AMLETO SARTORI scultore
ILPOLIGRAFO
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Amleto Sartori scultore
ilpoligrafo
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© Comune di Padova © Centro Maschere e Strutture Gestuali di Abano Terme Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata © Copyright gennaio 2016 Il Poligrafo casa editrice ISBN 978-88-7115-923-2 Il Poligrafo casa editrice 35121 Padova piazza Eremitani - via Cassan 34 tel. 049 8360887 - fax 049 8360864 e-mail: casaeditrice@poligrafo.it www.poligrafo.it
5 INDICE
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Presentazioni
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Per i Sartori Dario Fo
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Lettera aperta ad Amleto Sartori Gianfranco De Bosio
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Memorie di un figlio d’arte Donato Sartori
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Amleto Sartori e la scultura Virginia Baradel
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La maschera teatrale. Sapere trasmissione continuità Paola Piizzi
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Introduzione alla catalogazione delle opere Sarah Sartori
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OPERE DI AMLETO SARTORI
APPARATI
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Biografia di Amleto Sartori (1915-1962)
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Mostre d’arte di Amleto Sartori
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Attività e riconoscimenti di Amleto Sartori
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Bibliografia
Amleto Sartori scultore (1915 - 1962)
Direzione della mostra
Crediti fotografici
Mirella Cisotto Nalon
volume edito in occasione del centenario della nascita nell’ambito della mostra omonima
Progetto a cura di
Archivio Centro Maschere e Strutture Gestuali Menotti Danesin, Richard Khoury, Mauro Magliani, Mauro Negro, Sarah Sartori
Padova, Galleria Cavour 7 novembre 2015 - 17 gennaio 2016
Donato Sartori Sarah Sartori Paola Piizzi Virginia Baradel Coordinamento
Progetto e realizzazione
Comune di Padova Assessorato alla Cultura Settore Cultura, Turismo, Musei e Biblioteche
Museo Internazionale della Maschera Amleto e Donato Sartori Centro Maschere e Strutture Gestuali con il sostegno di Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo
Marilena Varotto con la collaborazione di Liana Donolato Francesca M. Tedeschi Assistenza amministrativa
Diocesi di Padova, Ufficio Beni culturali Archivio fotografico Foto Giordani (Padova) Settore Cultura, Turismo, Musei e Biblioteche, Gabinetto fotografico Giuliano Ghiraldini, Filippo Bertazzo, Marco Campaci Archivio Piccolo Teatro di Milano Teatro d’Europa Richard Lecoq (Parigi)
Ornella Saglimbeni con la collaborazione di Franco Zanon
Cassa di Risparmio del Veneto Valter Maino
Comunicazione e promozione
Il Poligrafo casa editrice
Marta Bianco Patrizia Cavinato Rocco Roselli
Progetto grafico
Realizzazione e cura editoriale
Il Poligrafo casa editrice Laura Rigon
Cura del volume Paola Piizzi Virginia Baradel Autori dei saggi Virginia Baradel Dario Fo Paola Piizzi Donato Sartori Sarah Sartori
Si ringraziano Davide Banzato Direttore Musei e Biblioteche del Comune di Padova Elisabetta Gastaldi Musei Civici di Padova, Museo d’Arte Medioevale e Moderna Daniela Toffan, Isabella Colpo Università degli Studi di Padova Don Bruno Cogo, Carlo Cavalli Ufficio Diocesano Arte Sacra e Beni Culturali Alessia Vedova, Alessandra Veronese Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo Rossella Spolaore, Michela Bettio Cassa di Risparmio del Veneto Michele Coppola, Laura Feliciotti Intesa Sanpaolo Stefano Baccini Biblioteca Civica “Contessa Ada Dolfin Boldu”, Este (Padova) Valter Rosato, Antonia Zecchinato Giancarlo Vivianetti, Maurizio Ferro Tina Bodini Liceo Artistico “Pietro Selvatico”, Padova e inoltre tutti i collezionisti privati che hanno gentilmente prestato le opere
