. Malgrado molti di loro giunsero al matrimonio in tarda età, nella tipica tradizione italiana le famiglie s’ingrandirono in fretta, trasformando radicalmente la società con una folta presenza d’italiani di seconda generazione. La maggioranza degli espatriati, come nel caso di “Mama” Fernanda, una volta giunta in America vi rimase per sempre, ma senza dimenticare la terra d’origine, dove molti familiari rimasti a casa furono in grado di sopravvivere grazie alle “rimesse” inviate loro dai parenti americani. La diffusione di questa pratica comportò in Ciociaria, così come in altre zone d’Italia, la nascita di banche e l’aumento del prezzo d’acquisto dei terreni. Vi furono tuttavia anche molti ciociari che, dopo aver trascorso una vita di lavoro e sacrificio lontano dal loro luogo d’origine, decisero di tornarvi in pensione. Il livello “sociale” raggiunto da quegli emigranti era attestato da un elemento che costituiva motivo d’orgoglio e soddisfazione: la “cecca” (ciociarizzazione di check: assegno), ovvero la generosa pensione in dollari che puntualmente arrivava ai lavoratori a riposo che erano rientrati in Italia a trascorrere la vecchiaia. Una scelta fatta inizialmente per necessità, finì così per acquisire dei toni romantici che contrastano moltissimo con l’odierno fenomeno migratorio, caratterizzato invece da una spinta propulsiva completamente diversa. Il frenetico viavai al quale stiamo assistendo in questo periodo è probabilmente dovuto al fatto che, mentre andare a vivere in un altro paese per i nostri bi-

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snonni era piuttosto complicato, emigrare oggi è diventato facilissimo. Per trasferirsi all’estero, infatti, i nostri avi dovevano subire rigidi controlli preventivi. Ad esempio negli Stati Uniti si poteva andare solo dopo essersi sottoposti a una serie di verifiche mediche e giuridiche che coinvolgevano anche i parenti più lontani e, una volta giunti dall’altra parte dell’oceano, l’approdo alla dogana newyorkese di Ellis Island costituiva un secondo controllo, molto più severo. Superate queste enormi difficoltà burocratiche, si aveva la possibilità di mettere piede a Manhattan e da lì ricominciare una vita praticamente da zero. Oggi il quadro è completamente mutato. La nascita dell’Unione Europea – che ha semplificato gli spostamenti all’interno del vecchio continente – e l’introduzione di viaggi aerei a basso costo, sono alcuni degli elementi che hanno contribuito a deviare i nostri emigranti verso destinazioni più accessibili quali l’Inghilterra, la Francia, l’Irlanda e la Germania. Tra i nuovi fumonesi all’estero si annoverano addetti a settori tradizionali come quello dell’ospitalità o della ristorazione, ma anche ingegneri, tecnici informatici, imprenditori e professionisti di ogni genere. Fumone presenta tuttavia una peculiarità che la contraddistingue da tanti altri comuni della Ciociaria: un flusso migratorio a doppio senso. La cospicua emigrazione di fumonesi verso l’estero è infatti accompagnata da un parallelo ripopolamento del borgo ad opera soprattutto d’immigranti inglesi, che proprio tra i nostri vicoli e le nostre colline hanno trovato il loro posto al sole.

Fonti e riferimenti bibliografici Gente di Ciociaria, di Ugo Iannazzi e Eugenio Maria Beranger, 2007 Il costume ciociaro nell’arte europea del 1800, di Michele Santulli, Grafiche del Liri, Isola del Liri, Edizioni Ciociaria Sconosciuta, 2009 Modelle e Modelli Ciociari nell’Arte Europea a Roma, Parigi, Londra nel 1800-1900, di Michele Santulli, Arpino, Edizioni Ciociaria Sconosciuta, 2010 Siti internet http://archiviostorico.corriere.it/ (Corriere della Sera) http://articles.courant.com (Hartford Courant) http://www.libertyellisfoundation.org (Ellis Island Foundation) http://www.museogentediciociaria.it (Museo Gente di Ciociaria) http://www.wethhist.org (Wethersfield Historical Society)


