ANFIONE ZETO e
rivista di architettura e arti 24
Gregotti Associati Schema di assetto preliminare della centralità urbana di Acilia Madonnetta, Roma Grand Théâtre de Provence, Aix-en-Provence
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direttore margherita petranzan vicedirettori francesca gelli aldo peressa comitato scientifico gae aulenti massimiliano cannata giuseppe cappochin benedetto gravagnuolo francesco moschini valeriano pastor margherita petranzan franco purini francesco taormina paolo valesio comitato di coordinamento redazionale matteo agnoletto marco biraghi marco borsotti massimiliano cannata alberto giorgio cassani giovanni furlan francesca gelli nicola marzot aldo peressa davide ruzzon livio sacchi redazione alberto bertoni giuseppe bovo barbara canal pier luigi copat gaetano corica brunetto de batté stefano debiasi bruno dolcetta massimo donà antonio draghi ernesto luciano francalanci paolo frizzarin romano gasparotti ugo gelli franco la cecla francesco menegatti guglielmo monti patrizia montini zimolo dina nencini marco peticca saverio pisaniello roberto rossato davide ruzzon
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indirizzo redazione 35043 monselice (pd) piazza mazzini, 18 tel. 0429 72477 fax 0429 781411 e-mail anfionezeto@tiscali.it www.margheritapetranzan.it elaborazione grafica computerizzata p&b studio
redazione testi e impaginazione beatrice caroti
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progetto grafico il poligrafo casa editrice laura rigon
collaboratori alessandro anselmi mario botta maurizio bradaschia augusto romano burelli massimo cacciari rené casanova claudia conforti marco de michelis gianni fabbri sergio givone vittorio gregotti françoise julien giacomo marramao roberto masiero donatella mazzoleni michelina michelotto federico motterle adolfo natalini barbara pastor lionello puppi carlo sini paolo torsello umberto tubini ettore vio vincenzo vitiello
revisione editoriale il poligrafo casa editrice
revisione editoriale il poligrafo casa editrice laura rigon, sara pierobon
editore e amministrazione il poligrafo casa editrice 35121 padova via cassan, 34 (piazza eremitani) tel. 049 8360887 fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it abbonamento a due numeri della rivista italia privati e 42,00 biblioteche e istituzioni e 46,00 sostenitore min. e 150,00 estero privati e 65,00 biblioteche e istituzioni e 75,00 (per paesi extraeuropei supplemento e 8,00) sostenitore min. e 150,00 da versare sul ccp 10899359 intestato a il poligrafo casa editrice srl (indicare la causale) autorizzazione del tribunale di treviso n. 736 direttore responsabile margherita petranzan copyright © ottobre 2012 il poligrafo casa editrice srl tutti i diritti riservati isbn 978- 88-7115-787-0
ANFIONE e ZETO rivista di architettura e arti numero 24 direttore margherita petranzan
tema: fondazione-fondamento
dichiarazione d’intenti
ANFIONE e ZETO non è un contenitore indifferente
perché ha un orizzonte e un osservatorio internazionali
ANFIONE e ZETO non è un contenitore indifferente
perché è provocatorio, in quanto pratica la critica della critica
ANFIONE e ZETO è un contenitore aperto ANFIONE e ZETO è un contenitore aperto ANFIONE e ZETO è un contenitore concreto ANFIONE e ZETO è un contenitore scomodo ANFIONE e ZETO è un contenitore paradossale ANFIONE e ZETO è un contenitore paradossale
ANFIONE e ZETO è un contenitore neutro
ANFIONE e ZETO è un contenitore neutro
ANFIONE e ZETO è un contenitore limitato
ANFIONE e ZETO è un contenitore modesto
dove la disciplina dell’architettura trova un rinnovato rapporto con altre discipline e diventa struttura di relazione che intende ospitare le forme della città e i suoi problemi che presenta l’opera come fare e come fatto, innanzitutto nel suo farsi perché crede sia necessario parlare di tutta la produzione architettonica, anche se, a volte, solo per demolirla perché si interessa dei luoghi comuni perché si occupa delle assenze che permeano la disciplina dell’architettura e che le danno il volto che oggi assume: assenza di committenza con un mandato sociale forte o con ideologie da tradurre in forme e contenuti; assenza di limiti per la costruzione dei progetti non solo di architettura; assenza di indirizzi e di tendenze significative, assenza di realtà non perché illusoriamente puro o creato astrattamente, ma perché neutro di ideologie, come lo è questo tempo; è uno spazio in cui ciò che riempie il vuoto apparente è la pratica concreta delle scritture (nel senso di linguaggi), che riconduce alla responsabilità dell’opera praticata, da parte di un soggetto che non può dominare la sua pratica se non confrontandola con le altre pratiche, perché lui stesso è il prodotto della sua pratica, essendo tutto interno ad essa perché il soggetto agente si ferma sulla soglia della sua pratica, apparentandosi alla stessa domanda che sorge nelle altre pratiche, perché è consapevole che l’architettura è il luogo dove da sempre tutte le pratiche umane si incontrano e ritrovano il loro significato; è il luogo da dove si può partire per interrogarsi in quanto non chiede i perché, ma chiede i come, e vuole che siano mostrati non sotto forma di ideologie, ma di tecnica, che è la messa in opera della cultura stessa nei confronti della complessità del reale, perché è consapevole che «il deserto cresce»
indice
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ri-fondazione dei fondamenti in architettura
esercizi di stile sul dispositivo urbano di vittorio gregotti per acilia madonnetta
margherita petranzan
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francesco taormina
antinomie dell’identità nell’architettura (e nel pensiero) di gregotti
luigi ramazzotti
soglie a cura di aldo peressa
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opera
francesco lazzarin aldo peressa
19 biografia di vittorio gregotti
theorein
a cura di margherita petranzan
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vittorio gregotti
fondazioni/fondamenti 25
walter veltroni
un “ottimista strutturale” 27
guido morpurgo
centralità acilia madonnetta: antiche tracce per il futuro della periferia romana 32 schema di assetto preliminare della centralità urbana di acilia madonnetta, municipio XIII, roma
il mulino di terenzano. le ragioni di un recupero a cura di massimo donà
141
massimo donà
fondazione-fondamento 143
romano gasparotti
il dramma della fondazione
varietà
a cura di marco biraghi alberto giorgio cassani brunetto de batté
city a cura di francesca gelli francesco menegatti margherita petranzan
65
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vittorio gregotti architetto romano
fondamenti & fondazioni
franco purini
brunetto de batté
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costituzione di un paesaggio urbano
lasciatemi divertire: biografia di un “poeta del disegno”
paoloemilio colao
74 aix-en-provence. grand théâtre de provence 111
marco biraghi
paesaggio con gregotti ovvero la verità in architettura campo neutrale a cura di bernardo secchi
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francesco moschini
roma verso sud: dall’oggetto architettonico “spiazzato” alla ricerca di un’identità consolidata della periferia
alice brombin
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matteo benedetti
un’immagine di roma. il quartiere don bosco 167
massimiliano cannata
a colloquio con franco ferrarotti. periferie, sicurezza, nuove barbarie nella città mutante 173
scheda massimiliano cannata
la città e il mondo globale
175
giovanni furlan
214
francesco moschini
cose a cura di gaetano corica camilla sacerdoti
179
gabriele basilico / a.a.m. architettura arte modernità: trent’anni di progetti itinerari - tangenze
architettura e politica
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lo stato delle cose
del progetto t.e.s.i.
arti visive
forme di vita urbana. contro la città del leviatano davide ruzzon
181
paolo frizzarin
die berliner mauer. foto di paolo frizzarin 185
sergio cancellieri
nave da spiaggia. foto di sergio cancellieri 1933
opere prime, opere inedite a cura di francesco menegatti alessandra trentin
189
matteo agnoletto
maat architettura + MARC villa urbana a torino
ester bonsate
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patrizia valle
il premio per il patrimonio culturale dell’unione europea / europa nostra awards 2011 a cipro 230 concorso di idee per la riorganizzazione di una zona sportivo-ricettiva a sappada (bl) introduzione di patrizia valle intervista ad aurelio galfetti a cura di tuia giannesini
recensioni
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a cura di marco biraghi alberto giorgio cassani
un architetto romano
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franco purini
193
lina malfona
architettura e rarefazione. il nuovo volto di maribor 197
alessandra trentin
riccardo tronchin, enrico pisan. piano particolareggiato all’ex area faram a giavera del montello (tv) 202
luciano rossi, francesco lazzarini
uffici metal b, padova
mostre, premi, concorsi a cura di patrizia valle
205
sara petrolati
dar forma allo “scorrere” 209
martina rubinace
saverio dioguardi. architetture disegnate
alberto giorgio cassani
eupalinos o del fare 238
manuel bordini
urbanistica solidale 239
nicola braghieri
l’architetto torna sempre sul luogo del progetto 240
francesco messina
(r)esistenza creativa 241
franco purini
tre questioni 244
francesco taormina
il tempo dell’architettura, quello dell’uomo. un libro, un incontro, un altro libro
251
gaetano corica camilla sacerdoti
a cura di paola di bello
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ivana mazzei grazia marostica
uomini dentro
architetture poetiche a cura di alberto bertoni paolo valesio
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alberto bertoni
congedo da un poeta: giovanni giudici
a Vittorio Savi
ri-fondazione dei fondamenti in architettura margherita petranzan
Mi sono accorto che nulla c’è di meglio per l’uomo che godere delle sue opere, perché questa è la sua sorte. Chi potrà infatti condurlo a vedere ciò che avverrà dopo di lui? (Qoèlet 4,6)
Ludwig Mies van der Rohe, Bauen, pubblicato su “G”, 2, settembre 1923. Ludwig Mies van der Rohe, Casa di campagna in mattoni, 1924, schizzo, prospetto e pianta.