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Amleto Sartori fu uno scultore di grande rango, ma la sua esuberanza creativa spaziò di fatto in tutti i campi figurativi: dalla pittura alla grafica all’intarsio, dal cesello e sbalzo alla fusione. Non vi fu materia di cui non avesse il possesso artistico: dalla pietra al marmo al legno, dalla terracotta alla ceramica, dalla cartapesta al cuoio e a tutti i metalli, bronzo, ferro, rame, argento e oro. Ma soprattutto divenne il più grande creatore di maschere teatrali, quelle stesse che popolarono l’antico mondo della Commedia dell’Arte e che vennero conosciute e applaudite dall’intera Europa rinascimentale, sino agli epigoni del teatro goldoniano. Fu suo il merito della riscoperta e della reinvenzione della maschera in cuoio che, dall’immediato secondo dopoguerra, popolò i palcoscenici dapprima italiani e quindi internazionali. Amleto morì giovane, nel pieno della sua maturità artistica, tramandando al figlio Donato un patrimonio di conoscenze tecniche e culturali che, secondo le antiche tradizioni della bottega d’arte, viene continuamente rinnovato e perfezionato, anche grazie alle attività del Centro Maschere e Strutture Gestuali, fondato nel 1979 da Donato Sartori, dallo scenografo Paolo Trombetta e dall’architetto Paola Piizzi. L’Amministrazione comunale ha intesto celebrare un illustre ed eclettico artista padovano del Novecento, sostenendo la realizzazione di una mostra, di una guida breve e di questo volume, edito in occasione del centenario della nascita. Matteo Cavatton Assessore alla Cultura del Comune di Padova
Massimo Bitonci Sindaco di Padova
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Amleto Sartori è universalmente noto per la creazione di maschere teatrali richieste e create appositamente per i più grandi interpreti della Commedia dell’Arte nel Novecento; è invece meno nota al pubblico la sua straordinaria attività di scultore, decoratore plastico e grafico, che condusse dal 1948 in poi. Ricostruirne la vicenda artistica tra gli anni 1935 e 1962 è l’obiettivo di questo volume a lui dedicato e vòlto a riscoprire un vero protagonista della storia della scultura a Padova. Proprio nella nostra città, infatti, l’artista ha trovato la massima ispirazione nelle opere di Donatello, che fu sempre il suo nume tutelare tanto da dare il suo nome al figlio. Il naturalismo classico di matrice quattro-cinquecentesca è riletto e interpretato da Sartori in chiave espressiva per connotare i suoi personaggi di una tensione emotiva che fa vibrare la materia, sia essa bronzo, legno o marmo. Il volume offre l’opportunità di riscoprire un artista e il clima in cui operava in due fasi assai cruciali: il periodo tra le due guerre e la rinascita del dopoguerra, periodi che hanno determinato la natura delle opere di Sartori per la forte drammatizzazione storica che si riflette nel suo fare artistico. I vivaci anni del dopoguerra lo vedono in prima linea per il rinnovamento delle arti a Padova: partecipa alle mostre della Congrega del Coccodrillo e alla rinata Biennale d’Arte Triveneta. Tuttavia egli conservò sempre l’anima di un solitario, di un poeta quale egli fu intensamente, riottoso ad allinearsi agli ideali dei manifesti programmatici di correnti artistiche o partitiche, pur condividendone in parte i valori. Nel secondo dopoguerra trovò un modo molto personale per esprimere la sua creatività attraverso il tema della maschera teatrale, approdo naturale della ricerca portata avanti negli anni nell’ambito del ritratto, che dall’iniziale naturalismo si evolve verso una accentuazione espressiva quasi deformante nei tratti. L’impegno universitario, nell’insegnamento di Storia dell’arte e modellazione di maschere teatrali, gli apre le porte della fama internazionale nel settore della rinata Commedia dell’Arte. Ed è soprattutto quest’ultima esperienza artistica che viene raccolta e portata avanti dal figlio Donato, da Paola Piizzi e, negli ultimi anni, dalla nipote Sarah, trovando piena attuazione nel Centro Maschere e Strutture Gestuali, con eventi culturali, attività di studio, ricerca e conservazione del poliedrico patrimonio di creatività artistica nato con Amleto, custodito e rigenerato in forme nuove dalle generazioni successive. Mirella Cisotto Nalon Capo Settore Cultura, Turismo, Musei e Biblioteche del Comune di Padova
AMLETO SARTORI SCULTORE
Dario Fo con le maschere dei Sartori
PER I SARTORI
Dario Fo