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L’Angolo della memoria

L’abitazione fumonese intorno al 1950 di Bruno Mastromoro

Una sorta di smania mi coglie ogni volta che sento parlare le persone anziane. Le poche ancora viventi sono le ultime memorie di un passato che sembra ormai lontanissimo e, dunque, perduto per sempre. Queste persone, mediamente molto vicine ai novant’anni, più o meno consapevolmente, nei loro racconti descrivono dettagliatamente il contesto ambientale delle case di un tempo, il lavoro in esse svolto, l’evolversi della vita giornaliera e i rapporti sociali vissuti all’interno del borgo di Fumone. Il periodo al quale si fa riferimento comprende i decenni che precedono e seguono immediatamente la seconda guerra mondiale: un passato cronologicamente non molto lontano ma che richiederebbe altri metodi di misura se invece venisse letto considerando il progresso scientifico degli ultimi decenni. Nel borgo di Fumone c’è un’abitazione, rimasta chiusa dal 1975, a causa della morte del suo ultimo abitante, che conserva tratti caratteristici per la descrizione delle case di allora. L’abitazione vera e propria si articola su due livelli, con il livello inferiore sito al primo piano. Al pian terreno c’è un altro locale che a suo tempo serviva come ricovero per l’asino della famiglia proprietaria della casa sovrastante e non è in comunicazione diretta con essa. L’in-

gresso dell’abitazione è situato sul lato sud e vi si accede tramite cinque gradini in pietra e una porta in legno che misura cm180x80. Si entra in una stanza di circa 25 metri quadrati, alta all’incirca 2,50 mt; attira lo sguardo, nella parete di fronte, quasi all’altezza del soffitto, la presenza di due tavole attaccate al muro una sull’altra alla distanza di circa 40 cm, verniciate con una vernice celeste pastello, lunghe circa 180 cm e larghe circa 10 cm, sulle quali trovano alloggio varie pentole e coperchi in alluminio e rame, appesi a ganci fissati sulle tavole. All’angolo, in una rientranza nel muro di circa 40 cm di profondità, alloggia la tina, recipiente che serviva da contenitore per l’acqua, usata per bere, cucinare, lavare i piatti e ha una capienza di circa 10 litri. A sinistra, sulla stessa parete, è collocata una rete con materasso che di giorno era usato come divano e di notte serviva per dormire. Al centro della stanza è posizionato il tavolo, che oltre alla consumazione dei pasti, veniva usato durante il giorno come piano d’appoggio per le attività più disparate. Sulla parete di destra, all’angolo più lontano dall’ingresso, c’è una piccola finestra, unico punto che permette l’ingresso della luce. Sulla stessa parete, tornando verso l’ingresso, ben visibili, ci sono tre rientranze ricavate sul muro, due sotto e una immediatamente sopra,

all’altezza di circa 70 cm dal pavimento con una profondità di 30 cm. Le rientranze inferiori sono quadrate ma molto irregolari, mentre quella superiore è di forma rettangolare e comunicano tra di loro tramite un foro ricavato all’interno: erano i fornelli che giornalmente venivano usati per cucinare. La cottura a fuoco lento richiedeva l’intera mattinata e quindi la costante presenza di una persona addetta al controllo del fuoco e alla cottura dei cibi. Sempre sulla stessa parete di destra, confinante con l’angolo del muro d’ingresso, trova spazio un grande camino che serviva per scaldare l’ambiente nelle giornate più fredde e per cucinare cibi che richiedevano recipienti di dimensioni maggiori. A destra, appoggiata al muro della parete d’ingresso, una cassapanca svolgeva le funzioni di contenitore e di piano d’appoggio per sedersi vicino al camino. Sulla parete di sinistra c’è una credenza in legno, molto semplice, con quattro sportelli di cm 30x30 e dell’altezza complessiva di circa 80 cm. A fianco alla credenza, subito dietro la porta d’ingresso, c’è all’angolo uno sportellino di legno a muro di cm 30x40, che contiene un foro comunicante con la fogna: questo svolgeva alcune funzioni dei bagni odierni e, secondo alcune testimonianze, erano poche le famiglie che possedevano tale comodità.


