il N° 1 - MARZO 2015
Guitto
Rivista dell’Associazione Culturale Il Guitto
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Il forno di Cecilia
Cimeli Celestiniani
I giochi di una volta
Un americano a Fumone
Il sociologo Feliks Gross studia i “bonagentesi” EDITORIALE UN DOCUMENTO STORICO INEDITO: LA VISITA DI MONS. RUSCONI ALLA COMUNITA’ DI FUMONE di Elisa Potenziani
Ormai parte di una collezione privata*, un documento settecentesco restituisce un interessante spaccato della vita economica di Fumone, piccolo centro dell’allora Provincia di Campagna. La grafia elegante delle pagine iniziali chiarisce l’occasione e la motivazione per cui tale documento venne redatto: Mons. Rusconi, nel novembre 1779, visitava la comunità di Fumone per verificarne lo stato economico ed esporne i risultati alla “Sagra Congregazione”. - Pag. 2
(seconda parte)
di Stefano Petri
«Contadini, rocche e contrade della Ciociaria»: questo è il titolo italiano dello studio su Fumone, piccolo comune rurale dell’Italia centromeridionale, condotto dall’antropologo e sociologo polacco Feliks Gross, il quale ne ha esaminato il processo di accelerata trasformazione negli anni Sessanta del secolo scorso. Feliks Gross, durante la sua permanenza a Fumone, perseguendo lo scopo principale del suo studio ossia l’analisi della trasformazione di una società contadina, riesce a stabilire dei rapporti interpersonali che, per sua stessa ammissione, vanno ben oltre la pura ricerca. Egli rimane piacevolmente sorpreso «della gentilezza, dal senso d’umanità e di amicizia» dei fumonesi disposti a collaborare con lui e questo gli offre la possibilità di condurre i suoi studi in maniera innovativa. L’intermediario fra il sociologo polacco, naturalizzato americano, e diversi «cittadini e contadini di Bonagente», fu l’allora sindaco Eugenio Genesio del Monte. I due si erano conosciuti alla fine degli anni Cinquanta presso la Facoltà di Sociologia dell’Università “La Sapienza” di Roma dove il professor Gross, insegnando nell’ambito del programma di scambi culturali “Fullbright”, aveva interagito con il docente fumonese del Monte, assistente ordinario del professor Vittorio Castellano già preside della facoltà. Grazie alla loro stretta collaborazione, Felix Gross entra nelle case di alcuni fumonesi per documentare in modo approfondito la repentina trasformazione di una piccola comunità rurale, ferma ancora a una struttura sociale pressoché medievale. - Pag. 3
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segue da Pag. 1 - Nel restituire i ritratti dei suoi intervistati, il segue da Pag. 1 - Tra le pagine più interessanti vanno sicuramente annoverate quelle dedicate al debitore Cornelio Corneli che delineano, in realtà, il profilo di un uomo scaltro sebbene senza scrupoli. Cornelio aveva contratto debiti, mai estinti, dal 1770 ed evitava di risarcire la comunità acquistando beni a nome della moglie. Questi e altri misfatti erano stati compiuti dal debitore ma il compilatore afferma di non poterli enumerare tutti perché «troppo prolissi saressimo, e troppo eccedente i confini di una relazione sarebbe la luttuosa storia». Sottoscritta la sentenza e appurato che il debito contratto dal sig. Corneli ammontava a 670,99 scudi, il debitore si sottrasse nuovamente alla legge rifugiandosi in chiesa. Si parla poi del Monte Frumentario. A tal proposito apro una breve parentesi, essenziale per comprendere l’importanza di questa istituzione. I Monti Frumentari (chiamati anche granitici o di soccorso) sorsero alla fine del Quattrocento come istituzione benefica accomunati ai Monti di Pietà – istituiti dai francescani nel XV secolo – per quanto concerne l’ideologia e le finalità ad essi sottesi ovvero sottrarre i contadini, specialmente quelli molto poveri, al prestito usuraio: i Monti Frumentari costituivano infatti un supporto al ciclo agrario perché i contadini potevano partecipare con giornate di lavoro gratuito in occasione della semina e del raccolto e il ricavato era conservato come semenze da distribuire ai contadini che ne erano privi. Quando nei magazzini c’erano grosse eccedenze, una parte era venduta e il denaro così ricavato era utilizzato per la creazione dei Monti Pecuniari al fine di prestare agli agricoltori le somme per le spese del raccolto a un tasso del 5%. Monti Frumentari, Pecuniari e Monti di Pietà, concedendo prestiti a seconda delle effettive necessità, possono essere considerati delle banche dei poveri ante litteram: si diffusero specialmente nelle regioni centrali dello Stato pontificio e del Regno di Napoli, attivi, in particolare, nei centri minori e spesso gestiti da laici o da confraternite; tuttavia la mancanza di garanzie (impossibili da ottenere considerate le pessime condizioni dei beneficiari) influenzarono negativamente il funzionamento dei Monti dato che frequenti erano i casi di insolvenza nelle annate climaticamente sfavorevoli o per altre cause (carestie, malattie epidemiche, bandi-
tismo). Nella prima metà del XIX secolo i Monti Frumentari furono sottoposti a una vasta opera di revisione e di ricostruzione ma tra il 1862 e il 1922 vennero mutati in casse di prestanze agrarie o videro la loro dote devoluta ad asili e ospedali; infine, vennero sottratti alla disciplina legislativa degli istituti di assistenza e di beneficenza e in breve trasformati in casse comunali di credito agrario, sottoposte alla vigilanza della Banca d’Italia, pur perdurando in taluni casi l’amministrazione da parte della locale congregazione di carità. Molte casse comunali di credito agrario vennero in seguito assorbite dalle sezioni di credito agrario di istituti di credito di diritto pubblico. Lo studio di un documento erratico, oggetto della nostra attenzione in questa sede, non può offrirci una visione completa del fenomeno per ciò che concerne il caso specifico di Fumone ma fornisce comunque dati interessanti che di seguito enunciamo brevemente. Nel documento è scritto esplicitamente: «esiste in questa comunità di Fumone il Monte Frumentario». Ogni anno venivano designati due montisti i quali dovevano accertarsi che la distribuzione del grano avvenisse secondo la legge e dovevano inoltre esigere dai debitori l’estinzione del debito. Ma nemmeno i montisti erano onesti poiché chiedevano ai poveri più del dovuto e quando veniva loro portato del grano di ottima qualità esso «certamente non vede il granaro, ma si trasporta in propria casa», sostituito con uno di qualità inferiore; inoltre la distribuzione del grano ai poveri non avveniva secondo i criteri stabiliti ma a piacimento dei montisti. Tale abuso venne, in occasione della visita del 1779, denunciato e punito: furono deposti i montisti in carica e si dispose la nomina di «tre soggetti idonei da eleggersi dal Pubblico Consiglio» a ridosso della festa di san Luca (18 ottobre); ai debitori sarebbero