C’è una mostra in questi giorni a Padova dedicata ad Amleto Sartori, scultore, poeta e teatrante. In verità, parlando dei Sartori, bisognerebbe sempre ricordare anche il figlio dello scultore, Donato, che ha ricalcato le orme del padre per tutta la sua vita, facendo conoscere le maschere e la “maniera” di servirsene in tutto il mondo, dall’Italia a tutto il resto dell’Europa, la Cina, le Americhe, l’India e l’Oriente intero. Amleto, strana concomitanza di un nome, iniziò fin da ragazzino a studiare le tecniche del disegnare e dipingere le figure, fino alla scultura praticata incidendo nel legno ritratti a tutto tondo e bassorilievi. Il suo maestro era un italiano, tornato da poco da Parigi, dove s’era fatto una fama d’istrione nel cavare i pieni dai tronchi e trarne immagini vive. Il piccolo Amleto frequentava la scuola di giorno e scolpiva di notte, condotto dal maestro intagliatore e a sua volta si fece notare per il mestiere che aveva acquisito nel forgiare immagini stupefacenti in quella sua tenera età. Ma Amleto non si fermò solo alla scultura, si mostrava profondamente interessato ad ogni forma d’arte, a partire dai poemi rappresentati sul palcoscenico. Uno dei suoi incontri determinanti alla scoperta del linguaggio fu senz’altro Angelo Beolco detto il Ruzante, di certo il maggior uomo di teatro del Rinascimento italiano. Da quel poeta e attore imparò la sintesi e l’essenziale, nonché la potenza del rappresentare storie reali, raccontate con la follia del magico. Da quell’imprevedibile genio imparò ad esprimersi dentro il paradosso e scoprì che cavare marmo a pezzi da una pietra quadrata non è sufficiente a dar vita ad un corpo tratto da un blocco di pietra. Come su un palcoscenico costumi e prospettive determinano il tempo e la realtà, in una pietra scavata o in un bassorilievo solo i ritmi compositivi e la plasticità riescono a proiettare il senso dell’impossibile. Più tardi si cimentò nel creare maschere, a cominciare da quelle in cartapesta, per finire a quelle realizzate battendo il cuoio e poi colorate. Fra i primi suoi incontri nel teatro ci fu quello con Marcello Moretti che stava per mettere in scena un’opera di Goldoni, Arlecchino servitore di due padroni al Piccolo Teatro di Milano. All’attore mostrò alcuni calchi di volti da clown in cuoio e subito esplose un dibattito che trascese in una rissa, ma di lì a qualche ora Marcello ed Amleto divennero amici per la pelle. Purtroppo non esistevano originali delle maschere della Commedia dell’Arte e quindi, attraverso qualche ritratto, bisognava reinventare l’originale. Insieme i
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due amici riuscirono a riprodurre maschere stupende che sembravano nate modellando volti umani. Mostrarono il frutto del loro lavoro a Giorgio Strehler, regista geniale, creatore con Paolo Grassi dei primi teatri stabili. E anche questo incontro si tradusse in una lite da teatranti feroci. Alla stessa maniera l’unico col quale ci fu un’immediata sintonia d’intenti fu Jacques Lecoq, il maestro di mimo venuto dalla Francia. Fu in quell’aria che nacque Arlecchino servitore di due padroni, l’opera credo più conosciuta e ammirata di tutto il teatro del XX secolo. Un’opera che ha visto migliaia di allestimenti nei quali esplose la personalità di un discepolo di Moretti, Ferruccio Soleri. Di lì a qualche anno ogni regista allestitore di spettacoli da Parigi, Berlino o New York, sia della tradizione greca sia moderna, si rivolse ad Amleto Sartori perché producesse maschere adatte alle diverse forme di rappresentazione. Ma ogni volta, presentando le sue numerose varianti di copertura dei volti d’attore ripeteva: Attenti che la maschera non è qualcosa che si possa calzare e togliere come ti pare. Non abusate mai di questo inganno. Traetene l’insegnamento fondamentale che vi offre, cioè che la maschera vi impone di dar vita alle espressioni più delicate e profonde: la tristezza e la rabbia, la gioia e lo sghignazzo. Ma non è con il sostituire gestualità nuova al blocco del viso che risolverete le difficoltà del mascherato, ma come ti suggerisce l’istinto, il muoversi con la maschera è identico al danzare da mimo, dove col minimo dei movimenti devi realizzare il massimo dello stupore.
Ad ogni modo dev’essere chiaro che Amleto Sartori non smise mai di scolpire, modellare creta, formare in gesso per poi fondere in bronzo, ed è riuscito con una caparbietà straordinaria a far rivivere nelle sue opere scultori della potenza di Jacopo della Quercia, Donatello, Nicola Pisano e perfino le opere ultime di Michelangelo. Purtroppo noi in Italia siamo notoriamente dei disinformati e vittime di ogni moda, spesso la più banale: camminiamo presso grandi uomini e se ci va bene, al massimo, ci accorgiamo solo dei loro piedi.