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I muri della stanza sono di due diverse tonalità: partendo dal pavimento e salendo per circa un metro, lungo tutta la stanza corre una fascia di colore celeste, pitturata con vernice per questioni igieniche. Il resto della stanza, compreso il soffitto in legno, è pitturato con tempera bianca per dare più luminosità all’ambiente. Al centro del soffitto, l’unico punto luce è costituito da un piatto in metallo laccato dove trova alloggio una lampadina. Sul lato sinistro c’è una costruzione in legno: una porta dà accesso alla scala che conduce al livello superiore. Salendo sei gradini abbastanza ripidi, tramite una botola, si giunge alla stanza da letto. Emergendo dal piano inferiore si rimane abbagliati dalla luminosità di questa stanza, che proviene dall’unica finestra posta di fronte all’ingresso e dalla quale si può osservare un panorama semplice ma appagan-

te, costituito dai tetti delle abitazioni di fronte e da lontane e cineree montagne, in direzione est. Sulla parete di fondo, a sinistra, c’è, appoggiato al muro, il letto matrimoniale con terminali in ferro e, ai suoi piedi, un letto singolo messo in orizzontale. A sinistra c’è un piccolo armadio a due ante mentre sulla parete di destra, poggiati al muro, ci sono un comò e una cassapanca. Completa l’arredamento un lavabo, consistente in un manufatto in ferro dove trovano alloggio il bacile e una brocca in metallo, il tutto vicino alla finestra. I muri della stanza sono pitturati in rosa mentre il soffitto, costruito con tavole molto leggere sulle quali poggiano direttamente le tegole, è pitturato in bianco. Come facevano a vivere? La domanda nasce spontanea da un sommario confronto con le abitazioni moderne: non c’è la Tv! Non c’è Internet! Ma nean-

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che l’acqua calda! Non c’è il riscaldamento! Non ci sono divani! Il lavabo serviva, al mattino appena svegli, ad espletare le essenziali funzioni di pulizia, usando solo circa un litro di acqua fredda (a volte anche meno!). L’unica fonte di calore della casa, il camino, lasciava passare più aria che calore, complice anche una piccola buca praticata in basso a destra sulla porta d’ingresso per lasciare entrare i gatti, che cacciavano indesiderati topolini. Benché circondati da un ambiente irreale, si percepisce un’estrema dignità ispirata dalla semplicità e dalla compostezza del luogo. Quando si esce, l’impressione che rimane è che l’aver varcato quei cinque gradini ci ha dato la possibilità di effettuare un viaggio spazio-temporale permettendoci di vivere la realtà di un’epoca recente seppur lontanissima dalle nostre abitudini!


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Storie di un tempo

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La Caserma dei Carabinieri a Fumone di Lamberta Caponera