stati rilasciati bollettini sottoscritti dal Governatore: la contrazione e l’estinzione del debito furono regolarizzate attraverso varie disposizioni. Venne fissata anche la retribuzione per le tre persone designate alla gestione del Monte Frumentario - una rubbia di grano a testa - le quali avrebbero dovuto custodire il grano con cura. Si ricordava, inoltre, che il grano che si dispensava doveva essere dato a quarta rasa e ripreso a quarta colma mentre si proibiva di dare altro grano a chi non avesse restituito la quantità già presa in prestito. Venivano
Contrada “la Mola” - Fumone
distinti i debitori da quelli di «difficilissima esigenza»: tra i primi troviamo, in realtà, anche membri di famiglie benestanti che, per risarcire la comunità, furono costretti alla cessione di immobili di loro proprietà; una nutrita lista, inoltre, contiene i nomi di coloro che, indebitamente, si erano appropriati di terreni demaniali o di privati cittadini. La seconda categoria di debitori era invece formata da cittadini poverissimi o nullatenenti. Due esattori, eletti annualmente, si sarebbero occupati del conto “camerale” e “comunitativo” e di quello “privilegiato”. Inoltre si stabiliva che la documentazione relativa alla comunità doveva essere compilata con attenzione e consegnata con cadenza annuale. Dall’ispezione emergono dunque insolvenze, soprusi e abusi perpetrati, come sempre, da chi avrebbe dovuto garantire la giustizia e, è il caso di dirlo, il pane quotidiano.
* ringrazio i sigg. L. Caponera e M. D’Agostini per avermi proposto e concesso di visionare il documento.
il Guitto - Rivista di cultura fumonese e ciociara Direttore: Elisa Potenziani - Direttore artistico: Francesco Caponera Hanno collaborato a questo numero: Lamberta Caponera, Mariano D’Agostini, Giuseppe Gatta, Bruno Mastromoro, Stefano Petri, Federico Pica, Alessandro Potenziani.
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professor Gross ricorre a pseudonimi in modo da non rendere noti i nomi dei diretti interessati. Tra i primi ritratti spicca quello del ciabattino Celestino Bruno: egli, invalido della prima guerra mondiale, vive all’interno del centro storico di
Fumone insieme alla sua famiglia, in una vecchia casa di pietra; produce il vino da sé e, come altri fumonesi, coltiva un appezzamento di terreno nella vallata. Con lui il sociologo parla di politica interna ed estera, di religione, di libertà: Celestino infatti, rispetto al livello medio di istruzione dell’epoca, sa intrattenere il suo interlocutore con discorsi impegnativi tanto da affascinare, con la sua lungimiranza e la sua arguzia, il professore che lo intervista (e al contempo lo studia) mostrandogli come egli sia profondamente preoccupato e allo stesso tempo interessato più ai principi basilari della vita e dell’organizzazione sociale che non ai bisogni personali. Un altro fumonese con il quale Feliks Gross intrattiene una lunga e amichevole conversazione intorno a un tavolo è Corrado Reale, uno dei pochissimi a possedere un’automobile nonché unico “tassista di Bonagente”. Con lui, dopo aver indagato le sue idee politiche, lo studioso affronta il tema del lavoro e come esso sia cambiato dopo la guerra; problematica, questa, che lo investe da vicino, considerando che egli era emigrato negli Stati Uniti, dove aveva lavorato come manovale nelle ferrovie; al momento dell’intervista, Corrado ha un figlio, il quale, dopo aver prestato servizio per sette anni nella polizia stradale, è entrato a far parte di un’impresa di costruzione dove però non mancano i problemi. In questa intervista il sociologo riesce a far emergere soprattutto il rapporto padre–figlio e le loro diverse opinioni sui momenti storici che hanno vissuto e stanno vivendo, mettendo in luce una costante della società umana in tutte le epoche: il conflitto generazionale. Un’altra figura che colpisce il professore è rappresentata da un artigiano-artista (come lui stesso ama definirsi), non originario di Bonagente ma dell’Alto Adige. Giunto a Fumone intorno al 1920, si era dedicato al restauro della chiesa della Madonna del Perpetuo Soccorso e dell’altare della Madonna del Rosario (chiesa di San Gaugerico). L’artigiano (Raffaele
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Bonanni) maturata l’esperienza di lavoro accanto a suo padre, si era trasferito e aveva cercato non solo di comunicare i valori estetici dei suoi lavori ben radicati in un profondo senso storico, ma soprattutto di far capire quanto fossero importanti “le antichità” che ci circondano dal momento che, come egli stesso afferma, «un paese che distoglie l’ interesse verso le proprie antichità è un paese che non presenta più quei pregi che dovrebbe avere sempre». Ed è proprio rispondendo a una domanda del professore - «perché apprezzare l’antichità?» - che l’artigiano ammette una disarmante verità: è necessario conservare la memoria del passato «perché essa esiste». Non mancano, nella trattazione, nemmeno diversi incontri con i contadini del tempo ma uno, in particolare, desta l’interesse del ricercatore: Agricola. Con lui Feliks Gross ha diversi incontri in momenti differenti, opportunità questa che gli permette di definire meglio l’evoluzione del mondo contadino di Bonagente. Agricola abita presso la contrada soprannominata dell’Acqua Brutta (in riferimento all’acqua di cui la popolazione disponeva prima dell’arrivo dell’acquedotto pubblico) e durante la prima intervista, avvenuta nel 1958, il contadino testimonia quanto fosse dura l’esistenza della sua famiglia composta dalla moglie, dalla nonna e da sette figli: non hanno elettricità né acqua in casa, ma possedendo quattro ettari di terra, un asino, una mucca e delle pecore, la loro risulta comunque una condizione migliore rispetto a quella di tanti altri. Il contadino sostiene che grazie alla terra potrebbe migliorare la sua condizione evitando così di trasferirsi altrove, magari nella vicina Roma. Circa dodici anni dopo, il sociologo americano, parlando nuovamente con Agricola mentre sta lavorando all’acquedotto, può constatare che, grazie all’arrivo dell’elettricità e dell’acqua, la situazione è, in effetti, notevolmente migliorata. Altre persone popolano le pagine dello studio del sociologo e antropologo che ha occasione di conoscerli nel corso delle tre visite a Fumone tra il 1957 e il 1971. Ricordiamo in particolare: Maria Maddalena; la fornarina; Eracle, pecoraio del lago profondo (Canterno); de Stefano, elettricista e proprietario di un bar; Farinata, capo dei contadini; Teresa, la lavandaia e Peppe il condottiero. Tutti questi personaggi apportarono, inconsapevolmente, il loro personale contributo a una ricerca che ancora oggi può offrire spunti di riflessione sui mutamenti della società. Il professor Gross, grazie all’esperienza vissuta nella realizzazione del suo studio, non rileva esclusivamente le trasformazioni che avevano attraversato il paese di Bonagente ma, andando ben oltre gli schemi dettati dalla sociologia, giunge ad affermare che i mutamenti ai quali egli aveva assistito non avrebbero dovuto «esclusivamente essere proiettati nel futuro, ma anche essere ancorati nel passato» affinché, in una sorta di integrazione e continuità culturale, non venisse meno il rispetto per l’eredità civile e morale che ci è stata lasciata.