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“Il significato di fundare è, originariamente, scavare per dare le fondamenta” . Per ogni architettura realizzata la fondazione salda e ben radicata al terreno è una necessità e organizza la sua possibilità di esistere e la sua durata. Ogni fondazione, che sta entro terra, è commisurata al peso e alle dimensioni della struttura che, fuori terra, insiste su di essa. Ogni fondazione, tuttavia, richiede una lacerazione del suolo di entità funzionale all’altezza e alle caratteristiche strutturali e compositive di ciò che si organizzerà come costruzione, come forma-formata: lacerazione, tuttavia, inevitabile e necessaria perché rende possibile l’esistenza di ogni costruzione. Tutto ciò che emerge dal suolo prevede dunque un’edificazione altrettanto importante, costruita per essere nascosta, dentro al suolo. Ciò che sta dentro la terra, la parte nascosta dell’architettura, che garantisce e permette la possibilità di esistere a ciò che sta fuori, è la sua sostanza. Il nascosto e il visibile concorrono, insieme, a dare concreta definizione al costruito. L’architettura non può prescindere da ciò, perché da sempre si rivela nascondendo e si propone svelando. Se per fondamento si intende la ragione per cui qualcosa esiste o accade, ovvero l’essenza propria di ogni accadere, per l’architettura diventa una vera e propria necessità avere un fondamento, oltre che una fondazione, nel senso fisico del termine. Il fondamento dell’architettura è allora la sua essenza, e consiste nel proporsi, da sempre, come risposta, in forma di narrazione, ai complessi bisogni dell’uomo di ogni tempo. Ma che cosa narra l’architettura? Contraddizioni e radicamento alla vita e alla sua continua, paradossale, riproposizione, visioni e speranze per la costruzione del futuro degli agglomerati umani chiamati città, dove è ormai in corso una sostanziale mutazione delle aree edificate per le quali è necessario un nuovo assetto sia urbanistico, sia architettonico, sia amministrativo-istituzionale. L’architettura è anche un’istituzione? Sicuramente, perché è un bene al servizio dei cittadini e si organizza, come funzione, in risposta ai bisogni di chi abita un luogo e un tempo. È un bene progettato e radicato, dentro al quale ogni persona, alla nascita, viene gettata. Ciò significa che l’essere dentro all’architettura non è una scelta, è piuttosto una necessità. Si è gettati nell’architettura come lo si è nelle istituzioni, e ci si struttura sul piano 2 identitario anche relativamente a questa collocazione iniziale . Il fondamento dell’architettura passa attraverso le sue finalità, il suo essere sempre e comunque struttura di relazione, il suo dover vestire di bellezza i luoghi e il suo dover permanere nel tempo come faro che illumina percorsi di genti che si avvicendano sotto il sole. Tuttavia l’architettura richiede sempre lo scavo, e con esso, il radicamento. Le radici strutturali sostituiscono quelle che l’uomo vorrebbe e che può avere solo in una qualsiasi dimora, che interrompa il suo inquieto procedere. La sosta, cui ogni architettura invita, organizza i tempi delle ritualità, delle riflessioni, delle relazioni di cui ogni uomo si nutre per vivere. La costruzione
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in un luogo e in un tempo di una precisa struttura edificata in risposta a bisogni mette al riparo il corpo, che è il luogo per eccellenza, da contraddizioni e conflitti distruttivi. Ma tutto ciò non è sufficiente per creare fondamenti per la più antica delle discipline: fondamenti da cercare in direzioni legate al pensiero del fare, più che al fare. L’opera di architettura è il prodotto più vicino alla precaria condizione di chi viene gettato nella vita e all’interno di un qualsiasi spazio costruito, che garantisce e ripara permettendo fin dal principio, la sua conoscibilità. L’essere dunque di necessità gettati in un tempo vestito di costruzioni che definiscono luoghi diventa un’abitudine, oltre che un bisogno. Poi, l’uscire fuori, all’aperto, non più al riparo, ma separati e in cammino permanente fino alla chiusura del tempo che gli è concesso, diventa l’unico obiettivo di ogni persona. L’ingresso nella vita, avvenuto a partire dalla casa, continua, in seguito, varcando la soglia della casa che accoglie, per entrare nell’esterno dove nuove e infinite altre case attendono. L’ingresso quindi nel tutto costruito fa diventare l’architettura parte indispensabile della condizione umana. L’architetto, costruendo si costruisce, definendo spazi misura ed organizza l’ambiente da abitare. L’architetto però non può limitarsi a rappresentare se stesso con la sua professionalità e le sue tecniche, se pur appartenenti al massimo dell’innovazione e delle nuove proposte; l’architetto rappresenta l’aspirazione al radicamento e alla protezione della precaria condizione umana e al contempo la necessità dell’organizzazione ordinata e gradevole delle costruzioni che vanno a formare gli insediamenti umani definiti “città”. L’architetto rappresenta se stesso 3 e l’insieme degli individui che abiteranno i suoi prodotti . Rappresenta le comunità che insistono nei luoghi, con i loro bisogni e deve sapere che il suo essere gettato nelle costruzioni assume una duplicità importante ed inquietante: dare un senso alla sosta e facilitare il viaggio. La città-territorio della contemporaneità, se non sarà strutturata come città metropolitana, sarà sicuramente destinata al caos aggregativo e al conflitto permanente. Questo per dire che la necessaria pianificazione delle aree vaste e la costituzione di grandi nuclei metropolitani potrebbero diminuire lo strapotere delle autonomie locali e l’isolamento della gestione centrale del territorio nazionale, mettendoli finalmente in rapporto costruttivo finalizzato anche alla creazione di nuovi fondamenti disciplinari, perché lo spazio dell’architettura è uno spazio essenzialmente politico.
Note 1
G. Semerano, Le origini della cultura europea, vol.II, Firenze 1994; si legge inoltre: “Fundare deriva da Fundus-i: fondo, piano, terreno, campo; fundo-as: getto le fondamenta”. 2 J. Derrida, Adesso l’architettura, Milano 2008: “C’è un’istituzione chiamata architettura, e c’è un’architettura per ogni istituzione. Ogni istituzione è un’architettura”. 3 Ivi, “Gli architetti che costruiscono hanno pochi problemi circoscrivibili in un singolo campo. Devono conoscere l’estetica, certo, e la filosofia, la politica, l’economia e non possono trattare questi problemi soltanto a scuola. Essi incontrano resistenze nella città nella politica nell’economia. Devono negoziare la propria ricerca, i loro progetti con un grande numero di poteri... l’architettura non è una disciplina circoscritta”.
