diritto veneziano
Ivone Cacciavillani
IL DIRITTO DI VENEZIA
ilpoligrafo
diritto veneziano
collana diretta da Ivone Cacciavillani
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Ivone Cacciavillani
Il diritto di venezia Genesi e principi prefazione di Manlio Miele
ilpoligrafo
Comitato scientifico Ivone Cacciavillani, Foro di Venezia Claudio Carcereri de Prati, Università di Padova Giuseppe de Vergottini, Università di Bologna Renzo Fogliata, Foro di Venezia Davide Rossi, Università di Trieste
progetto grafico Il Poligrafo casa editrice Laura Rigon copyright © novembre 2015 Il Poligrafo casa editrice 35121 Padova - via Cassan, 34 (piazza Eremitani) tel. 049 8360887 - fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it isbn 978-88-7115-918-8
INDICE
9 Prefazione Manlio Miele 15 Introduzione 18 Il diritto 19 Il diritto veneziano
21 I. Prima 21 Le vicende insulari Limiti e controlli 23 24 Il sistema elettorale 24 Le vicende “esterne� 26 Il Barbarossa
29 II. il duecento 29 Il rinnovamento culturale nel diritto 32 Il Duecento veneziano La pace di Venezia e i primi concili 32 35 La IV crociata 35 Il Concilio Lateranense IV
39 III. la statutazione 40 La legislazione tiepolesca 43 Il Liber Promissionis Maleficii 46 Gli Statuta
Appendice 51 I Prologhi 52 Il Prologo Ziani 52 I tre Prologhi del Tiepolo Prologo primo 53 55 Prologo secondo 58 Prologo terzo 59 Le Correzioni
63 IV. Dagli Statuta alla (prima) serrata 64 Dal “non-Comune” alla Repubblica 66 La vicenda 70 Un consuntivo 72 La valutazione degli storici
75 V. il secolo di mezzo. Dal gritti al Sarpi 75 Andrea Gritti La (mancata) renovatio legislativa 76 78 Il riassetto dei Domini 80 Un “federalismo” esasperato 83 Fra Paolo Sarpi L’interdetto del 1606 83 86 Il consultore Sarpi
89 VI. Il diritto del mare 89 La codificazione 90 Il servizio di galea Il reclutamento coatto 92 94 La condanna al remo 96 Gli equipaggi 97 Un intervento “sociale” d’avanguardia: la nascita del credito cooperativo La “Cassa peota” 98 99 La valutazione 101 VII. Il declino. La (seconda) serrata cittadinesca 101 La “Serrata cittadinesca” Il maturare della Seconda Serrata 102 103 La vendita dei carichi burocratici della Dominante
106 L’infeudazione delle giurisdizioni comitali 108 Le sillogi di materia 109 I nuovi controlli La Quarantia (al Criminal) 109 112 Le nuove funzioni nella Seconda Serrata 112 Gli Avogadori di Comun e la giustizia erariale 113 La “giustizia erariale” 115 Le “Scuole Grande” 116 Il declino 118 I principi-guida La coerenza legislativa 118 119 L’elettoralità 120 La collegialità 121 La cetizzazione e la gemmazione intercetuale 122 L’autonomia normativa categoriale 125 VIII. Dopo e fino AD oggi 125 Il tremendo zorno 126 Quel che n’è rimasto 127 I principi viventi 129 Commiato
iL diritto di venezia
Introduzione
È convenzione consolidata ritenere diritto veneziano l’ordinamento vigente nel momento del massimo splendore della Serenissima, identificato, per convenzione ancora universale, con la vittoria di Lepanto (1571). L’indagine si ripromette di narrare come si sia giunti a quell’acme, al che non ci si può accingere senza prendere l’abbrivio – se anche insegnamento ed esempio restano tutti da verificare – dall’affermazione del più grande giurista veneto dell’età contemporanea, Vincenzo Manzini, che, trattando del processo veneto nel suo monumentale Trattato di diritto processuale penale, premise la precisazione che poiché la Repubblica Veneta fu l’unico Stato italiano che, dall’origine, per quattordici secoli, ebbe la forza e la sapienza di conservare costantemente la sua gloriosissima indipendenza sino alla invasione napoleonica, e poiché il diritto romano e il diritto romano-barbarico non ebbero sul diritto veneto quella influenza che esercitarono negli altri Stati d’Italia, così riteniamo necessari alcuni cenni sul processo veneto, o meglio veneziano, quale venne fissandosi nel sec. XVI, attraverso sì lungo periodo d’esperienza e d’elaborazione.