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Il forno di Cecilia
«Ammassa!», «’Mpana!»… «’Nforna!» di Lamberta Caponera
A Fumone, nei primi del Novecento, in via Covoni Colli, c’era un forno gestito dai coniugi Vincenzo e Vincenza Caponera aiutati dalla loro figliola Cecilia.
Negli anni Trenta il forno venne spostato e quindi ricostruito nel rione “Milano”, all’epoca densamente abitato. A gestirlo c’erano Cecilia e suo marito Anacleto: lei piccolina di statura, sempre con grembiule e corpetto; lui alto e robusto, nei miei ricordi di bambina, un gigante. Il forno veniva acceso tutti i giorni, sia per cuocere il pane che Cecilia vendeva ai suoi clienti, sia per le massaie fumonesi che volevano usufruirne: oltre al pane si cuocevano
teglie di cibo, pizza, dolci e perfino le “ciambelle di san Sebastiano” dei festaroli che annualmente si avvicendavano per “tenere la festa”. Alla fine di ogni cottura, si mettevano nel forno delle ceste di vimini basse e ovali che contenevano, a seconda della stagione, mele, pere, fichi, uva, olive: in questo modo si disidratavano e si mantenevano nel tempo. Un forno particolare, quello costruito da Anacleto, che rendeva il pane molto croccante e friabile grazie al pavimento di tivia (tufo): questa caratteristica faceva sì che il pane fosse apprezzato anche nei paesi limitrofi dai quali, infatti, giungevano a Fumone molti clienti di Cecilia.
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Per tre giorni a settimana, dietro prenotazione, le massaie di Fumone potevano cuocere in questo forno pane e dolci da loro impastati: si facevano tre infornate al giorno e venivano posizionate trenta pagnotte ad ogni cottura; si iniziava alle quattro del mattino per finire nel tardo pomeriggio: era un lavoro duro e massacrante e per questo Cecilia aveva un’aiutante, Marietta “du Cipriano”. La mattina, molto presto, Marietta passava una prima volta a casa delle donne che avevano prenotato, bussava e diceva: «Ammassa!». Dopo un po’ rifaceva il giro e dava un nuovo ordine: «’Mpana!». Nel frattempo Marietta preparava, con Cecilia, il forno: all’ora convenuta arrivavano le massaie con le scife piene di pagnotte da cuocere; esse venivano infornate tutte insieme e per distinguerle vi si incidevano segni diversi a ognuno dei quali corrispondeva un proprietario: ‘no bucio, ‘no taglio, ‘no zippo, la croce... Durante la cottura, l’aria tutt’intorno diventava sempre più profumata e al forno, come per magia, arrivavano i bambini che abitavano nel centro storico di Fumone: per tutti loro Cecilia aveva un pezzetto di pizza, bianca o con il pomodoro. Sono passati tanti anni ma, ancora adesso, ripensare a Cecilia fa tornare in mente quel profumo e quel sapore di pizza legati all’infanzia che, nonostante il tempo trascorso, rimangono intensi e piacevoli.
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I metodi antichi di conservazione degli alimenti:
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Pagine dal Passato
dal sotto grano al sottovuoto, dalla salagione al congelamento
Fumone ex “Antenna” dei Volsci?