antinomie dell’identità nell’architettura (e nel pensiero) di gregotti francesco taormina
La dispersione della tradizione del Moderno, a fronte delle difficoltà di una sua sempre più profonda e propositiva rivisitazione, è una questione sulla quale Vittorio Gregotti riflette da lungo tempo, facendone motivo del proprio procedere specifico e principio di sostanza dell’architettura, come tale teso a legittimarne i significati espressivi e il ruolo nel sociale. Il ponte ideale, che egli getta tra la stessa architettura e le altre discipline, per coinvolgerle nel superamento dello specialismo delle tecniche, è infatti sostenuto dalla convinzione che la logica del costruire possa rendere partecipi i luoghi senza eludere i caratteri della loro stanzialità, e di farlo oltre la temperie odierna, oltre le disgiunzioni concettuali che riducono il linguaggio dell’architettura a motivo propagandistico e di consumo, autoreferenziale quanto basta per rispondere all’omologazione dei desideri della società contemporanea. Il confronto tra “fondazioni” e “fondamenti” è parte di queste disgiunzioni, la cui consapevolezza determina l’alterazione di una conoscenza consolidata e dei processi che ne derivano, sul piano del sapere e delle sue applicazioni, con effetti tuttavia non necessariamente negativi: se solo conflittuale, tra aspetti tangibili e immateriali, tale confronto interrompe di certo l’unità interpretativa che il Moderno, non senza lacerazioni e meccanicismi, aveva attribuito alla prassi del progetto e alle istanze teoriche della sua divulgazione; se interpretato come condizione che permette il dialogo tra opposizioni, l’accostamento fondazioni-fondamenti può invece entrare a fare parte delle procedure di costruzione del progetto, può contribuire a farne comprendere il rapporto con la consistenza dei problemi insediativi che è chiamato a risolvere, soprattutto può definire il senso delle forme rispetto a quei problemi. Fondazioni e fondamenti assumono, così, una incrociata e scambievole dualità pratica e teorica, dove alla consistenza fisica fanno da contraltare le tendenze concettuali intrise sia del più generale sentimento specifico della storia, sia della storia che i luoghi hanno sedimentato nella loro fisicità: una congiunzione che sembra accomunare in una unica spiegazione i progetti, tra i più significativi della recente produzione della Gregotti Associati, per il teatro di Aix-en-Provence, realizzato, e per il grande insediamento romano di Acilia Madonnetta, malgrado le rilevanti diversità funzionali e programmatiche, oltre che di dimensione, dei due interventi. L’utilizzo di questi, come casi esplicativi della dualità, possibilmente della coincidenza tra fondazioni e fondamenti, è del resto quanto suggerisce lo stesso Gregotti nel suo scritto introduttivo, fornendocene una collocazione interpretativa plausibile ma la cui verità va ricercata all’interno delle opere stesse, dentro la specificità dei loro rapporti di forma e di spazio, nella natura delle loro relazioni insediative, nel valore dei loro risultati tecnici e figurativi. Per Gregotti, la convergenza ideale tra gli interventi è segnata dal diverso riferimento al suolo: a Aix-en-Provence, l’edificio sembra subire la pressione della città, riempiendo l’intero lotto a disposizione con la figura di una pietrificata concrezione collinare, geometrica e percorribile, cavata per
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raccordare accessi e dislivelli, e proiettata sulla visione del Saint-Victoire e sull’immaginario pittorico cézanniano, di cui il monte è emblema; al contrario, ad Acilia Madonnetta, sono i segni offerti dalla residua campagna romana a indirizzare la costruzione di una trama abitativa che intende assumerli come solido motivo della propria attribuzione urbana, proponendoli a sostegno di una rinnovata definizione della periferia. Il rimando dichiarato alla pittura di Cézanne, nel caso di Aix-en-Provence, costituisce dunque un movente per il progetto del teatro e per il suo radicamento paesaggistico, al punto che in un recente libro dedicato alla “architettura” dell’artista, Gregotti non evita confronti illustrativi diretti: uno di questi, in particolare, riguarda il modello scoperchiato dell’edificio, dove risultano evidenti tre ambienti circolari (solo quello ellittico ammette suddi1 visioni), e la tela Natura morta con mele e arance del 1899 . I tre ambienti circolari, che permangono con qualche differenza nelle piante, appaiono nitidi nella distribuzione planimetrica perché sembrano subire la spinta degli spazi interposti, stimolando una sorprendente analogia con quanto suggerisce Picasso proprio a proposito delle mele di Cézanne: “[...] La forma, da sola, è un volume cavo, sul quale la pressione esterna è tale da generare l’apparenza di una mela, anche se questa poi non esiste veramente”, sottolineando che “Quel che conta è la spinta ritmica dello spazio sulle forme”. 2 Il pensiero picassiano è stato raccolto mentre egli dipingeva La cuisine che, nelle due versioni in cui è stata eseguita, nel 1948, propone un’altra analogia: i dipinti presentano anch’essi tre tondi, sintesi di tre piatti appesi alle pareti, mostrati in un assedio di linee intersecate e finite entro il bordo del quadro, a loro volta apparentemente dotate di una strutturazione autonoma. Senza forzare paragoni tra le motivazioni che sostengono discipline diverse della pratica artistica, è possibile accettare il commento – e, per i contenuti, La cuisine – di Picasso quale ulteriore spiegazione dell’adesione del progetto di Aix-en-Provence a una visione cézanniana che forse va oltre il solo ricorso alla sua trascrizione paesaggistica: il “vuoto” teatrale degli ambienti dello spettacolo e dell’ascolto lirico, provvisto di un proprio indipendente significato, è definito da un esterno che, pure riflettendone la dinamica volumetrica, soddisfa qualcosa d’altro, la città che viene ricucita senza enfasi monumentali e i suoi assi viari, le vedute oltre la soglia dell’urbano. L’uso interamente pubblico del “teatro totale”, come lo definisce Gregotti, si gioca perciò sul sottile equilibrio determinato dall’antitesi tra le esigenze funzionali, strutturali, impiantistiche, comunque precisate dalla tipologia consolidata di un interno delimitato e accogliente, fatto di una materia levigata e lucida, e l’esterna continuità geologica di terrazze rivestite di pietra a spacco, differentemente disposta per accentuarne la varietà tonale da pareti di cava: una antitesi che è certo frutto della necessità di definire gli aspetti di identità del progetto, tipologici e contestuali, la cui distinguibile risoluzione, seppure mediata da quel dentro e fuori insieme rappresentato dalla piazza circolare di ingresso, apre un ulteriore problema al progetto contemporaneo. Se il teatro della città di Aix muove infatti, e con rara chiarezza, dalla intenzione di precisare le sovrapposizioni e le logiche di corrispondenza tra fondazioni e fondamenti del progetto, esso rivela anche tutta la difficoltà che il procedimento progettuale ha oggi nell’attribuire, all’interezza dell’architettura, la condizione di totale appartenenza al luogo favorendone il riconoscimento: come invece avveniva nel passato, come richiama l’esempio di quel San Biagio a Montepulciano che, in età rinascimentale, Antonio da Sangallo il Vecchio unifica nel materiale interno e esterno, a suggello della corrispondenza delle forme ma per approssimarle ai valori di un ambiente urbano per altro non contiguo. Di una distinzione è anche portatore l’intervento di Acilia, che da un lato è sorretto dai segni offerti dalla mutevole porzione di territorio che lambisce Roma dal mare, un tempo acquitrinoso e dove le vestigia del passato, immerse nei parchi suburbani, convivono con l’incertezza periferica e la pochezza di servizi e infrastrutture; e che, dall’altro, è teso a fare del proprio procedimento progettuale il motivo di ordine e organizzazione gerarchica di una proiezione insediativa desunta proprio da quei segni: una strada attrezzata e dotata di una metropolitana leggera per le connessioni urbane, lungo un esistente filare di pini, e un canale di bonifica riattivato, individuano infatti un cardo e un decumano che, secondo orientamento, separano quadranti distinti per usi e ulteriormente suddivisi in comparti reticolari, alcuni dei quali ruotati per seguire il solco traverso di un antico acquedotto, implicita
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In questa pagina Confronto tra il teatro di Aix-en-Provence e un’opera di Cézanne (in V. Gregotti, L’architettura di Cézanne, Ginevra-Milano 2011). J.N.L. Durand, Recueil et parallèle des édifices de tout genre, Parigi 1799-1801, tav. 28. Nella pagina a fianco Pablo Picasso, La cuisine, Parigi, 9 novembre 1948, olio su tela, cm 175 x 250 New York, The Museum of Modern Art. San Biagio a Montepulciano, sezione e pianta. Giovanni Battista Piranesi, Sustruzioni di Clodio nella sua Villa / sul Monte Albano or posseduta / dall’Eccma Casa Barberini, 1762, acquaforte.