Parlare di “nascita del diritto”, di primo acchito, potrebbe anche apparire un non-senso; e invero, se per diritto s’intende l’insieme delle regole di vita d’una societas, un insieme di individui variamente aggregati, non si può certo parlare di “nascita del diritto”, perché ogni aggregazione nasce mercé e attraverso regole che costituiscono il presupposto stesso della sua esistenza. Ma è il termine diritto V. Manzini, Trattato di diritto processuale penale italiano secondo il nuovo Codice, 4 voll., Torino, UTET, 1931, I, pp. 55-66.
introduzione
ad essere multi-senso; qui lo s’intende come l’insieme delle regole – definite “leggi”, data la loro vincolatività in assoluto – di un’aggregazione politica, sinonimo di ordinamento statale. Ma è il rapporto tra diritto e ordinamento che va precisato. Nell’accezione più lata il diritto viene inteso come lo “statuto dell’Uomo”, quella lex in cordibus conscripta di cui discettava Sant’Agostino e da cui nacque il giusnaturalismo, contestato nei secoli passati dalla contrapposta teoria del positivismo giuridico, che considera diritto solo la norma – quale che ne sia il contenuto – emanata dall’autorità costituita. Sono in realtà due concetti diversi e non contrapposti: l’ordinamento-insieme delle norme può contenere disposizioni contrastanti col diritto-“statuto dell’Uomo”. Compito della storia del diritto è descrivere il cammino – talvolta lento e accidentato – dell’adeguamento dell’ordinamento al diritto. Restringendo, per ragioni di organicità, la nozione di diritto all’ordinamento dello Stato, quando si prenda in esame l’ordinamento della Serenissima Repubblica di Venezia, sorge il problema del quando fissare le date di riferimento della maturazione delle sue tappe più significative e dei suoi principi ispiratori più qualificanti; il problema di stabilire un “prima” e un “dopo” per evidenziarne analogie e differenze e descriverne l’evoluzione. Problema particolarmente arduo per il millennio e oltre di vita della Repubblica di Venezia, sorta “per caso” ad opera dei fuggiaschi davanti alle orde di Attila rifugiatisi su isolotti semideserti, facendone una città diventata uno dei più importanti stati della penisola in secoli di supremazia commerciale e politica. Per le ragioni che emergeranno dall’esposizione, si ha ragione di ritenere che l’epoca della nascita di quello che sarebbe stato l’ordinamento della Repubblica Serenissima debba andar collocata in quella complessa vicenda storica che va sotto il nome di Serrata del Maggior Consiglio, svoltasi tra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento, che peraltro, per le vicende che si vanno ad esporre, conobbe, attraverso le vicissitudini dei sette secoli successivi, una radicale revisione – passata a sua volta attraverso una lenta evoluzione dell’assetto in atto – che, in coerenza con quanto ci si accinge a illustrare, si chiamerà Seconda Serrata, definita “della Cittadinanza” per distinguerla dalla prima, che, in aderenza alla consolidata tradizione storica, continua ad esser indicata come “del Maggior Consiglio”. È attraverso tali vicissitudini che si giunge al tremendo zorno del
introduzione