di Giuseppe Gatta
Rubrica a cura di Alessandro Potenziani
Per conservazione intendiamo l’insieme delle tecniche che servono a rallentare i processi di alterazione degli alimenti, cercando, per quanto possibile di mantenere inalterate le proprietà organolettiche e nutritive. Oggi conservare gli alimenti è abbastanza semplice grazie alle moderne tecnologie come il frigorifero e il congelatore, introdotti in commercio da poco meno di un secolo. Alcune tecniche, in realtà, come la salatura, la conservazione sott’olio e sotto aceto e l’affumicatura, utilizzate in tempi remoti dai nostri antenati, sono rimaste ancora vive, soprattutto nelle zone di campagna.Tali tecniche permettono di avere a disposizione alcuni tipi di alimenti anche nei periodi in cui non sono più di stagione. A Fumone, come nella maggior parte dei centri ciociari, queste tecniche conservative sono tutt’altro che dimenticate. Partiamo dal metodo conservativo per eccellenza utilizzato soprattutto per la conservazione della carne di maiale: “la salatura” o
“salagione”. La tecnica ha origini antichissime e sembra che già nell’antica Babilonia fosse utilizzata per la conservazione della carne di montone che era stata scelta per essere offerta al dio Marduk. Tutt’oggi la salatura viene utilizzata per la carne di maiale: essa è infatti l’operazione preliminare che permette la buona riuscita di prosciutti e pancette. Il procedimento tradizionale prevede che, dopo la salatura e dopo il condimento a base di odori e aromi, i prodotti vengano appesi in una vecchia cucina con camino a legna per l’affumicatura (o aspersione a secco). Secondo la vox populi il fumo di marzo è il migliore per l’affumicatura di prosciutti e salsicce. Il sale viene utilizzato anche per la conservazione di alcuni formaggi come il “primo sale”, formaggio di pecora che viene consumato a pochi giorni dalla produzione. Per quanto riguarda i formaggi, una tecnica ormai quasi dimenticata, è il “sotto grano”. In che cosa consiste? Dopo l’essiccazione totale ed eventuale affumicatura, i formaggi, tra cui il
pecorino, venivano conservati dentro “i cassono”, cassapanca in legno di grandi dimensioni che conteneva il grano raccolto dopo la mietitura: il grano assorbiva così l’umidità residua ed evitava la formazione di muffe. Questa tecnica è stata nel tempo sostituita dal sottovuoto. Il sott’aceto e il sott’olio, invece, risultano ancora molto utilizzati per la conservazione di verdure e ortaggi: ad esempio, gli asparagi selvatici che si trovano solo da marzo a giugno vengono conservati sott’olio. Dopo una prima bollitura in acqua, aceto rosso e aglio, vengono fatti asciugare e poi conditi con prezzemolo e peperoncino, e conservati in vasetti di vetro con olio extravergine di oliva. Queste tecniche, sebbene ancora conosciute, sono sostituite dal congelamento e dalla surgelazione, fenomeno che interessa la conservazione sia delle verdure che delle carni. Uno sguardo, infine, lo rivolgiamo al metodo del sotto-alcool e del sotto-zucchero, utilizzati soprattutto per alcuni tipi di frutta come ciliegie, pesche, visciole e castagne.
Centro Estetico “Solarium”
Con questa rubrica vogliamo sottoporre all’attenzione dei lettori una serie di scritti su Fumone tratti da pubblicazioni del passato le cui notizie, a volte risultano imprecise e, in qualche caso, sfociano nella leggenda. Esse sono tratte soprattutto da opere di carattere storico che analizzavano gli Stati tra il XVIII e il XIX secolo sotto molteplici aspetti: sono menzionati anche i più piccoli e remoti borghi o castelli. Nella pubblicazione presa in considerazione in questa sede dal titolo La Reggia de Volsci, edita a Napoli all’inizio del secolo XVIII, lo storico di Cori Antonio Ricchi delineava la storia del popolo volsco desumendo erudite nozioni da illustri autori del passato. I Volsci, antico popolo italico, risiedevano in quella parte del Lazio meridionale compresa tra le valli del Liri e del Sacco e la pianura pontina, fino alla costa. Furono, insieme agli Equi, tra i principali nemici della Roma arcaica: i Romani li sconfissero più volte, assoggettandoli definitivamente nel IV secolo a.C. Il Ricchi narra brevemente di un antico castello volsco dal nome Antenna il quale, in una battaglia contro i Romani, si difese egregiamente a tal punto da far desistere questi ultimi dall’intento di conquistarlo ma il tradimento di un servo costrinse la cittadina alla resa, che, dopo essere stata rasa al suolo, divenne colonia romana. Nelle vicinanze del sito dove fu Antenna, si crede sia sorto il castello di Fumone. Il Ricchi afferma che Tito Livio nella sua Storia di Roma sia stato, tra gli scrittori dell’antichità, l’unico a tramandare notizie su Antenna: in effetti, nel primo libro della sua opera, Livio narra di una località omonima, la quale però era ubicata nelle immediate vicinanze della Roma arcaica. Notizie su una “turrigera Antemnae” (turrita Antenna) ci sono tramandate da Virgilio, nell’Eneide (libro VII, 631), in riferimento ad una delle cinque città (Atina, Tivoli, Ardea, Crustumeri e Antenna) nelle quali si forgiavano le armi da usare contro il nemico Enea. Lo storico Tomassetti, nella sua corposa pubblicazione dal titolo La Campagna romana, riferisce che Antemnae fu fondata dai Siculi (antica popolazione italica) – anche se teorie più recenti propendono per una fondazione di origine latina – su una collina alla confluenza del Tevere con l’Aniene (ante amnem). Fu resa colonia romana da Romolo e più volte si ribellò, fino alla totale disfatta in seguito alla sconfitta del lago Regillo. Successivamente il sito fu occupato da una grandiosa villa patrizia devastata da Alarico nel 409. La sua prima localizzazione risale all’inizio dell’Ottocento ad opera degli archeologi
A. Nibby e W. Gell; alla fine dello stesso secolo il sito archeologico fu ampiamente compromesso dalla costruzione del Forte omonimo (Forte Antenne). Tra le numerose rilevanze archeologiche, si annoverano le poderose mura fortificate alte fino a 7 metri. È dunque evidente che l’antica Antemnae, in prossimità di Roma, non ha alcun legame con la zona un tempo dominata dal popolo volsco ma c’è una ragione in grado di spiegare la confusione generata dall’omonimia dei due luoghi. Lo storico Gaetano Moroni, nella seconda metà dell’Ottocento, nel suo celebre e poderoso Dizionario di erudizione storico ecclesiastico, informa che qualche erudito faceva derivare il nome della località di Artena dall’antica Antenna. A questo punto siamo certi che il Ricchi si riferisca ad Artena. Il riferimento a Fumone sottolineerebbe il carattere bellicoso che, in tempi passati, accomunava le due località. Riproponiamo, qui di seguito, il testo del Ricchi relativo all’antica Antenna:
«Dopo il corso d’un breve tratto verso Fiorentino alla volta di Segne ne’ confini d’Ernici, ed Equi giaceva questo Castello Volsco, di cui li Scrittori dell’antichità non ne fanno altra memoria. Da Livio solo si riferisce, che assediato da Romani, fù celebre nella difesa in tal forma, che ne disperavano l’acquisto, e mentre pensavano alla ritirata dell’esercito, la fellonia d’un Servitore ordì, ed esequì un tradimento, che obligò i difensori alla resa. Insuperbitisi i Romani per la conquista lo destrussero affatto, volendo colle sue rovine dar esempio ad altri, o di non esser pertinaci, o pure di non aspettar gl’estremi negl’assalti dell’armi Romane. Del sito dove egli fosse edificato non può dirsi cosa, che meriti fede, avendo l’ingiurie del tempo consumati, e sepolti tutti gl’avanzi, da quali si saria potuto raccogliere il luogo, ove dir si potesse: Qui fù Antenna. Non lungi da questo contorno si vede il Castello di Fummone, che ne’tempi antichi soffrì insulti indicibili, per le guerre assidue, che l’incommodarono, come oggi ancora si può riconoscere dalle rovine di molte sue fabriche. Potè egli per altro resistere agl’assalti, ed à replicati assedi nemici più d’ogn’altra Città, Terra, ò Castello della Campagna di Roma, alloracche munita d’una Fortezza sì formidabile in sua difesa, di cui ora si fan vedere le reliquie, che in realtà fù sempre più creduta inespugnabile in ogni parte della nostra Italia; onde soleva dirsi: Si Fummo fumat, tota Campanea tremet».