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raffigurazione di una lacerazione piranesiana che diventa efficace ed emotiva eccezione al rigore geometrico dell’impianto. Questa regola essenziale attribuisce al disegno urbano, di “assetto preliminare”, la capacità di esprimere la compiutezza dell’insediamento nell’impossibilità di governare nell’immediato il linguaggio finito dei singoli interventi, legati all’avvenire certo discontinuo della realizzazione malgrado l’unicità proprietaria: una scelta che si è già rivelata efficace, durante l’elaborazione del progetto, per assecondarne le variazioni di programma senza pregiudicare l’importanza della connessione degli spazi pubblici e la stabilità delle dipendenze tra gli edifici. Resta da chiedersi, allora, perché una tale evidente e propositiva complessità morfologica, il cui telaio procedurale sembra predisposto per accogliere le ulteriori differenze dei sedimenti geografici, delle tracce antropiche, delle memorie storiche che l’attuazione delle opere previste renderebbe sempre più puntualmente manifeste, necessiti del presupposto di un “atlante architettonico”, illustrativo delle probabili risultanze tipologiche del processo stesso: la Acilia che vi viene sinteticamente rappresentata è un abaco di ispirazione durandiana, planimetrico e di vedute, che non indaga le molteplici possibilità relazionali tra gli oggetti ma ne desume i rapporti dalla generalità del tutto, facendo dell’espressione delle singole figure edilizie un risultato preordinato. Il modo di proporre l’insediamento come una sorta di scavo nell’esistente, dal quale rilevare un costruito capace di trasporne i valori, di agire ancora una volta tra fondazioni e fondamenti, è certo un modo diverso e innovativo di affrontare la questione insediativa nella periferia delle nostre città; eppure, anche in un caso così straordinariamente propositivo e coinvolgente la città intera, che si vorrebbe messo alla prova della realtà e specie di quella nostrana, avara di vere sperimentazioni, il progetto contemporaneo dimostra tutta la problematicità di fare, del proprio procedimento, un disegno capace di affrontare l’imprevedibilità del tempo della morfologia. Ma è significativo, ad Acilia Madonnetta come per il teatro di Aix-en-Provence, il ricorso ad opposti conciliabili, alle antinomie di identità capaci di muovere pensiero dell’architettura e progetto nel profondo della loro essenza costitutiva, in avversione alla riduzione della rappresentazione del mondo a calligrafica superficialità.
Note V. Gregotti, L’architettura di Cézanne, Skira, Ginevra-Milano 2011, pp. XIV, XV. La testimonianza è di Françoise Gilot, riportata in: Picasso. Opere dal 1895 al
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dalla collezione Marina Picasso, catalogo della mostra (Venezia, Palazzo Grassi, 1981), a cura di G. Carandente, Sansoni, Firenze 1981, p. 368, scheda 281.
opera a cura di margherita petranzan
“La parola greca ‘costruire’ significa anche ornamento, in un duplice senso del tutto simile a quello della parola kosmos”. L’opera di architettura è, come dice Gottfried Semper, questa capacità di costruire da parte di un autore che porta a compimento una meditazione attraverso l’uso della mani, che operano secondo un progetto. La fabrica è meditazione continua attraverso la pratica quotidiana. L’opera consiste nel suo farsi. L’opera di architettura è unità nella molteplicità e il suo fine è la forma relazionata con ciò che esiste: società‑storia‑natura. L’autore si mette al servizio dell’opera, per portarla alla luce, per permettere il suo realizzarsi.
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foto Leonardo CĂŠndamo
biografia di vittorio gregotti
Vittorio Gregotti, nato a Novara nel 1927, si è laureato in Architettura nel 1952 al Politecnico di Milano. Dal 1953 al 1968 ha svolto la sua attività in collaborazione con Lodovico Meneghetti e Giotto Stoppino. Nel 1974 ha fondato la Gregotti Associati, di cui è presidente. È stato professore ordinario di Composizione architettonica presso l’Università IUAV di Venezia, ha insegnato presso le Facoltà di Architettura di Milano e Palermo, ed è stato visiting professor presso le Università di Tokyo, Buenos Aires, San Paolo, Losanna, Harvard, Filadelfia, Princeton, Cambridge (U.K.) e al M.I.T. di Cambridge (Massachussets). Ha partecipato a numerose esposizioni internazionali ed è stato responsabile della sezione introduttiva della XIII Triennale (Milano 1964), per la quale ha vinto il Gran premio internazionale. Dal 1974 al 1976 è stato direttore del settore arti visive ed architettura della Biennale di Venezia. È Accademico di San Luca dal 1976 e di Brera dal 1995. Gli è stata conferita la laurea honoris causa dal Politecnico di Praga nel 1996, dal Politecnico di Bucarest nel 1999 e dall’Università di Porto nel 2003. Dal 1997 è membro del BDA (Bund der deutschen Architekten) e dal 1999 è membro onorario dell’American Institute of Architects. Il 12 gennaio 2001 la Presidenza della Repubblica Italiana gli ha conferito la medaglia d’oro riservata ai “Benemeriti della Scienza e della Cultura”; nell’ambito della prima Triennale Internazionale di Architettura di Lisbona, edizione 2007, gli è stato assegnato il Premio alla carriera Trienal Millennium. Nel 2008 il Premio Vittorio De Sica per l’Architettura dall’Accademia del Cinema Italiano e dall’Associazione Amici di Vittorio De Sica. Dal 1953 al 1955 è stato redattore di “Casabella”; dal 1955 al 1963 caporedattore di “Casabella-Continuità”; dal 1963 al 1965 direttore di “Edilizia Moderna” e responsabile del settore architettura della rivista “Il Verri”; dal 1979 al 1998 è stato direttore di “Rassegna” e dal 1982 al 1996 direttore di “Casabella”. Dal 1984 al 1992 ha curato la rubrica di architettura di Panorama, dal 1992 al 1997 ha collaborato con il “Corriere della sera” e dal 1997 al 2002 ha collaborato con la “Repubblica”, poi dal 2003 ancora con il “Corriere”. Bibliografia di Vittorio Gregotti Il territorio dell’architettura, Feltrinelli, Milano 1966 El territorio de la arquitectura, Gustavo Gili, Barcelona 1972 Territorio da arquitectura, Perspectiva, Sâo Paulo 1975 Le territoire de l’architecture, L’Equerre, Paris 1982 L’architettura dell’espressionismo, Fabbri, Milano 1967 Nuove direzioni nell’architettura italiana, Electa, Milano 1968 New Directions in Italian Architecture, Braziller, New York 1968 Il disegno del prodotto industriale. Italia 1860-1980, Electa, Milano 1982 Questioni di architettura, Einaudi, Torino 1986 Cinque dialoghi necessari, Electa, Milano 1990
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schema di assetto preliminare della centralità urbana di acilia madonnetta, municipio XIII, roma
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proprietaria Aree Urbane s.r.l. mandataria Pirelli RE progetto architettonico e urbano Gregotti Associati International s.p.a. aspetti storico-archeologici Francesco D’Asaro; British School at Rome qualità ambientali del progetto urbano Salvatore Dierna, Marco Strickner mobilità e trasporti Cosimo Epifani sistema di trasporto pubblico dedicato ATAC studio delle opere di urbanizzazione PR.AS - Carlo Biavati aspetti geologici Ingeolab s.r.l. - Giorgio Cappai aspetti idraulici e idrogeologici Ermanno Caruso aspetti giuridici del progetto urbano Stefano Gattamelata verifica del consenso Università degli Studi di Milano Bicocca Guido Martinotti, Nicolò Costa, Mario Boffi processo partecipativo Atelier Locali - Roma aspetti energetici Pirelli LABS, Milano dati salienti superficie territoriale: 1.361.662 mq superficie utile lorda totale: 351.582 mq superficie utile lorda pubblica: 194.174 mq – università-facoltà: 77.500 mq – sede di istituzione pubblica (ipotesi palazzo di giustizia): 17.515 mq superficie utile lorda privata: 157.408 mq – residenza: 140.000 mq – centro commerciale: 40.500 mq – commercio (totale): 56.940 mq – albergo-centro congressi: 14.750 mq – terziario: 35.998 mq superficie utile lorda di standard – attrezzature di interesse comune – attrezzature di interesse comune – attrezzature di interesse comune – attrezzature di interesse comune – attrezzature di interesse comune – attrezzature di interesse comune – istruzione-asilo: 12.000 mq – attrezzature per lo sport - centro – attrezzature di interesse comune
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sanitarie: 38.000 mq casa per anziani: 16.000 mq centro culturale: 22.000 mq centro parrocchiale: 20.000 mq scuola superiore: 36.000 mq municipio: 18.000 mq
sportivo: 88.500 mq culturale - museo: 67.000 mq
verde pubblico: 258.120 mq parcheggi pubblici: 94.690 mq indice di edificabilità territoriale (SUL privata): 0,11 mq SUL/mq ST indice di edificabilità totale: 0,25 mq SUL/mq ST
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Funzioni previste (S.A.P. novembre 2006).
Vista zenitale.