AMLETO SARTORI E LA SCULTURA
Virginia Baradel
Nel ghigno delle maschere più oscene urlano talora le passioni più dolorose Luigi Chiarelli, La maschera e il volto 1
La celebrità, la fama, gli onori artistici e teatrali e, più estesamente, culturali che Amleto Sartori conquistò con l’invenzione della maschera teatrale moderna, hanno in qualche misura adombrato la precedente e contemporanea attività di artista a vasto raggio. Eccellente scultore, intagliatore e modellatore, disegnatore e grafico, dotato in pari grado di inventiva e di abilità, Sartori poteva contare su un’energia costruttiva incessante che si applicava con versatile estro in ogni forma di creazione plastica e grafica. Nell’ambiente artistico padovano degli anni Trenta egli era l’artista più giovane e, francamente, il più dotato di talento innato. Gli altri artisti presenti sulla scena patavina erano almeno di un decennio più vecchi. L’unico che poteva contare su una verve artistica simile, istintiva e pugnace, vieppiù indirizzata alla grafica, era Tono Zancanaro. Gli altri erano pittori e scultori di valore che avevano coltivato con impegno vocazione e mestiere ma, per certi aspetti, più duttili verso lo stile dominante in quella difficile temperie politica e culturale. Stiamo parlando, in particolare, dei pittori Dino Lazzaro, Antonio Morato e Giorgio Perissinotto (Peri), ma anche di Fulvio Pendini, Giovanni Dandolo, Tino Rosa.2 Tra gli scultori il più tradizionale e più osannato era Servilio Rizzato, che aveva volto il naturalismo ottocentesco in chiave realista e che mandò all’Esposizione internazionale di Parigi del 1937, la stessa dove il grande mosaico di Sironi l’Italia Corporativa conviveva con Guernica di Picasso, il busto del generale Badoglio. Della stessa generazione di Rizzato era Paolo Boldrin, scultore di vaglia, fascista militante, segretario del sindacato degli artisti. Del 1895 era Luigi Strazzabosco che si era andato affermando come protagonista di un novecentismo rigoroso, essenziale ma animato da una vitale tensione narrativa. Amleto Sartori era di un’altra specie, dotato di una diversa inquietudine: la sua biografia lo dimostra ampiamente. L’indocile tempra affamata di cultura e di libertà, subì tutti i gradi di drammaticità della povertà e della guerra ed egli sempre reagì rilanciando l’indomito proposito di esprimersi attraverso l’arte, di dare forma a potenti, insopprimibili, sintesi espressive. La consapevolezza di questo desiderio combattente si mostra intatta e diretta nelle poesie che rappresentano l’altra faccia della genialità di Amleto Sartori. In ogni manifestazione della sua arte si percepisce un autentico nucleo di ricerca, non di puro talento, o abilità, o mestiere. Ogni opera è come se partisse dalla mente, avesse un incipit sorgivo di tipo intellettuale e poetico, riguardasse il pensiero e la volontà prima che l’abilità. Per questa ragione acquista un altro peso anche la straordinaria destrezza esecu-
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tiva che gli consentiva di lavorare direttamente sul pezzo e che appare ben evidente nelle sculture in legno e in terracotta, nei disegni e nelle opere grafiche. La seconda metà degli anni Venti, ancora segnati dalla tragedia della Grande Guerra, furono anni dedicati a una formazione tumultuosa che si attuò più nel campo del lavoro che in quello della scuola. Sartori nutriva una profonda insofferenza per l’istituzione scolastica che percepiva come una forma, a volte spietata e ipocrita, di coercizione. Nell’accanito apprendistato come intagliatore si scaricava la sua irrequietezza e si formava la sua mano. Cominciò presto, prima dei dieci anni, ammirato dalla tecnica stupefacente di un intagliatore che aveva lavorato a Parigi, in grado di forgiare rapidamente nel legno meraviglie di decori rococò, animali e forme grottesche. Meno magico e più duro fu l’apprendistato tecnico presso la bottega di un altro intagliatore in ghetto, dove il giovane apprese a intagliare mobili e decori in stile, mentre portava avanti faticosamente la sua prima formazione sino a raggiungere il titolo di Maestro d’Arte all’Istituto d’arte di Padova. Il talento