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Storia, tradizione e semplicità nella pasticceria nostrana
Ciambelline, pan papato e amaretti: dolci sapori di Ciociaria di Federico Pica
La cucina ciociara vede nella genuinità il suo punto di forza essendo indissolubilmente legata alle antiche tradizioni contadine. Gli ingredienti poveri la fanno da
padrone con la loro eccellente qualità e questo si nota particolarmente nei dolci tipici della zona: essi sono, infatti, privi di ogni sofisticazione a dimostrazione
di come un tempo ci si accontentava di poco e le cose semplici erano in grado di allietare le mense nei giorni di festa. Si tratta, soprattutto, di una pasticceria sec-
ca e prevalentemente casalinga che porta con sé la fragranza del forno e il gusto del grano. Tra le ricette tipiche di Fumone vi sono
le “ciammellette ruzze,” dolci secchi costituiti da un impasto profumato da semi di anice e ricoperti da granelli di zucchero, da gustare inzuppati nel vino. Le ciambelline sono ottime se accostate a un buon vino Cesanese e si possono trovare nei forni in qualsiasi periodo dell’anno. Per molte persone le “ciammellette ruzze” rappresentano ricordi d’infanzia, di nonne che preparavano questi dolci in occasione del Natale, impregnando la casa del buonissimo odore emanato in cottura: un profumo di festa! Caratteristico della zona di Anagni – anche se le sue origini risalirebbero addirittura agli antichi greci – e dolce preferito da papa Bonifacio VIII, è il pan pepato (o pan papato). Questo dolce conserva profumo di santità e d’intrigo, di laicità e di una religiosità inquieta. L’origine del nome ha una doppia interpretazione, non tanto etimologica quanto temporale: all’inizio era infatti destinato agli alti prelati del tempo ma, quando il cacao fu considerato afrodisiaco, il nome del dolce venne privato di ogni riferimento ecclesiale. Si tratta di un dolce invernale, del periodo natalizio in particolare, molto apprezzato in Italia e all’estero sia per la ricchezza dei suoi ingredienti (mandorle, noci, nocciole, uva passita, mosto cotto,
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cioccolata fondente, frutta candita, miele, etc.) che per la forma accattivante che ricorda la tiara papale. Altra prelibata ricetta nostrana è la pizza con farina di mais e uvetta: un piatto d’altri tempi che sa di passato e di buono. Conosciuta a Velletri come “pizza di farinola” – che un tempo veniva cotta sotto le ceneri del camino - in Ciociaria ha preso il nome di “pizza alla padella”; in realtà c’è una sottile differenza tra i due tipi di pizza: la prima richiede la cottura in forno mentre la seconda viene fritta in abbondante olio d’oliva. L’amaretto, di forma ovale e di colore marrone chiaro, a base di mandorle, albumi d’uovo e zucchero è invece il vanto di Guarcino. Inconfondibile per il suo profumo e il sapore delicato e gustoso, viene celebrato ogni anno a fine luglio. La tradizione vuole che la ricetta di questo dolce sia stata donata da un vecchio frate come segno di riconoscenza nei confronti di chi, a Guarcino, gli aveva offerto cibo e riposo dopo un lungo cammino. Particolare rilievo occupa anche la pigna, un dolce del periodo pasquale, simile nella forma al panettone, riccamente speziata con semi di anice, frutta candita e profumi liquorosi. Non troppo lievitato, è forse il dolce che meglio incarna la tradizione ciociara. Gli struffoli di Supino sono un’altra specialità della zona: si tratta di piccole palline di pasta dolce con miele e decorazioni, conosciute nel resto d’Italia anche con il nome di castagnole, che vengono generalmente preparate per il Carnevale. In Ciociaria gli struffoli vengono chiamati anche cecamarini o accecamariti. Il ciambellone ciociaro, alto e soffice, è un altro dolce amatissimo da grandi e piccoli: si tratta di un’autentica squisitezza. Il
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segreto per ottenere il ciambellone alto e soffice è separare gli albumi dai tuorli e montarli a neve e, solo dopo questa operazione, unirli a tutti gli altri ingredienti. Si otterrà così un dolce soffice soffice. In questa selezione di dolci nostrani non possono mancare i tartalicchi, frittelle a base di patate tipiche della Ciociaria. La tradizione vuole che siano inseriti nel menù di Natale ma sono anche offerti durante le sagre paesane o feste come il Carnevale. Per perpetuare la tradizione della crespella, ogni anno a Veroli, viene organizzata una sagra ad essa dedicata. In questa occasione, le “crespellare” impastano farina, acqua e lievito e, da una pasta simile al pane, creano frittelle dalla forma anellare che vengono poi fritte in olio bollente. La crespella è ottima sia a colazione sia durante i pasti al posto del pane. L’elenco sarebbe ancora lunghissimo ma concludiamo, per ora, questa breve introduzione al dolce mondo della Ciociaria ricordando i canasciunetti, dolci tipici del periodo natalizio. Ancora una volta punto di forza di questa ricetta sono gli ingredienti semplici che si potevano facilmente reperire nelle case dei contadini. Si racconta che agli inizi del ‘900, prima delle festività natalizie, le donne girassero per il paese con i grembiuli pieni di noci e castagne, per scambiarle con mandorle, nocciole o miele dei loro vicini e poter
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così prepare i canasciunetti: secondo il prof. G. Giammaria, l’origine di questo dolce si deve far risalire alla tradizione araba. In un registro datato al 1541, scritto da un computista del Papa e utilizzato per l’amministrazione di Supino, si legge
«…cinque decine di copeta la vigilia de natale et vino quanto basta: se consuma fino a XV bocali». Proprio la copeta, dolce natalizio fatto con frutta secca di stagione tenuta insieme dal miele, sarebbe all’origine dei canasciunetti. Infine, meritano almeno una menzione il panfrutto ciociaro – a base di cioccolato fondente, miele di acacia e oli essenziali di agrumi – e la crostata di visciole, un dolce semplice da preparare ma davvero delizioso. E dopo questa gustosissima carrellata, non ci resta che … mettere le “mani in pasta”.