Gli edifici del campus universitario affacciati sul parco del “vallo archeologico�.
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L’area di Acilia Madonnetta, situata nel quadrante sud-occidentale del Comune di Roma, appartiene al sistema delle nuove centralità urbane e metropolitane previste dal nuovo PRG.
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Inquadramento territoriale. La nuova centralità di Acilia Madonnetta è al centro di un sistema di funzioni d’eccellenza, di alto interesse per l’intero territorio comunale.
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Studio assonometrico generale. Dettaglio dell’area centrale (marzo 2005). Il tema della permanenza del fondamento si traduce negli specifici elementi del disegno urbano – edificato, spazi aperti e infrastrutture – che, investiti di una precipua forza espressiva, sono portatori di caratteri di modificazione attraverso l’attribuzione di nuove misure, gerarchie e articolazione d’uso.
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Veduta della nuova sede della Provincia di Roma (progetto di concorso).
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Il canale navigabile in prossimità della testata ovest dell’insediamento.
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Veduta dell’intersezione del canale navigabile con l’asse centrale.
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Vista di una delle corti della nuova sede della Provincia di Roma (progetto di concorso). Vista dell’asse centrale dalla corte degli uffici municipali.
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Veduta verso est del canale navigabile attraversato in quota dalla linea della metropolitana leggera. A sinistra l’edificio della Scuola di alta formazione (campus universitario Roma Tre).
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Vista assonometrica generale, 2007.
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Studio assonometrico generale (marzo 2005). La croce di fondazione, i recinti delle grandi quadras, le figure elementari con le quali sono organizzati i singoli comparti di intervento, nel momento in cui vengono riuniti in un disegno urbano unitario declinano in forma attuale la permanenza di una regola antica di organizzazione dello spazio abitabile.
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Pianta del piano terreno del primo lotto del campus universitario situato nel quadrante nord-ovest della centralitĂ .
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Campus universitario - primo lotto. Vista da est del modello generale di studio. In primo piano l’asse centrale con la metropolitana leggera sopraelevata.
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Scuola d’alta formazione.
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Vista dell’ingresso principale sull’asse centrale.
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Veduta degli edifici del primo lotto del campus universitario. In primo piano il parco lineare del vallo archeologico.
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Vista generale da ovest del modello della proposta progettuale iniziale nel contesto territoriale (montaggio su foto aerea, luglio 2004).
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vittorio gregotti architetto romano franco purini
La centralità urbana Acilia Madonnetta è stata progettata dalla Gregotti Associati tra il 2004 e il 2007. Essa è una delle diciotto polarità metropolitane che, nelle intenzioni degli autori del nuovo Piano Regolatore Generale e dell’Amministrazione comunale che ne ha accettato le previsioni, dovrebbero dotare la periferia di Roma di luoghi adeguati di ricezione e di trasmissione dei grandi flussi di informazioni e di merci che attraversano la città. Luoghi nei quali anche la cultura sia presente così come ambiti innovativi per il lavoro terziario, per la ricerca, per l’incontro e per il tempo libero. Le centralità urbane si dovrebbero configurare come le sinapsi per il tessuto nervoso, ovvero come spazi attivi nei quali il materiale e l’immateriale siano messi in grado di reagire secondo modalità sempre più evolute e complesse. Al contempo le centralità urbane si configurano come presenze urbane dotate di valore monumentale, chiamate a gerarchizzare il tessuto periferico tramite un accurato e contenuto salto di scala dimensionale, funzionale e morfologico. Il progetto gregottiano non è stato ancora realizzato, privando la città di un intervento di particolare importanza, dal momento che esso riguarda una parte di periferia priva di un reale contenuto urbano, essendo l’attuale Acilia una forma ridotta e per molti versi impropria di città diffusa. Nonostante sia rimasto sulla carta, almeno per ora, questo progetto è un’opera che arricchisce indubbiamente l’architettura romana. Si tratta di una proposta esemplare che a un carattere decisamente trattatistico associa un elevato livello formale e una rilevante capacità di articolarsi, senza perdere la sua positiva unità di impianto, in una serie di situazioni ambientali opportunamente differenziate. Il progetto è un pregevole segmento dell’asse portante dell’architettura moderna italiana, vale a dire quella relazione organica tra città e architettura attraverso la quale i due termini coinvolti, anche se rimangono distinti e riconoscibili nella loro formulazione disciplinare, si appartengono pienamente. Entrare nei contenuti della proposta gregottiana non è semplice. Essa presenta infatti gli esiti di una scrittura urbana e architettonica costruita su più piani, tra i quali alcuni strati semantici propri della cultura architettonica romana. Vittorio Gregotti ha svolto un lavoro ammirevole sulle permanenze strutturali e sui mutamenti di materiali architettonici che la periferia della capitale ha proposto, incrociandoli con una serie di saperi meno legati al luogo. Il risultato è un progetto per Roma, ma anche un modello di progetto per ogni altro insediamento urbano. Tuttavia, dal momento che Roma è una città a suo modo unica è necessario, prima di addentrarsi in una analisi ravvicinata di quest’opera, tentare di ricostruire, anche se velocemente, il lungo viaggio negli enigmi romani che Vittorio Gregotti, per immaginare e comunicare la sua architettura per Acilia Madonnetta, ha dovuto affrontare. Chi riflette su Roma o deve progettare per questa città si trova inevitabilmente a confrontarsi con una serie di difficoltà teoriche che si trasformano ben presto in altrettanti ostacoli operativi. Difficoltà notevoli le quali, per la loro stessa natura e per il contesto dal quale hanno avuto origine, non
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aix-en-provence. GTP
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committente Communauté d’agglomération du Pays d’Aix - rappresentante Roselyne Pennec delegato del committente per la gestione progetto SEMEPA - rappresentante J.F. Roucole consulente scenico per il cliente Festival d’Art Lyrique d’Aix-en-Provence rappresentante F. Lefebvre consulente per gli aspetti di alta qualità ambientale: Oasiis - rappresentante P. Frusta equipe progettisti architettura e direzione lavori: Gregotti Associati International (A. Cagnardi, V. Gregotti, M. Reginaldi) con P. Colao, G. Donato Associati, C. Castello, M. Giordano, M. Parravicini consulente illuminotecnico hall/sala: P. Castiglioni con N. Rossi grafica: G. Caron con M. Moryama Direzione lavori e gestione cantiere: SPMO P. Hebert, P. Squiban ingegneria: OTH Méditerranée P. Ozenda, R. Leduc, H. Miroux, J.-L. Gautier, G. Hanna, F. Delbaere, P. Kozoulia, H. Zundel, E. Cheylan, F. Reverdy, R. Sasse, N. Schmit, S. Poggioli, F. Bireche acustica: Commins Acoustics Workshop D. Commins, L. Kiladis scenografia scène: J.H. Manoury, G.C. François, C. Polycarpe, C. Defouchecour, A. Stoica, A.M. Delangle, P. Guillou, D. Valentini, Y. Podser, S. Munoz, D. Borlot, D. Couleau economia della costruzione: Davis Langdon France G. Reseau, S. Barcat, C. Bouchel, B. Laurier alta qualità ambientale: TRIBU A. Bornarel, E. Akiki, D. Suisse-Guillaud, H. Michelson, E. Rocha Soares pilotaggio: GPCI J.P. Antoine, J.R. Romeo, C. Detallante, B. Ballot, I. Desespringalle, S. Martinez ente Validatrice: Veritas J.P. Vachin, F. Kretzchmar, P. Ayvazian, CSPS/CSSI Alama Provence A. Pruvost, O. Pezeron crediti fotografici: D. Dibello, T. Macchi Cassia, P. Bruneau
1991 Concorso internazionale a inviti
per la creazione del quartiere “Sextius Mirabeau�.
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Veduta notturna.
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varietà a cura di marco biraghi alberto giorgio cassani brunetto de batté
Sezione “Varietà” come varietas e come variété. Luogo di incontro e di scontro tra diversi saperi e pratiche, libero da coerenze troppo asfissianti, che non teme di accostare tra loro mondi apparentemente lontani. Intermezzo, benjaminiana “costellazione di eventi” e frammenti, crocicchio di strade che qui si incrociano ma anche si dipartono, costituisce un momento di riflessione aperta a ospitare su uno stesso piano e con gli stessi diritti progetti di architettura, opere prime, arti, filosofie, interviste, libri, mostre. Privilegiando soprattutto quei luoghi di cui questi differenti linguaggi dialogano tra loro, pur parlando una propria lingua. In questo il riferimento al concetto di varietas albertiana appare inevitabile: contro ogni “normatività”, tipologia fissa e “canoni”, stabiliti, la sezione riflette le differenze, le mistioni, lo spettacolo vario e multiforme che costituisce la nostra attualità. “Tamen quid affirmen, nihil satis apud me constitutum habeo: tam varia de istiusmodi rebus apud scriptores comperio, tamque multa et diversa ultro sese consideranti offerunt”. (De re aedificatoria)
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city
a cura di francesca gelli francesco menegatti margherita petranzan
brunetto de battĂŠ
fondamenti & fondazioni
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alice brombin
lasciatemi divertire: biografia di un “poeta del disegno”
Piero Brombin, lampada Arianna, primo premio Artemide-Domus 1963.