e l’intelligenza di questo giovane non sfuggirono all’antiquario e gallerista Alfredo Bordin.3 Gli ornati in stile, le grottesche, i mascheroni erano di tale energia e bellezza che Bordin comprese le straordinarie qualità di Amleto e ne incoraggiò lo sviluppo offrendogli la possibilità di dare libero corso alla sua fantasia. L’esito stupefacente di questo incontro è l’arredo della casa realizzata per Bordin, ora in deposito ai Musei Civici di Padova. L’antiquario incoraggiò il lato espressionista, l’imagerie gotica e simbolista che egli stesso nutriva sin dallo pseudonimo che si era dato TA-HO-MA e con il quale firmava racconti venati di una cupa sintesi di pessimismo, fatalismo e compassione per i derelitti.4 I mostri che abitavano nella mente di Amleto sin dalla primissima infanzia trascorsa in piena guerra, poi riapparsi nella severità della scuola, uscivano allo scoperto: l’apprezzamento di Bordin e i riscontri iconografici d’ambito esotico e simbolista, legittimavano la sua veemenza creativa. La stagione degli studi veri, della formazione culturale e letteraria, l’incantamento per l’arte ebbe inizio con Donatello a Padova e con la visita ai musei romani nel corso di un soggiorno cagionato dal miraggio di trovare lavoro presso un conoscente. Immaginiamo la brama di conoscenza, la contemplazione assorta, gli occhi avidi di dettagli che si posano sull’arte ellenistica ai Musei Capitolini non meno che sui capolavori di Michelangelo. Dopo il conseguimento del diploma di Maestro d’Arte a Padova s’iscrisse all’Accademia di Belle Arti di Venezia che frequentò grazie a una borsa di studio.5 La interruppe dopo il primo anno per trasferirsi in quella di Firenze dove rimase poco meno di due anni e poi tornò a Venezia per diplomarsi. Il periodo che trascorse a Firenze fu determinante per l’approfondimento della scultura quattro-cinquecentesca e dello stesso Donatello, tale da consentirgli di comprendere tutti i gradi del naturalismo. Sartori comparve sulla scena artistica padovana ancora durante gli studi d’Accademia sfoderando doti artistiche e vitalità intellettuale. Nessuno andava leggendo sistematicamente i classici russi, tedeschi e inglesi seguendo “il criterio del tagliatore di piano” come faceva lui togliendo tempo a quel poco che lasciava al sonno mentre studiava e lavorava. L’esordio sulla ribalta espositiva patavina avvenne alla Mostra dopolavorista di pittura e scultura del gennaio 1935,6 dove espose un Nazareno in gesso e un San Giovanni decollato in legno, due Studi a disegno e una xilografia Autoritratto.
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Arredi realizzati per il soggiorno di Alfredo Bordin, 1930-1932
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Non passò inosservato e in quello stesso anno partecipò alla Mostra Sindacale provinciale e alla Sindacale di Abano Terme. A Padova espose un Disegno a penna e una Testa in terracotta, ad Abano L’Atleta e una non meglio specificata Ceramica. Nella primavera del 1936 presentò alla mostra annuale di Ca’ Pesaro L’Eremita, oltre a lui era presente solamente Servilio Rizzato, riconoscimento di non poco conto.7 Tra il 1936 e il 1938 vi fu una cesura riconducibile alla frequentazione dell’Accademia di Firenze. Nel 1938 lo ritroviamo a Venezia alla Ca’ Pesaro di quell’anno con tre opere: Mascherone, Mendicanti e Ritratto della fidanzata. A quella stessa mostra partecipò ancora Servilio Rizzato e comparve il giovane Enrico Pernigotto. Il 1939 fu l’anno in cui tutte le carte vennero scoperte: Sartori vinse il concorso per l’insegnamento della scultura in pietra all’Istituto d’Arte Pietro Selvatico, si sposò con Miranda Ancona ed ebbe il primo figlio Donato. Ma fu anche l’anno della chiamata alle armi e dell’immancabile insubordinazione che gli costò l’espulsione dal corso per sottufficiali di Bassano e pesò su di lui come un’ombra tanto che, pur avendo ottimi titoli di merito, non compare nel catalogo della mostra plenaria del 1939, la Mostra Triveneta più allineata e ostentatamente di regime.8 Nel 1940 fu richiamato come soldato semplice e, a causa di una peritonite che lo condusse in fin di vita, non fu mandato in