Negli anni a Fumone, ho sempre visto, tra i tanti turisti, persone passeggiare e soffermarsi a contemplare un portone, una finestra, una casa o un semplice muretto, come se questi gli raccontassero storie d’altri tempi. La stessa cosa ora succede anche a me: con la suggestione dei racconti che ho sentito negli anni dalle persone anziane, passeggio per le vie del borgo e mi sembra di vedere bambini che giocano, donne che si raccontano pettegolezzi mentre prendono l’acqua alle fontane, signore che da dietro le finestre si scambiano confidenze e intanto controllano i movimenti dei vicini e immagino, nelle osterie, tavoli pieni di uomini impegnati a giocare a carte o con bottiglie di vino intenti in goliardiche “passatelle”. Mi sembra addirittura di sentire i passi cadenzati di due uomini, che scendendo per via Colle, terminano il giro di ronda rientrando in una palazzina sulla sinistra. Quella palazzina, oggi di proprietà di Gianni Longhi, unitamente al piano superiore del palazzo Longhi, era la caserma dei carabinieri. Le due abitazioni sono ancora oggi collegate da un ponte corridoio su via Covoni: in un’ala vi erano gli uffici, nell’altra le residenze dei militari scapoli e negli scantinati erano ubicate le celle per i detenuti. Da via Covoni, nei pressi dell’angolo medioevale, sono visibili due finestre con doppie sbarre: sono le finestre del carcere. Gli anziani di Fumone ricordano gli uffici della caserma decorati con simboli e motti della Benemerita, eseguiti dalla ditta locale Cialone Tullio e figlio. Il servizio dei militari in un paese pacifico come Fumone era tutt’altro che impegnativo: controllavano il territorio e più spesso facevano da pacieri nelle liti familiari o tra vicini, oppure dispensavano consigli e consolazioni ai cittadini. A dimostrazione della vita tranquilla dei carabinieri nel

paese, alcuni ricordano che per movimentare un po’ le giornate si facevano scherzi e burle a tutti: un giorno alcuni giovani presero di mira un loro amico, il maresciallo Zerbini, uccidendogli il gatto e facendoglielo ritrovare impagliato di fronte a casa. Negli anni cinquanta, l’arma dei Carabinieri fu equipaggiata con auto di servizio quindi la caserma, che era diventata logisticamente inadeguata, fu spostata fuori le mura, nella palazzina dei Di Folca, dove oggi sono gli uffici postali: qui rimase fino alla metà degli anni sessanta quando fu soppressa e i Carabinieri che vi prestavano servizio trasferiti presso la sede di Alatri.


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Essere “Festaroli” a Fumone Intervista a Mariateresa di Michele Rossi

La Ciociaria, con i suoi novantuno comuni, è una terra che conserva tradizioni religiose ancora molto vive. A Fumone, la tradizione legata ai festeggiamenti del santo patrono, San Sebastiano, è davvero peculiare e assume, in alcuni momenti, tratti folcloristici. Il giovane martire Sebastiano, vissuto durante le persecuzioni di Diocleziano (284-305), colpevole di aver iniziato molti alla religione cristiana, fu dapprima legato a un tronco e bersagliato da innumerevoli frecce, ma, curato da una donna di nome Irene (poi divenuta santa), tornò a diffondere il cristianesimo nel cuore dell’impero romano. L’imperatore lo condannò di nuovo: fu frustato a morte e gettato nella cloaca. Il suo corpo fu recuperato e sepolto nelle catacombe. La chiesa Santa Maria Annunziata, nel centro storico di Fumone, conserva le reliquie del santo: una parte del braccio e della testa. L’origine del culto di san Sebastiano a Fumone probabilmente risale al IX secolo quando, in occasione di un assedio, i soldati elessero il martire come loro speciale protettore mentre la prima festa religiosa popolare fu celebrata nel 1186 per commemorare la vittoria riportata su Enrico VI figlio del Barbarossa. Tutta la comunità partecipa ai festeggiamenti in onore del patrono e contribu-