Fonti e riferimenti bibliografici www.lastampa.it www.prodottitipiciciociari.it www.amarettodiguarcino.it www.ricettedellaciociaria.com
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Cimeli Celestiniani Le effigi di san Celestino V nel «Piccolo Santuario» di Fumone di Alessandro Potenziani
La Rocca di Fumone custodisce il luogo in cui si è consumata la prigionia e la morte di papa Celestino V, meta di pellegrinaggio e luogo simbolo del dissidio tra le due anime del potere papale, quella temporale e quella spirituale. La “singolar tenzone” si svolse ad armi impari eppure quegli eventi, al volgere del XIII secolo, avrebbero scatenato una reazione a catena di cui il trasferimento della corte papale ad Avignone costituì l’apice e, forse, l’epilogo. I luoghi celestiniani, a Fumone, sono costituiti dalla cappella a lui dedicata, edificata nel 1710, e dall’attigua cella, la cui importanza fu suggellata da papa Paolo VI che, recandosi in visita a Fumone il primo settembre 1966, la chiamò «piccolo santuario»: in essa si conservano due effigi del santo Celestino V delle quali possiamo ricavare delle informazioni da alcuni documenti storici. Le due opere di cui parleremo tra poco, adornano rispettivamente i due altari presenti nel santuario fumonese, posti l’uno all’interno della cella, l’altro all’interno della cappella; il loro valore iconografico è piuttosto scarso: Giuseppe Marchetti-Longhi affermava che «non esistono a Fumone, in Ciociaria, né altrove, elementi di sicuro raffronto». È comunque possibile che gli autori delle due opere si siano ispirati a rappresentazioni di Celestino V presenti a Bergamo, con le quali in effetti presentano affinità e analogie. Il medaglione presente nella cella (fig. 1) è un bassorilievo in marmo pario, di forma ovale e di piccole dimensioni, alto circa 30 cm, il quale raffigura il santo pontefice a mezzo busto, posto di profilo e coronato della sua tiara; l’iscrizione «S. PETRUS COELESTINUS PP.V» corre lungo il margine perimetrale. L’altare, anch’esso di marmo, su cui poggia il medaglione, secondo una tradizione mai verificata, racchiuderebbe quello in legno – largo poco più di un metro – dove pregava il santo: l’altare marmoreo occupa un intero lato della cella e presenta, incisa sul bordo, l’iscrizione «ALTARE
Medaglione marmoreo (1777), posto sopra l’altare del “Carcere di S. Pietro Celestino”, all’ interno della Rocca di Fumone
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DIVI PETRI COELESTINI». Al centro del paliotto è inciso l’antico stemma nobiliare dei de Longis di Brescia e Bergamo, il leone rampante, che compare inquartato con la torre sormontata da una croce d’oro dell’arme dei Longhi di Fumone. La documentazione attesta che il marchese Pietro Longhi incaricò Giuseppe Wan-Denelsken, certamente una persona di sua fiducia, di occuparsi della realizzazione del medaglione e dell’altare della cella; infatti una ricevuta datata 21 luglio 1776 indica il compenso (5 scudi) per l’esecuzione di una «medaglia di marmo… rappresentante un Papa», di un’«Arma Pontificia» e di uno «zoccoletto» realizzato da Celestino Rainaldi. In una lettera del Wan-Denelsken indirizzata al marchese, datata al 21 settembre dello stesso anno, si parla di un «riattamento di marmo di S. Celestino Papa» non ancora terminato a causa di problemi di salute dell’artista. Probabilmente il medaglione subì un’ulteriore modifica, attestata da una successiva lettera, del 12 gennaio 1777, la quale ci informa del completamento dell’opera che fu impreziosita con l’aggiunta dell’iscrizione, voluta dal marchese e incisa da un certo Castellani, il quale ricevette il compenso di «un zecchino», cifra suggerita dal Wan-Denelsken al marchese, il quale reputò il lavoro migliorato. Di questo medaglione il marchese volle anche un’incisione, di piccole dimensioni, realizzata nello stesso anno del completamento dell’opera, come attesta il cartiglio presente nella stampa, anche se non siamo a conoscenza della sua finalità. L’incisione, realizzata da Filippo Pilaja, artista operante nella seconda metà del Settecento, riproduce esattamente il medaglione ovale in
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Medaglione in terracotta (1783), posto sull’altare della cappella gentilizia dei marchesi Longhi, all’interno della Rocca di Fumone
marmo, inscritto in una cornice più ampia, corredata in basso dal cartiglio che reca l’iscrizione: «S. Petri Coelestini PP.V. Imaginem ex vetusto Anaglypto in Arce Fumonis adservato Petrus Marchio de Longis marmoris, Arcisque Possessor excudi curavit. Anno MDCCLXXVII». Oltre a questa incisione, un’altra opera si ispira al medaglione marmoreo realizzato dal Rainaldi: si tratta di una tela ad olio conservata nella sacrestia della chiesa collegiata SS. Maria Annunziata di Fumone, opera che meriterebbe uno studio più accurato. La seconda opera, di pregevole fattura, collocata sull’altare della cappella (fig. 2), è un quadro di terracotta patinato in bronzo, a bassorilievo, con l’ovale aggettante al centro: raffigura anch’esso il
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mezzo busto di profilo del santo pontefice, con la tiara, le mani congiunte e il volto al cielo. Spesso l’opera viene erroneamente datata al XVII secolo ma la documentazione ne attesta la realizzazione alla fine del secolo successivo. Essa era destinata ad adornare l’elegante altare, sorretto da teste alate di angeli scolpiti in legno e dorate, della nuova cappella. In una lettera del 6 maggio 1783 scritta da Wan-Denelsken al marchese, era inclusa la ricevuta di pagamento per il medaglione, datata due giorni prima e firmata dall’artista Antonio Parasini il quale dichiarava di ricevere dal Wan-Denelsken la somma di 3 zecchini, poco più di 6 scudi, a «pagamento della forma…fatta al Sacello di S. Pietro Celestino». La cura nella realizzazione di queste opere denota una devozione particolare dei marchesi Longhi che, nelle varie epoche, hanno sempre onorato il culto del santo pontefice, in virtù dell’elezione alla porpora cardinalizia di Guglielmo de Longis di Bergamo, amico e devoto di Celestino V.