Non è facile riassumere cinquant’anni di vita, soprattutto se si tratta di un artista, ancor meno se si tratta di mio padre, forse le parole di altri consentono di sciogliere un certo senso di pudore e un po’ di imbarazzo, mi viene in aiuto il libro di Paolo Coltro Tempora & Mores: “Un magnifico inno alla città di Padova e alle città vicine che non hanno mai avuto celebrazioni come questa” scrive Ferdinando Camon, un viaggio fra fatti e persone, “in mezzo ci stanno tanti artisti, Piero Brombin sopra tutti”. Padova, risvegliatasi da un torpore durato quasi mezzo secolo, ha deciso finalmente di rivendicare la cittadinanza di questo a-topos, di un uomo che per mezzo della sua visionarietà si può dire abbia abitato tutto il mondo, celebrandolo l’anno scorso al Centro Culturale San Gaetano con una grande antologica “Il mito, l’inganno, il gioco” che già nel titolo evoca l’esperienza densa che ha contraddistinto la sua vita. Architetto, designer, scenografo, artista, urbanista, ecco la prima difficoltà, qual è la parola giusta? Come definirlo? Proprio questo sconcerta una società che vive di definizioni: Piero Brombin è uno a cui non si può attaccare un’etichetta. Eppure l’afflusso entusiastico delle oltre 8.000 persone che ne hanno visitato la mostra, ci dice che non c’è difficoltà di comprensione, le loro frasi e i loro commenti ci restituiscono un sostantivo più di altri: bello, un concetto unificante quando, come in questo caso, non riflette un valore semplicemente estetico ma prima di tutto etico. Piero Brombin esplora l’arte in tutte le sue declinazioni ma è nell’arte di vivere il suo progetto più vero. La sua opera è una rivoluzione ludica permanente mai disgiunta da temi socio-politici, in cui sono protagonisti la natura e l’uomo ribelle alle regole prestabilite dal funzionalismo architettonico. Fondamentale rimane un’aspirazione che si traduce in progetto: non appesantire il suolo. Proprio questo ci dice Paolo Coltro scegliendo un lessico davvero evocativo: “Non abbiamo capito fino in fondo se Piero Brombin è un anarchico pervaso di gentilezza, i suoi attentati sono tutti intrisi di bontà, una bomba non se l’immagina neanche: ma i suoi lavori sfuggono alle regole codificate, ai sistemi, alle mode. L’uomo, quindi l’architetto, vive di intuizioni: quasi sempre è avanti, comunque sopra. E l’utopia gli consente di non essere schiavo di limiti e confini, di progettare l’indefinibile, di dare una forma a quanto sembrerebbe non poter esistere, sfuggendo perfino a calcoli, misure, legge di gravità. Produce quindi architettura di idee, via via partendo o sconfinando nell’arte: che, a ben pensarci, dovrebbe essere il destino e l’aspirazione di tutta l’architettura. Alla fine degli anni Cinquanta quando Brombin è ancora uno studente giovane e pieno di entusiasmo Carlo Scarpa lo sceglie come suo allievo, se lo porta nel suo studio, lo fa vivere lì giorno e notte, lo sprona ad essere prima di tutto un creativo, divenendo per lui quel maestro che ancora ricorda con affetto e commozione. Nel 1961 collaborano insieme a Torino alla realizzazione del Padiglione del Veneto per i Cento anni dell’Unità d’Italia,
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In queste pagine Piero Brombin La grande casa per homeless, New York, progetto e plastico, 1981. Architetture galleggianti, 1995. Vasi in vetro. Mostra San Gaetano, Padova, 2010-2011: Architettura violenta (Mattoni), 1981 Frankenstein cittĂ , 1982 Allestimento mostra San Gaetano.
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opere prime opere inedite
a cura di francesco menegatti alessandra trentin
matteo agnoletto
maat architettura + MARC villa urbana a torino progetto MARC maat architettura progettisti: subhash mukerjee (MARC), martina tabò (maat architettura), con maria pilo di boyl collaboratori: rebecca gasco, ileana marchisio, cristina marietta, kevin ward crediti fotografici: beppe giardino
Michele Bonino e Subhash Mukerjee di studio MARC, autori con maat architettura di questa casa torinese, da qualche parte hanno scritto: “oggi non riusciamo a pensare all’architettura se non come ciò che unisce l’interno e il paesaggio, le persone e la città”. È in questa congiunzione di due ambiti fisici definiti – lo spazio privato dell’abitazione e lo spazio aperto della corte – che la villa urbana giustifica la sua ragione compositiva. Nell’articolazione di un inedito Raumplan, rivisitato in chiave del tutto originale dilatandolo esternamente al cortile retrostante, il progetto si attua per mezzo di una sequenza diversificata di piani orizzontali multifunzionali: pavimenti e solai, ma anche gradini che diventano abitabili, precisano quelle “superfici della relazione” intese dai progettisti indispensabili per migliorare l’utilizzo dello spazio disponibile mediante lo sfalsamento dei livelli. Ricavata dall’adattamento di un ex laboratorio tessile disposto sul doppio livello del piano interrato e del piano terra sopraelevato dalla quota d’ingresso, l’abitazione si delinea per netti cambi di direzione, passaggi di quota, caratterizzando interamente l’impianto compositivo della casa e permettendone l’espansione dimensionale. In tal modo si evoca quell’idea di villa urbana, il cui nome è stato volutamente scelto dai progettisti per identificare anche in termini tipologici questo progetto di spazio domestico. Se l’esplicito ricorso ai dislivelli è stato il segno dominante già per altri lavori dello studio MARC – da Let it Flow, un appartamento nel cuore storico di Torino, al “Massimo Piano Orizzontale”, dove una stanza sollevata, il cui peso è smaterializzato dall’uso di una rete metallica bianca, libera totalmente lo spazio del loft residenziale stabilendo una relazione tra ambienti collocati ad altezze differenziate – è nell’occasione di far interferire la facciata con il sistema dei cambi di quota a rendere questa architettura un’evoluzione avanzata di precedenti esperienze, fissando l’esito ultimo e probabilmente definitivo di una ricerca compiuta con coerenza sul tema della superficie orizzontale, declinata a strumento di costruzione del vuoto. Argomentazione compositiva, che, grazie alle alternanze di quota controllate in sezione e a incastri volumetrici esibiti, converte le partizioni orizzontali, portanti e non, in superfici distinte, usate come piani d’appoggio, sedute sospese, sistemi di collegamento, marcando tale differenza con colori e materiali variabili dal legno, alla pietra, all’impiego di lamiere preforate. Non è immediato cogliere questo complesso procedimento progettuale limitandosi all’analisi dei disegni architettonici o guardando le fotografie della realizzazione. La casa necessita di essere percorsa, vissuta, osservata, muovendosi nelle molteplici direzioni consentite e, contemporaneamente, fermandosi per riflettere sui principi di scomposizione che hanno reso possibile questo invaso spaziale continuamente in mutazione. La pianta evidenzia le inerenze che intercorrono tra il cortile e l’interno dell’abitazione attraverso la specificazione di un centro compositivo. Esterno e interno sono soltanto apparentemente separati. La nuova facciata posteriore di progetto, ridotta come vedremo più avanti a semplice cortina indipendente ottenuta dallo
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Pianta, sezione, vedute di interni, schizzi di progetto.