guerra. Ritroviamo il suo nome nel gruppo degli artisti padovani cui vennero commissionate, per accordo sindacale, delle opere minori nel cantiere del Palazzo dell’Università di Carlo Anti e Gio Ponti.9 Il rettore e l’architetto demiurgo del Liviano e del nuovo Bo, accolsero il dictat del sindacato con poco entusiasmo avendo progettato il rinnovamento della sede centrale dell’Università come un museo di arte contemporanea coinvolgendo i massimi artisti del Novecento italiano: Campigli, Sironi, Oppi, Cadorin, Arturo Martini per il Liviano e Severini, Funi, Ferrazzi, Saetti, De Pisis, Mascherini, Casarini, Fornasetti per il piano del rettorato e le sale di laurea. Il gruppo degli artisti padovani capeggiati da Paolo Boldrin era formato da Paolo De Poli, Giorgio Perissinotto, Antonio Morato, Tono Zancanaro, Toni Fasan, Fulvio Pendini e Giovanni Dandolo. Ad essi vennero richiesti: la stele con Atena vittoriosa per l’atrio degli eroi (Boldrin), gli affreschi per le aule studio di studenti e studentesse (Perissinotto e Morato), i ritratti a grandezza naturale in smalto del podestà Giovanni Rusca e del vescovo Giordano (Paolo De Poli), le lunette con le sedi fuori Padova dell’Università patavina e altre decorazioni in alternativa a Fornasetti per la galleria del rettorato (Pendini), i ritratti di scienziati-ingegneri (Tino Rosa), quattro tele con i simboli delle facoltà in versione di natura morta (Fasan), disegni “a macchia” su antichi istituti universitari (Zancanaro), gli scuri per la sala di laurea di Giurisprudenza su disegno di Severini (Dandolo). Dandolo, che, insieme a Pendini, eseguì per intero l’affresco della Scala del Sapere su cartoni di Gio Ponti, affrescò anche la lunetta sovrapporta per l’aula di Medicina. Ad Amleto Sartori10 venne richiesto il bassorilievo del sovrapporta della “Porta della morte” o della “Pietà” (figg. 30-31), così detta perché da essa uscivano i feretri dei professori dopo la cerimonia di cordoglio accademico. In un primo momento l’incarico era stato assegnato a Enrico Pernigotto, ma il suo bozzetto non convinse i committenti, diversamente da quello successivo di Sartori. La potente energia espressiva che si sprigiona dal modellato assai contrastato, era senza dubbio idonea al tema e alla sua collocazione in limine mortis, anche se appariva assai distante dalle scelte estetiche di Anti e soprattutto del “deus ex machina” (come lo definisce nelle lettere lo stesso Anti)
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Gio Ponti. Abbiamo tuttavia motivo di ritenere che Anti avesse un occhio di riguardo per Sartori e fosse disposto anche a scontrarsi con l’architetto superbo e autoritario. La stilizzazione deco, l’eleganza razionalista di Ponti, che si rifletteva soprattutto nella pittura di Campigli, di certo non poteva amare una plastica potente, carica di tensioni e di emozioni, come quella di Sartori. Tanto meno ne poteva tollerare la personalità per nulla docile e remissiva, ma la decorazione della Porta della Pietà passò indenne e Anti specificò che l’aveva assegnata a Sartori «dopo aver visto i rilievi del circolo rionale» (fig. 94).11 All’inizio del 1942, in vista della grande inaugurazione del complesso prevista per maggio, scattò l’urgenza di definire tutti gli arredi dell’Aula Magna tra cui i due busti del re e del duce che andavano disposti insieme a un Crocifisso. Anti pensò a Sartori e chiese a Ponti di scrivere direttamente allo scultore presso l’Istituto d’Arte Pietro Selvatico per spiegargli come avrebbero dovuto essere, a suo modo di vedere. Il tempo stringeva: le tre sculture dovevano essere realizzate in meno di due mesi. Il 18 marzo12 Ponti non aveva ancora scritto a Sartori e Anti gli inviò una missiva in cui specificava: Aula Magna tieni presente: 1°- l’opportunità che Re e Duce non sieno proprio ai piedi o stretti ai lati della croce perché in tal caso c’è subito chi dice che sono i ladroni ai lati del Cristo (incredibile ma vero, mi è già capitato); 2°- la convenienza di elementi dorati nelle tre figure per legare con l’insieme della decorazione. Ho già parlato con Sartori, che è felice. Appena sei pronto prendi accordi diretti con lui.