Fonti e riferimenti bibliografici Hernicus (pseudonimo di G. MarchettiLonghi), Castel Fumone ed il suo “Piccolo Santuario” Celestiniano, a cura dell’Istituto di Storia e di Arte del Lazio Meridionale, Roma 1968 G. Marchetti-Longhi, Fu «Viltade» il «Gran Rifiuto»?, in Archivio della Società Romana di Storia Patria 91(1968), pp. 57-100 La raccolta di stampe Angelo Davoli, catalogo generale a cura di Z. Davoli e C. Panizzi, Bologna 2008 (La biblioteca di Pausania, 3), p. 229
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Pane, vino e segatura
Peppino, il falegname di Fumone di Bruno Mastromoro
Lo sviluppo sociale nei piccoli borghi come Fumone, vissuti in un isolamento endemico, è stato possibile perché al loro interno alcune categorie di persone hanno contribuito a soddisfare, con le loro attività, le necessità di tutte le componenti sociali; falegnami, calzolai, sarti, hanno scritto la storia dell’artigianato nei piccoli centri. A Fumone, l’artigianato a malapena riusciva a garantire la sopravvivenza di chi lo praticava, ma non era un’attività come un’altra, era anzi determinante per la stessa evoluzione sociale. L’artigiano, con il proprio lavoro manuale, produce oggetti di uso comune, quindi produce beni e servizi e, contrariamente all’industria dove esiste un manager ed una serie di collaboratori a più livelli, è il centro costante e il riferimento continuo dell’attività della bottega. Oggi nel nostro paese rimangono solo ricordi di antichi mestieri artigianali che il lavoro nelle industrie non ha spento del tutto e sempre più spesso si guarda ad essi con rinnovato interesse, come fonte di sapere e di cultura. Dopo decenni in cui si sono rinnegate in tutti i modi le origini contadine, dando eccessivo risalto ai beni industriali, si cominciano a riscoprire e valorizzare i beni e i consumi legati alla tradizione. Emblematico per Fumone, il ricordo della figura di un falegname che svolse la sua attività nel borgo per decenni, sino alla fine degli anni Sessanta: le testimonianze raccolte tra le persone che lo hanno conosciuto fanno rivivere momenti particolari di altri tempi. Immediatamente prima degli anni Settanta, all’alba del boom economico, a Fumone, “comunità isolata che viveva una vita tutta sua… e la quotidianità, era così diversa da quella dei grandi centri urbani del resto d’Italia”, viveva e lavorava un falegname, Giuseppe Caponera meglio cono-
sciuto come “Peppino il falegname”, originario di Alatri, che dopo aver sposato una ragazza di Fumone, Rosaria, si trasferì nel borgo dove esercitò il suo mestiere in modo magistrale; la maestria che lo caratterizzava gli dava l’opportunità, seppur in un misero contesto, di gestire la propria vita economica senza grandi problemi. Il laboratorio dove abitualmente lavorava, in Vicolo del Macello, era ubicato sotto il livello della strada; il locale, in realtà era anche la cucina di casa: Peppino ogni giorno montava e smontava un bancone che serviva da piano d’appoggio per svolgere la propria attività e quando doveva effettuare dei lavori particolari, come la rifinitura di mobili, durante i quali si produceva una quantità eccessiva di polvere, avvertiva la moglie affinché non utilizzasse la cucina. Nel suo laboratorio Giuseppe faceva di tutto: produceva arredamenti completi per la casa, soprattutto per le giovani coppie (armadi, comodini, credenze per la cucina, utensili vari), effettuava riparazioni di falegnameria di qualsiasi genere, costruiva infissi; i tempi per la realizzazione dei manufatti non erano paragonabili a quelli attuali: ad esempio, per una comune porta, ci volevano all’incirca due giorni, impiegando il lavoro di due persone. Spesso erano i figli ad affiancare il padre falegname ereditando così i segreti di bottega. Quando doveva realizzare grandi lavori, il locale non era più sufficiente e il laboratorio veniva spostato all’esterno, davanti al locale stesso o vicino al luogo di committenza come avvenne nel 1936 quando costruì i banchi e il portone a sei mandate (ancora in uso) della chiesa Santa Maria Annunziata, nel centro storico di Fumone. Quando lavorava per i privati la ricompensa per i lavori eseguiti spesso avveniva attraverso il baratto: «una pagnot-
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tella di pane, un po’ di farina bianca o rossa, due patate….»; la misera economia del borgo induceva ad obbedire a regole di pura sopravvivenza. L’attrezzatura del falegname era composta da strumenti quali la sega, la raspa, vari scalpelli, pialla e pialletti, morsetti, trapano a mano etc.. Tutti questi attrezzi, dopo la morte di Giuseppe Caponera, furono ereditati dal Maestro Paolino Cialone, nipote del falegname e assiduo frequentatore della sua bottega: infatti i figli dell’artigiano, pur essendo divenuti esperti del mestiere, decisero di non seguire le orme del padre. Purtroppo però, all’inizio del Duemila, una potente scarica elettrica carbonizzò il bancone e tutta l’attrezzatura custodita nel laboratorio del Maestro situato ai piedi del ripetitore RAI. Il falegname esercitava la sua attività anche nei paesi limitrofi: tale scelta gli garantiva una sicura ricompensa in denaro e spesso l’invito alla ricca – per l’occasione – tavola del committente. Qualche volta doveva intervenire con urgenza per prestare la propria opera a domicilio, come accadde una volta quando venne chiamato per costruire una bara per la morte improvvisa di un uomo in località “La Selva”. Era una notte di gennaio e uno spesso manto di neve livellava tutto il territorio: per raggiungere tale località, il falegname fu costretto a percorrere impervi sentieri. Giunto a destinazione in compagnia del figlio, carico dell’attrezzatura necessaria, approntò un piano di lavoro nella casa della famiglia a cui doveva rendere il servizio: il lavoro fu ultimato alle prime luci dell’alba. Per una prestazione del genere, considerando che le tavole venivano messe a disposizione dalla famiglia, oltre al normale (esiguo) pagamento, veniva offerto al falegname un buon bicchiere di vino, rimedio naturale alla fatica e segno d’ospitalità. Il trascorrere inesorabile del tempo e il desiderio di rinnovare il mobilio all’interno di molte abitazioni di Fumone, soprattutto in seguito alla crescita economica dei primi anni Settanta, hanno contribuito alla scomparsa di quasi tutti i manufatti realizzati ma i pochi rimasti riescono a dimostrare pienamente la professionalità e la maestria del loro esecutore.