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sfondamento del muro esistente, è un filtro sul quale si raccolgono in maniera serrata, fondendosi in uno spazio concentrato, gli ingressi, che in realtà sono le scale stesse, con i disimpegni e con alcuni locali di servizio come il blocco nero della cucina e la zona da pranzo. Questo centro di tensione si trasforma in luogo strategico, rispetto al quale disporre simmetricamente i due spazi rappresentativi dell’idea di interno e di esterno in una villa: il soggiorno e il giardino. Dal cortile, una prima rampa, speculare all’altra interna e tra loro divise dalla schermatura della facciata, preannuncia sin dall’ingresso l’importanza del movimento e del sistema di connessione tra i livelli differenziati della casa. Varcata la soglia, è ancora la scala, vero dispositivo architettonico del progetto, pensata come una stanza d’accoglienza, a condurre direttamente al piano interrato abitabile, svelando simultaneamente il soggiorno e la presenza discreta di altri ambienti privati, posti ad un livello superiore soppalcato. La compressione sviluppata dalla scala e dal diaframma della cucina tendono a nascondere, per proteggerlo, il piano “nobile”, ospitante il soggiorno e la zona notte, affacciati sulla strada e mascherati dietro la facciata principale conservata nel suo stato originale. Se la pianta chiarisce la distribuzione funzionale del progetto, senza spiegare completamente la dinamica degli spazi, è la sezione a risolvere i rapporti tra le diverse quote di livello. Le dimensioni contenute del fabbricato hanno implicato il recupero integrale del piano interrato. Questa costrizione viene accettata come tale e tramutata in punto nevralgico del progetto: un profondo scavo, risolto con una successione di piani contigui gradonati, raccorda il livello del passo carraio al livello inferiore della casa, determinando la continuità tra l’esterno e la mutevolezza cromatica degli ambienti interni. Il fronte posteriore segue la regola del piano come struttura verticale per governare le scelte di progetto: una quinta in metallo e vetro inframmezzata tra i muri è disancorata dai solai orizzontali, divenendo elemento autonomo. Valendosi di una griglia di telai per la disposizione delle finestre, il disegno della facciata mostra i tre nuovi livelli dell’abitazione tra loro intersecati come conseguenza delle regole compositive adottate, proiettandoli direttamente sul prospetto. Il significato di questa architettura, capace di ottimizzare spazi esigui senza farsi sopraffare da logiche di matrice esclusivamente distributiva, ribadisce l’esigenza della composizione architettonica come imprescindibile strumento di formulazione progettuale, concepita non per ottenere formalismi fini a se stessi o per giungere all’esasperata creazione di immagini rassicuranti. Al contrario: affidandosi a ordinamenti normativi, basati su un progetto considerato lavorando sulla pianta, la sezione e il prospetto, la villa urbana di studio MARC e maat architettura dimostra come la rinuncia all’invenzione linguistica sia la scelta più convincente per indicare il valore attuale dell’architettura.
franco purini
un architetto romano
lina malfona
architettura e rarefazione. il nuovo volto di maribor
Francesco Deli è un giovane architetto laureato a Roma nel 2004. Nella sua formazione è stato, più che molto importante, decisivo il rapporto con Laura Borroni, della quale è stato a lungo assistente, una docente in possesso di una rara qualità, quella di saper individuare nel singolo studente le capacità progettuali più personali e le intuizioni teoriche più originali e promettenti. La sua formazione, conclusa a livello di studi universitari con chi scrive, è avvenuta in un momento difficile della scuola romana di architettura. Il suo percorso scolastico si è svolto infatti in coincidenza con la divisione della storica Facoltà di Architettura di Roma in due Facoltà, Valle Giulia e Ludovico Quaroni. Questa divisione è terminata formalmente da un anno, ma le ragioni che nel 2000 portarono alla separazione sono ancora operanti. La Facoltà di Valle Giulia, rimasta generalista, sosteneva la centralità del progetto come fattore unificante dell’architettura, chiave di volta di una visione integrale dell’abitare. La Facoltà Ludovico Quaroni credeva invece negli specialismi, in un’ottica nella quale la specificità dell’architettura si attenuava progressivamente a causa di una sua crescente contaminazione con saperi extradisciplinari. Saperi sicuramente necessari, ma da non confondere con quelli propri dell’arte del costruire, né da sostituire ad apparati conoscitivi e creativi propri da sempre dell’architettura. Francesco Deli ha attraversato questa crisi con una istintiva sapienza, prima cercando nel suo lavoro da studente, e poi nella sua attività di architetto, di superarla. Egli si è costruito per questo un linguaggio solido, ispirato al razionalismo italiano degli anni Trenta del Novecento, ma messo anche alla prova delle ricerche più recenti. Un linguaggio nel quale una raffinata monumentalità si associa a una decisiva sensibilità per i valori del contesto. Dotato anche di una coinvolgente attitudine all’arte figurativa, documentata dai suoi esperimenti pittorici, un’attitudine caratterizzata da una coinvolgente intensità compositiva e cromatica, egli ha già raggiunto un ottimo controllo della forma, nel quale è possibile vedere le linee di un lavoro futuro sempre più consapevole e complesso.
Nel 2010 lo studio di architettura Deli-Sabatini vince il concorso di progettazione EPK-Drava River 2012 per la riqualificazione del waterfront di Maribor, in Slovenia, attualmente in via di realizzazione. Dal momento che la città, sospesa tra centro antico e recente volontà di espansione, ha perso il contatto immediato degli edifici con l’acqua, l’intervento di Francesco Deli e Francesco Sabatini ne ridisegna il suo fronte sul fiume. Si tratta di un progetto di paesaggio, un paesaggio disteso, silenzioso, riparato, sicuro, tanto distante dai così frequenti luoghi performativi, quanto vicino a esperienze progettuali in cui il senso di rarefazione spaziale si accompagna a un interesse per la riconnessione di stanze urbane differenti. Stanze costruite come una serie di recinti fisici e virtuali che possiedono un carattere fortemente teatrale. Tale progetto dimostra che la costruzione del paesaggio non implica la zeviana decostruzione dell’architettura, né il suo proscioglimento nella natura, né il suo abbassamento di tono. Molte città infatti vengono ridefinite nei loro margini da interventi paesistici che hanno la qualità di vere e proprie opere d’arte, fatte di segni naturali e artificiali, dove l’architettura si integra alla natura. Il paesaggio infatti, analogamente all’organismo urbano e a quello architettonico, è da intendersi anch’esso come una scrittura. La nota di valore del progetto si può riscontrare nella costruzione di paesaggi che si dispiegano in un’architettura volutamente incorporea, poiché perde densità lasciando emergere il valore della preesistenza. Rarefatta seppur presente e incisiva e misurata, essa permette di cogliere il valore delle piccole cose, si compone di ambiti discreti, racchiude spazi misurati, accoglie, protegge. Un’architettura in cui l’uomo riscopre i valori dello stare, dunque il senso vero della libertà. E ancora, il progetto propone un paesaggio che narra di spazi soffusi, di atmosfere pacate, di soglie temporali, dove la memoria del centro storico diviene topos del progetto in una sequenza quasi filmica di immagini nuove e antiche. L’intervento si compone di piccoli episodi scanditi dalla presenza di ingenti segni del passato: il ponte, la diga, il centro medievale. Sulla sponda di Lent una lastra incisa – più compatta verso il fiume, più frastagliata verso la città – canalizza i flussi ciclo-pedonali e scandisce accadimenti spaziali, divenendo percorso aggettante, belvedere continuo e piastra basamentale.
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francesco taormina
il tempo dell’architettura, quello dell’uomo. un libro, un incontro, un altro libro
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recensione a John Soane, Per una storia della mia casa, Sellerio, Palermo 2010 («La nuova diagonale» 82). Vieri Quilici, La vita delle opere. Una riflessione e vari pretesti sulla durata in architettura, Palombi Editori, Roma 2011.