Su quell’aggettivo “felice” va fatta qualche riflessione. Anti, ben conoscendo il carattere di Ponti e la necessità di appianare ogni possibile scoglio per il buon fine dei lavori, era solito usare toni molto concilianti. Nel caso di Sartori il Rettore potrà aver caricato sull’aggettivo visti i tempi molto stretti e la scarsa simpatia di Ponti per lo scultore padovano. Indubbiamente si trattava di un incarico molto prestigioso e ben remunerato nella prestigiosa università patavina in un contesto importante come l’inaugurazione dell’Università-Museo, esempio eccellente in Italia dell’arte sociale propugnata da Bottai e resa praticabile con la legge del 2% per le opere d’arte negli edifici pubblici. Si dovrà considerare inoltre che Anti contava sull’abilità di Sartori, sulla grande padronanza del mestiere, senza tuttavia fare i conti con lo specifico dell’incarico che non doveva essere esattamente nelle sue corde. Finì che Sartori, più o meno consapevolmente, sminuì il suo lavoro con qualche deficit di perizia tecnica e stilistica e non lo rese idoneo alle richieste celebrative della committenza. Tant’è che i due busti non ebbero l’approvazione di Ponti. Nella lettera del 26 maggio 1942 elencando tutti i lavori fatti e quelli ancora in sospeso, in un passaggio sull’Aula Magna, Ponti scrive: Rifiuta senz’altro e con manifesto dispregio i due bustacci di Sartori, vera presa in giro dei personaggi e del committente; né vale il tempo perché ce ne voleva lo stesso a fare una cosa giusta come a fare quelle due ignobili cose, sporcate di porporina. Hanno offeso l’Università. Sii implacabile con questi cialtroni.13
Che fosse, più o meno intenzionalmente, un atto di manifesto antifascismo non è dato sapere, sta di fatto che Sartori mancò l’incarico e i suoi proventi. La Pietà venne altresì assai apprezzata e la rivista «Le Tre Venezie»14 gli dedicò il fronte della copertina del numero che ospitava l’articolo di Carlo Anti sulla decorazione del Liviano e del Bo. L’articolo, corredato di poche immagini, illustra i la-
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vori e ne vanta l’esito, dunque è evidente che lo stesso Anti volle che fosse proprio l’opera di Sartori a rappresentare in copertina l’impresa decorativa. Tra la fine degli anni Trenta e il 1942 Sartori realizzò molti lavori in legno soprattutto per l’antiquario Bordin che gli aveva anche commissionato il monumentale portale con il Sogno di Prisca a Chioggia. Nel 1943 terminò il servizio come militare semplice e riprese l’insegnamento. All’inizio di quell’anno, per molti versi cruciale, ebbe luogo la seconda mostra d’arte contemporanea nella sede padovana della casa editrice Le Tre Venezie in contra’ del Santo 53. Questa fu una realtà importante nel campo dell’editoria e dell’arte, introdusse e pubblicò le traduzioni di testi sulle avanguardie storiche, fece conoscere a Padova artisti e tendenze dell’arte contemporanea e fornì agli artisti locali materia di superamento dell’ingessato novecentismo di maniera in voga dalla fine degli anni Trenta. La sede di Padova aprì nel giugno 1941, mentre la direzione fu mantenuta a Venezia. La versione galleria-libreria venne denominata L’Attico e, nel corso degli anni Quaranta, prima dell’apertura della galleria La Chiocciola, divenne un punto di riferimento per i migliori artisti padovani. La prima mostra ebbe luogo nell’autunno del 1942 e fu dedicata al “Paesaggio”. La seconda, tra dicembre e gennaio 1943, fu dedicata al “Ritratto”. Insieme ad artisti italiani di grande fama, come Sironi, Casorati, Rosai, Carena, Guidi, Saetti, Afro, De Pisis, c’erano i veneziani Guido Cadorin, Astolfo De Maria, Marco Novati, Semeghini, Vellani Marchi, Seibezzi, tra gli scultori Mascherini, Conte e Romanelli, e i padovani Paolo Boldrin, Luigi Strazzabosco e Amleto Sartori con il Ritratto del professor G. Sartori.15 Ma la vicenda di Amleto subisce in questo tratto di biografia uno iato tremendo. Essendo Miranda Ancona di religione ebraica egli aveva già subito pesanti vessazioni e quando, con la Repubblica di Salò, entrò nella Resistenza venne arrestato e torturato dalla banda Carità a palazzo Giusti. Ciò che subì personalmente e ciò che vide lo segnò a tal punto che, non appena finita la guerra, sentì il bisogno di rientrare in se stesso, di ritagliarsi un periodo di isolamento e meditazione e si ritirò per qualche tempo nell’eremo del monte Rua. Nel 1946, tornato all’insegnamento e ricomposta la famiglia, partecipò alla prima mostra postbellica degli artisti padovani alla galleria