occasione la porta della sua casa è ornata da un arco di alloro (e mirto), a simboleggiare pace, gioia e festa. Alla sommità è posto un agnello impagliato e, dopo la prima forchettata offerta al sindaco, verranno distribuite ai presenti le “sagne” con salsa di alice. In entrambe le occasioni, dopo la funzione religiosa del mattino, viene distribuita la “panata” una minestra con un po’ di pane senza companatico, mentre la sera, sempre dopo la funzione religiosa, dal terrazzo della chiesa vengono lanciate alla popolazione che aspetta trepidante al di sotto, delle ciambelle che erano state attaccate a un ramo di ulivo. Dopo la messa del mattino, il festarolo presenzia alla processione religiosa: la statua d’argento opera dell’orafo romano Rusconi e risalente al 1697, viene portata in spalla Siamo andati, dunque, a intervistare Ma- da alcuni uomini per le vie del paese; per la riateresa Faraone, da tutti chiamata Pia, processione il festaiolo deve anche provvedela “festarola” in carica. re alle torce, due grossi ceri offerti al santo e portati dalle torcere, due ragazze vestite allo Salve Pia. Potresti illustrarci quali sono stesso modo. le tappe fondamentali della festa? Perchè hai deciso di “prendere la feSalve a tutti. La festa di san Sebastiano sta”? isce così a mantenere in vita una tradizione secolare. Ogni anno, il 17 gennaio alle ore 14,00, viene designato un “festarolo”, ossia colui che si occuperà dei festeggiamenti per l’anno seguente. La designazione avviene nel palazzo comunale, per estrazione (“al bussolo”), tra coloro che hanno presentato la propria candidatura. Subito dopo l’estrazione ne viene data comunicazione al neo eletto, tramite il messo comunale che, di solito, è accompagnato dalla giunta, da alcuni concittadini e dal rullare di un tamburo. La sera del 20 gennaio il festaiolo uscente consegna a quello entrante “la mazza”, il bastone sormontato dal busto di san Sebastiano che resterà in casa sua per un anno.

si celebra due volte l’anno: il 20 gennaio e nella “seconda feria di Pentecoste”, ovvero il lunedì successivo alla Pentecoste. Secondo l’usanza, il 16 gennaio, il festaiolo uscente riceve in casa sua la cittadinanza: in tale

Erano molti anni che avevo in mente di farlo, però purtroppo dopo la scomparsa di mio marito non è stata più una priorità. Devi sapere che negli anni passati era un onore poter ospitare il busto del santo nella


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propria casa e occuparsi dei festeggiamenti: molte famiglie si contendevano questa possibilità. Purtroppo negli ultimi anni le candidature sono state scarse e da due anni a questa parte nessuno si è proposto.

ni a depositare la mia firma e la mattina della festa, come vuole la tradizione, le cariche comunali, seguite dalla folla festante, hanno portato nella mia casa il busto di San Sebastiano.

E cosa succede in questi casi?

Un momento molto emozionante quindi.

Il Comune si fa carico di questa responsabilità. Quando ho saputo che nemmeno quest’anno nessuno si era presentato ho deciso di farmi avanti. E’ stata una decisione istintiva quindi.

I miei figli mi hanno sostenuta in questa scelta che ho fatto anche per paura che la tradizione morisse. Che cosa è successo dopo la tua candidatura?

Sono andata al Municipio con due testimo-

Si. C’erano molte persone: è stato un momento di grande orgoglio per me; il fatto che nessuno volesse più farlo mi rattristava parecchio. Spero che questa mia decisione rappresenti uno stimolo per le famiglie, e per quelle più giovani in particolare. Non è un impegno gravoso ed è un grande onore ospitare nella propria casa i festeggiamenti del patrono. Credi che in futuro lo farai di nuovo?

Non lo escludo ma preferirei che anche altri

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riscoprissero questa tradizione e, come me, non la vedessero come un onere ma come un gesto di devozione verso il santo. È bello inoltre vedere come la cittadinanza si costituisca in comunità in quei giorni di festa: infatti nei giorni precedenti la festa, tutti i fumonesi si recano in casa del festaiolo e, portando doni in denaro o in natura per contribuire alla realizzazione dei festeggiamenti, ricevono a loro volta delle ciambelle preparate con una ricetta tipica. Insomma la festa di San Sebastiano è una festività che crea coesione, rinsalda i legami sociali e mantiene in vita una tradizione religiosa molto antica di cui il tempo non ha sbiadito i caratteri. Grazie a Mariateresa e al prossimo numero!