Il trascorrere del tempo è, nell’architettura, una condizione della sua interpretazione specifica e non solo l’ineluttabile ragione che spinge qualsiasi manufatto a risolversi prima o poi in rovina, in rudere o maceria che sia, secondo le correnti e distinte attribuzioni di significato che queste parole portano con sé: come mantenimento della memoria, sua perdita o traumatico sconvolgimento. Ciò dipende, certo, nella concezione del progetto che ha il Moderno, da una consapevolezza del passato vissuta come variabile distanza critica, capace di una autonomia di significati offerti alla continua rivisitazione e innovazione della tradizione disciplinare, sollecitati da una pratica del fare che, senza esigenze pregiudiziali, può mettere alla prova la specificità delle proprie strumentazioni al mutare delle occasioni e del confronto con la realtà dei luoghi. La storia stessa non ammette una comprensione lineare del suo svolgimento, essa non determina più un’idea epistemologicamente unitaria della composizione d’architettura: il progetto può agire anche per disvelamenti rapsodici dei propri riferimenti, non sempre conseguenti e neppure necessariamente spiegabili nella loro identità. Questa relativizzazione della storia rende accettabili, per chi progetta, perfino i casi di incerta collocazione temporale perché deprivati del loro originario significato e, più ancora, permette simultaneità di confronto tra oggetti non comparabili se non attraverso una nuova attribuzione di senso: è ciò che dimostra Le Corbusier accostando, in una stessa pagina di Vers une Architecture, il Partenone a un’automobile sportiva (dell’epoca, inizio anni Venti del secolo scorso), nel presupposto che due manufatti così evidentemente diversi nella figura e nella finalità, con tempi di vita diversamente programmati, siano egualmente corrispondenti allo stesso meccanismo dell’ideazione. Le Corbusier sposta l’attenzione dalle forme in quanto tali alle loro relazioni ideali, in particolare ai procedimenti che le forme stesse possono sottendere come motivo della loro necessità per il progetto attuale, che così è spinto a riflettere sulla propria genesi, a sottoporsi a una sorta di decostruzione e ricostruzione del proprio farsi come aspetto imprescindibile della specificità della sua tecnica. Non si tratta, come parrebbe a prima vista, di una sorta di velleitaria autostoricizzazione del progetto stesso, di un espediente per affermarne la legittimità della appartenenza all’epoca, ma della sua concreta e naturale partecipazione al variare della costruzione nel tempo a partire dalla sua concezione, dalla posa della prima pietra fino al completamento e anche oltre, nel migliore dei casi, assecondandone indirettamente la futura e imprevedibile evoluzione. Si può e forse si deve ragionare su questi aspetti in vario modo, poiché ritengo che un unico indirizzo di pensiero non solo non possa essere esaustivo della complessità dei temi sollecitati dal confronto tra il progetto di architettura e la vita delle opere, ma tenderebbe a ridurne le possibilità di interazione, contraddicendo gli assunti propri del Moderno, negandone di fatto le prospettive ideali e pratiche. Per questo, ho scelto di presentare esperienze diverse, egualmente accomunate dalla riflessione sul tempo dell’architettura: due libri, pubblicati di recente, e un incontro pubblico avvenuto tra le uscite dell’uno e dell’altro, rispettandone la casualità della sequenza. Tuttavia, mentre per i libri è ammissibile proporne la recensione, l’attiva partecipazione all’incontro non mi consente altro che di offrirlo nell’immediatezza della sua parziale trascrizione, scontando la difformità tra il linguaggio parlato che ne è l’espressione e la scrittura riflessiva sui testi. Il primo dei libri, meglio sarebbe dire il Primo abbozzo (più esattamente la “brutta copia”) di Una storia della mia casa a L[incoln’s] I[nn] Fields, è stato redatto da John Soane in poco meno di un mese nel 1812, ma edito in inglese solo nel 1999. La versione a cui faccio riferimento, di un anno successiva, è quella italiana: curata nell’aspetto, essa riporta l’intero testo nella sua non facile articolazione e contributi di studiosi corredati da un pertinente repertorio di immagini. L’indirizzo critico e figurativo non è tuttavia ascrivibile a una valutazione architettonica in senso stretto; tra le illustrazioni mancano, ad esempio, i disegni di base che chiariscano l’intervento descritto, soprattutto le piante, a completare i pregevoli acquarelli prospettici delle facciate e di un paio di interni (uno di questi ultimi è quello famoso della cupola riferito alla parte della casa destinata a museo, fatto da Joseph Michael Gandy nel 1811, e quindi preesistente alla stesura del Primo abbozzo). È probabile che la ritardata divulgazione del testo, di quasi un paio di secoli, sia in parte da addebitare alle difficoltà e alla incompiutezza del manoscritto, compilato su tre colonne distinte in modo da risultare leggibile
Alberto Burri, Cretto sui ruderi di Gibellina, 1973.
in verticale e in orizzontale per intrecciare idee e fatti personali, note e indicazioni volte a successivi approfondimenti; questa manifesta originalità letteraria, strumentalmente efficace per stendere degli appunti cui dare poi profilo compiuto, corrisponde molto bene alla complessità descrittiva di una realizzazione in corso, che vede il Soane progettista occulto partecipe, osservatore di se stesso e della sua opera nelle vesti di un ignoto Antiquary, nel senso settecentesco e tutto britannico del termine: appassionato d’arte e collezionista, archeologo. La casa che Soane abiterà è infatti in profonda ristrutturazione con l’aggiunta di una unità edilizia a quelle esistenti, e la sua immagine è, al momento, quella incerta trasmessa dal lavoro di cantiere, ma non sono i materiali accatastati a proiettarla in una visione altra, a farne l’anticipazione del reperto archeologico che si presuppone possa diventare; l’alterazione temporale che traduce la casa in rovina, presentandola come un ritrovamento di cui indagare l’origine, è ciò che serve a stabilizzarne il significato poiché introduce alla struttura della sua composizione, ben oltre gli aspetti autobiografici che il testo presenta: le ipotesi sulla datazione, gli usi cui l’edificio era destinato, chi ne fosse l’eventuale abitante, costituiscono frammenti utili alla decodificazione di spazi tutt’altro che unitari, nei fatti risultato di demolizioni, riedificazioni, ingrandimenti e rimaneggiamenti che si protraggono, dal primo acquisto del 1792 e ancora oltre la tappa fissata con il Primo abbozzo, fino alla morte del proprietario, nel 1837. Di questi spazi molto si è detto sulla loro precorritrice peculiarità di museo moderno, sul loro proporsi come luoghi didattici (parte della casa, quella comprendente la veduta di Gandy, è aperta agli studenti della Royal Academy, dove Soane insegnava tra non pochi contrasti accademici) nei quali era possibile studiare una collezione antiquaria, comunque “in stile” e coincidente con l’arredo dell’abitazione; in realtà, come nella scrittura del testo, gli ambienti ammettono sequenze contemplative discontinue, possono essere esplorati e percorsi solo attraverso la moltiplicazione e la sorprendente imprevedibilità degli artifici che ne costituiscono le variabili soluzioni di continuità: camere dentro camere, dissoluzione delle pareti, contrasti di buio e luce, di espansione e contrazione. Imputare dunque la casa alla rappresentazione di una rovina, non è solo un colto capriccio letterario, come i commenti all’edizione italiana tenderebbero a privilegiare (“autobiografia in forma di casa e, viceversa, una casa in forma di autobiografia”, recita non casualmente il risvolto di copertina del libro) ma dipende dalla necessità di spiegare – e spiegarsi – le ragioni più interne del progetto, le cui parti sono l’effetto di adattamenti successivi e, come il progetto stesso, in permanente evoluzione per ragioni varie, persino dettate dai vincoli edilizi. L’archeologia della casa resta così, alla fine, il riflesso del suo costruirsi: e questo perché, nella scrittura, il rimando all’illusoria memoria di un passato presumibile dalla conoscenza dell’antico, traslazione ideale di un preciso momento dell’ideazione, ne rende possibile l’intelligibilità razionale e poetica del controllo, ne mette allo scoperto il procedimento costitutivo sul piano delle relazioni tra le parti, tra gli elementi dell’architettura. Con il Primo abbozzo Soane intende riconoscere quali tra questi siano infatti veramente trasmissibili oltre i principi rigidi dell’esecuzione, quali superino il setaccio della concreta immediatezza dei bisogni (sopravanzando la semplice adesione alle affini teorie del Laugier, di cui egli traduce pure il trattato), ma a partire dalle necessità degli uni e dell’altra, dall’interno di un procedere specifico che si fa, esso stesso e forse per la prima volta, coscientemente intrinseco al trascorrere del tempo, prima ancora del compiersi della costruzione e del suo destino. Anzi, se possibile, e come per assecondare un paradosso, avviandone le sorti. Non è la medesima consapevolezza che spinge Auguste Perret, maestro riconosciuto di Le Corbusier, ad affermare nel secolo appena trascorso che “una buona architettura produce belle rovine”? Una frase utilizzata poi da altri, da tutti quegli architetti, a cominciare da Louis Kahn, dotati di una solida formazione accademica – sostengo in apertura al dibattito (agosto del 2010) tra Ludovico Corrao e Arata Isozaki a Gibellina, che da qui riporto 1 a stralci . FT: Soane, Perret [...] dichiarano, seppure in modo diverso, un principio di identità tra costruzione e rovina che risolve la prima nella seconda [...]. Che la costruzione nasca invece dalla rovina, dal dramma della sua materia, è quanto si sono costretti a pensare e a praticare Isozaki e Corrao. Essi ritengono, gioco forza, che la rovina sia l’atto fondativo del costruire, non
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finito di stampare nel mese di ottobre 2012 per conto della casa editrice il poligrafo srl presso la THONO di Chirignago (Venezia)