L’Attico,16 riprendendo là da dove la sua biografia espositiva si era interrotta. Il 1947 vide la nascita del gruppo Il Bastione17 presso la galleria Bordin. Il gruppo era formato da Fasan, Grossato, Pendini, Pinton, Rosa e Sartori. Nel manifesto programmatico viene detto esplicitamente che […] si sono riuniti in gruppo quattro pittori, un orafo e uno scultore, per provocare l’unione di forze giovani nell’arte padovana [al fine] di dare vita a un clima artistico fecondo e culturalmente favorevole alla nascita di una nuova poetica che sia permeata di socialità. L’entusiasmo e la serietà di questo esperimento si riscontrano nel consistente numero di opere che ciascun artista espose con manifesti intenti di rinnovamento linguistico. Anche Bordin scommise sulla rinascita sperimentale e pubblicò un minuscolo catalogo in carta di sughero. Sartori espose due ritratti in bronzo: Ritratto di Memo e Ritratto dell’attore Giorda, una cera Donna malinconica (riprodotto in catalogo), un Tobiolo in bronzo (fig. 24), Cavallo (fig. 15) e Nudino pure in bronzo, una terra San Pietro corre al sepolcro e infine due bronzi dallo stesso titolo
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Donna allo specchio, 1948, bronzo, cm 25 ∑ 15 ∑ 10 Nudino disteso, 1948, bronzo, cm 35 ∑ 15 ∑ 7
OPERE DI AMLETO SARTORI
Ritratti 1. Ritratto di bambina, 1947, tuttotondo cera, cm 16 ∑ 25 ∑ 18, collezione privata
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2. Ritratto di Signora, 1945, tuttotondo cera, cm 23 ∑ 32 ∑ 20, collezione privata
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3. Ritratto di uomo malato, 1938, tuttotondo in marmo di Carrara, cm 40 ∑ 25 ∑ 20, collezione privata
02.sartori.catalogo 71-164.qxp:Layout 1
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72. Arlecchino, particolare della statua dei Giardini del Kursaal di Abano Terme (PD), 1961, bronzo patinato, cm 32 ∑ 22 ∑ 22, collezione privata
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02.sartori.catalogo 71-164.qxp:Layout 1
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73. Bozzetto della statua di Arlecchino dei Giardini del Kursaal di Abano Terme (PD), 1961, bronzo patinato, cm 90 ∑ 37 ∑ 42, collezione privata
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74. Personaggi della Commedia dell’Arte, 1951, formelle, bassorilievo in terracotta, cm 40 ∑ 178 ∑ 5, Biblioteca Civica “Contessa Ada Dolfini Boldù”, Comune di Este (PD) 75 a-b-c. Personaggi della Commedia dell’Arte, formelle, bassorilievo in terracotta, 40 ∑ 15 ∑ 5, collezione privata
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76. Pulcinella, 1955, formella, bassorilievo in terracotta, cm 32,5 ∑ 24 ∑ 5, collezione privata 77. Pulcinella e Brighella, 1954, formella, bassorilievo in terracotta, cm 30 ∑ 24,5 ∑ 5, Liceo artistico “Pietro Selvatico”, Padova
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78. Arlecchino, 1951, tarsia policroma su legno, cm 81 ∑ 36, collezione privata
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79. Zani-Arlecchino, 1951, tarsia policroma su legno, cm 45 ∑ 53 ∑ 4, collezione privata 80. Dottore, 1951, tarsia policroma su legno, cm 45 ∑ 52 ∑ 4, collezione privata
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81. Arlecchino gatto, maschera di Marcello Moretti per Arlecchino servitore di due padroni di Carlo Goldoni, regia di Giorgio Strehler, Piccolo Teatro di Milano, 1952, cuoio sbalzato e patinato, cm 15 ∑ 15 ∑ 10
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82. L’amante militare di Carlo Goldoni regia di Giorgio Strehler, interprete Marcello Moretti, Piccolo Teatro di Milano, 1951, maschera in cartapesta, cm 16 ∑ 18 ∑ 10 83. Arlecchino, 1952, china e gouache su carta, cm 43 ∑ 34, Università degli Studi di Padova 84. Brighella, 1952, china e gouache su carta, cm 44,5 ∑ 35, Università degli Studi di Padova
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85. Pulcinella di Eduardo, 1961, disegno a sanguigna, cm 40 ∑ 50, collezione Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, Padova 86. Pulcinella, per Pulcinella in cerca di fortuna per Napoli di Pasquale Altavilla, regia di Eduardo De Filippo, Piccolo Teatro di Milano, 1957, cuoio patinato e matrice in legno, cm 15 ∑ 15 ∑ 8, collezione privata
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87. L’Inquisitore, per l’Angelo di fuoco di Serghei Prokofiev, 1956, legno cavo dorato, cm 27 ∑ 17 ∑ 10, collezione Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, Padova
e 30,00
ISBN 978-88-7115-923-2