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I Giochi di una volta di Mariano D’Agostini
Li vediamo ogni giorno, bambini con tablet, console e smartphone intenti a giocare, scaricare, messaggiare. Il mondo dei bambini del passato era più affascinante, più variegato o, forse, soltanto più fantasioso: la voglia di giocare doveva però fare i conti con la mancanza di oggetti e di mezzi fisici per realizzarli. Eppure con poco si sopravviveva alla noia. Giochi come “campana”, “strummolo”, “nascondino”, “cavallina”, “mosca cieca” o “palla prigioniera” non richiedevano altro se non abilità e scaltrezza. I bambini costruivano da soli i propri giochi, con i (pochi) materiali che avevano a diposizione e la fantasia diventava la materia prima. Si giocava prevalentemente
per strada, si “faceva gruppo” e, insieme, si affrontavano le difficoltà. Si sviluppavano precocemente delle attitudini, anche manuali, e prontamente si soccorreva un amico in difficoltà. I moderni giocattoli sfornati dalle industrie sono certo più accattivanti, esteticamente perfetti e desiderabili; la televisione e il computer ci offrono opportunità illimitate di distrazione ma quante volte siamo rimasti imbambolati davanti a uno schermo a guardare qualcosa che in realtà non ci interessava per niente! Nel centro storico di Fumone, un tempo, ci si ritrovava nelle piazzette a fare giochi per i quali non occorreva molto spazio come il “nascondino”, “un, due, tre…stel-
la!”, “campana”, “corda”; oppure le bambine giocavano con le bambole e i maschietti con le figurine o le biglie. Quando invece occorreva più spazio per giochi come “l’acchiapparella”, “la palla prigioniera” o il calcio, ci si ritrovava nelle piazze della Portella e di Porta Romana o al Muraglione. Fuori dal centro, quando serviva molto spazio, i luoghi di ritrovo erano: il piazzale del Volubro, quello della località Pozzi, l’incrocio della Mola e il prato dell’Acquaviva, oppure le aie e i prati vicini alle case. L’estate era la stagione preferita dai bambini: non occorreva darsi un appuntamento perché bastava che si incontrassero due o tre bambini che, nel giro di pochi minuti, arrivavano tutti quelli del vicinato. Si cominciava con giochi più tranquilli come “acqua, fuochino e fuoco”: si tenevano gli occhi chiusi a un bambino e si nascondeva un oggetto; liberato, il bambino iniziava a cercarlo accompagnato dagli altri che lo guidavano strillandogli le parole acqua, fuochino e fuoco man mano che si avvicinava o si allontanava dal nascondiglio nel quale era stato accuratamente deposto l’oggetto da ritrovare. Nel frattempo si erano riuniti così tanti bambini che si potevano fare giochi di squadra come “ruba bandiera”, “palla prigioniera” o “tiro alla fune”. Di solito si iniziava il gioco in modo pacato ma bastava poco a far nascere un litigio che, a volte, degenerava e allora doveva intervenire un adulto a sistemare le cose. Spesso i bambini si attardavano fino
all’ora della cena quando, tra la fame e il timore di un bel rimprovero, ognuno tornava a casa strillando agli, ormai ex, avversari:
“Scardella, scardella!”. In estate, al termine di una giornata di duro lavoro, dopo cena, i genitori si concedeva-
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no un po’ di riposo riunendosi per fare una chiacchierata e bere un bicchiere di vino in compagnia. A volte sceglievano di passare la serata in osteria: lì gli adulti giocavano a carte, a bocce o alla morra e, alla fine, immancabile, c’era “la passatella”. I bambini al seguito, complice il buio, passavano la serata a giocare a nascondino. Tra i ricordi dell’infanzia, ce n’è uno, in particolare, che ogni tanto mi torna in mente. Fino alla metà degli anni Sessanta le strade di campagna erano brecciate e noi, allora bambini, ci spostavamo di poche centinaia di metri dalle nostre case. Io, ogni tanto, insieme a mia madre o in compagnia delle sorelle più grandi, arrivavo alla Mola: lì la strada era asfaltata e il traffico assente; i ragazzi del posto, con mia grande invidia, avevano dei giochi che si costruivano assemblando delle tavole su delle assi snodabili: usavano dei grandi cuscinetti come ruote e ai lati dell’asse anteriore legavano una corda che fungeva da sterzo…erano le “barozzette”. Bambini e ragazzi organizzavano gare di corsa, sulla strada verso Ferentino: partendo dal fontanile, si davano il via con delle spinte e poi saltavano sopra le “barozzette” iniziando così le corsa rumorosissima fino alle prime curve, dov’era stabilito l’arrivo. Tornando alla partenza, si aspettava la gara successiva. Una novità che cambiò – seppur marginalmente – le abitudini dei bambini, fu l’arrivo, nelle case, della televisione e della trasmissione mandata in onda dalla RAI “La TV dei ragazzi”: a quei tempi il televisore non era presente in tutte le case e allora i meno fortunati venivano ospitati dai compagni di gioco che ne possedevano uno. Dalle 17.30 alle 19.00 si guardava il telefilm, ma, una volta finito, tutti tornavano all’aria aperta a giocare ai “banditi e agli indiani”. I telefilm più amati erano: Rin Tin Tin, Lassie, Zorro, Penna di falco, Furia.
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