La Pro Loco di Fumone ripercorre le tappe del programma estivo di Mariano D’Agostini

Il bilancio di “Fumone estate 2014” supera ogni più rosea aspettativa: è stata considerevole la partecipazione agli eventi, organizzati dalla Pro Loco con il patrocinio del Comune di Fumone, da parte di un pubblico numeroso ed eterogeneo. Merito degli organizzatori che hanno programmato un calendario ricco di eventi e dei partecipanti che, con rinnovata fiducia, hanno garantito il successo di ogni appuntamento. Con la “1° FESTA DELLA TREBBIATURA” si è rievocata la mietitura e la trebbiatura del grano, tradizione molto antica e radicata nella popolazione locale; si è tornati indietro nel tempo, circondati da dame e cavalieri del XVI secolo, durante

la “GIORNATA IN ABITI RINASCIMENTALI”; si è riso a crepapelle nelle due serate di “CABARET” e in quella del “TEATRO DIALETTALE”. Nelle due serate della terza edizione di “CANTINE APERTE” migliaia di persone hanno apprezzato la cucina tipica locale servita nelle vecchie cantine e nelle vie più caratteristiche del borgo, coinvolti in canti e balli da gruppi folk locali, fino a tarda notte. Il 23 Agosto si è svolto il 1° Festival Bandistico fumonese “INCONTRA.. BANDE”, vi hanno partecipato la “Bulli e Pupe Music Band” di Fumone, l’Associazione musicale “A.


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Ponchielli” di Civitavecchia, il corpo musicale “Compatrum” di Montecompatri e l’A.M.C. della città di Ceccano: il paese, per un’intera giornata, ha assistito all’esecuzione delle più belle opere musicali. L’iniziativa che quest’anno ha dato grande soddisfazione al direttivo della Pro Loco è stata “LA PIAZZETTA DELLE STORIE”. L’ultima settimana di agosto, ogni sera, in piazza dell’Olmo, il cantastorie Cataldo Nalli ha coinvolto il numeroso pubblico di bambini e adulti, trascinandolo ogni volta in un mondo favoloso e incantato. Per i tanti turisti e gli amanti dell’artigianato locale, la Pro Loco insieme all’Amministrazione Comunale ha allestito i “MERCATINI PER IL BORGO” nel giorno di ferragosto e nelle domeniche 24 e 31 agosto. Il 12 ottobre è stata organizzata la “FESTA DELL’UVA” nella piazza di S. Maria Annunziata, con pigiatura e distribuzione di pizzette, dolci, acquata e vino a tutti i partecipanti. Programmare un calendario così ricco di eventi è stato molto impegnativo ma il sindaco Franco Potenziani e la presidente della Pro Loco Fumone degli Ernici Flavia Di Fede, si dichiarano molto soddisfatti e orgogliosi dei risultati ottenuti. Gli apprezzamenti maggiori sono arrivati dai turisti, che hanno

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trovato il paese molto affascinante e pieno di vita. È doveroso rivolgere un sentito ringraziamento all’Amministrazione comunale e alle forze dell’ordine, al direttivo della Pro Loco, a tutti i volontari che hanno contribuito alla buona riuscita degli eventi e alla banda “Bulli e Pupe” che ha collaborato all’organizzazione del festival bandistico; si ringraziano anche i proprietari delle cantine del borgo che hanno messo a diposizione i locali di loro proprietà in occasione di alcuni eventi e, infine, tutti i residenti del centro storico che hanno dovuto sopportare qualche disagio per il notevole afflusso di persone. La Pro Loco di Fumone ha approntato un ricco programma anche per le festività natalizie: presso la “sala polivalente Andrea Lisi” della scuola elementare, in località Pozzi, il 27 e il 30 dicembre ci sarà una TOMBOLATA, il 28 dicembre una serata teatrale a cura della compagnia “LE STRENGHE” che metteranno in scena LA GIARA di Pirandello; il 2 e 3 gennaio il cantastorie per adulti e bambini, Cataldo Nalli, racconterà storie e fiabe natalizie; per il 4 gennaio è prevista l’ultima tombolata della stagione natalizia mentre il 6 gennaio, nel centro storico, la befana porterà a tutti i bambini calze piene di dolci.


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