dodeze, quel 12 maggio 1797 in cui Venezia Serenissima, per voto in Maggior Consiglio, decise di scomparire dalla storia. Ma a proposito di uso dei termini “di materia” nel campo giuridico-istituzionale qui esaminato, appare opportuna un’altra precisazione preliminare sul significato di costituzione, spesso a sua volta intesa in varie guise: sia – e in senso proprio – come la norma base (Grundnorm) di uno Stato sovrano (in questo senso il termine viene usato nel mio Il Primo costituzionalismo europeo del 2005), sia come sinonimo di ordinamento, il complesso delle norme che regolano la vita di un soggetto politico (sia nazionale, uno Stato, che sub-statale – un ente dotato di più o meno ampia autonomia –, che sovranazionale); in questo secondo senso l’intende il più accreditato studioso della costituzione veneziana, il Maranini, nella sua opera fondamentale sulla costituzione di Venezia sulla quale ripetutamente si tornerà; fermo il suo rilievo d’apertura che: credo che occorra studiare gli ordinamenti pubblici non come morte formule astratte, ma come viventi realtà, risalendo alle radici della loro ragione di essere, accompagnando e illuminando l’analisi giuridica con l’indagine sociale, economica, psicologica, ricercando e definendo i rapporti profondi che intercedono fra tutte le manifestazioni della vita di un popolo e le forme della sua vita pubblica, in cui inevitabilmente ogni popolo riflette l’essenza più intima del suo credo morale e della sua costituzione economica.
Certo è che in quello straordinario fenomeno storico che fu la Serenissima Repubblica di Venezia, frutto di un assetto ordinamentale sviluppatosi per evoluzione continua e ininterrotta senz’alcun rivolgimento violento, occorre, per un minimo di organicità espositiva, porsi dei limiti storici, per quanto approssimativi, da cui far partire il cammino per il raggiungimento dell’età matura e indi del declino; il che, per una convinzione squisitamente soggettiva, viene posto alla fine dell’avventuroso Duecento.
Descrizione della vicenda nel mio Venezia e Veneto al tremendo zorno, in corso di
stampa. G. Maranini, La costituzione di Venezia dalle origini alla Serrata del Maggior Consiglio, Venezia, La Nuova Italia, p. 10 della prefazione.
IV. Dagli Statuta alla (prima) Serrata
La seconda metà dell’avventuroso Duecento è meno agitata della prima; la sua storiografia è dominata da un gigante del costituzionalismo italiano, Giuseppe Maranini, con i suoi due monumentali saggi La Costituzione di Venezia dalle origini alla Serrata dal Maggior Consiglio, del 1927, e La costituzione di Venezia dopo la Serrata del Maggior Consiglio del 1931. Con una premessa d’impostazione, relativa alle evidenti e dichiarate sue simpatie per il regime politico del Ventennio, che ispirano la pur serrata analisi delle vicende storiche; simpatie che traspaiono da certe pungenti note a piè di pagina (una per tutte, la nota 1 di p. 169, in cui, commentando le tre parole del motto della Rivoluzione francese, osserva: «ma quanto male intese! Della libertà, equilibrio reciproco e guarentigia delle facoltà individuali, si fece licenza; della eguaglianza giuridica, una impossibile e assurda eguaglianza sociale; della fraternità, la sciatta e vacua ampollosità demagogica») e ancor più chiaramente dalle opere successive; basti ricordare che il magistrale saggio Classe e Stato nella Rivoluzione Francese, edito nel 1935 dalla Regia Università degli Studi di Perugia, viene solennemente dedicato «A Benito Mussolini con fede nel presente e nell’avvenire». Da tutta l’opera traspare il culto dell’autorità e della nobiltà; è l’angolo visuale sotto il quale gli eventi narrati vengono colti e con simpatia valutati.
Editi da La Nuova Italia, Venezia e poi Perugia e Firenze.
capitolo quarto
dal “non-comune” alla repubblica Continuando il parallelo tra il “dentro” e il “fuori” dell’ambito isolano, la Venezia insulare, che si andava assestando nella forma urbis che sarebbe poi rimasta stabile nei secoli, e il “resto del mondo” (ben si sa la tenace insularità dei veneziani, espressa con molta efficacia nel detto che Venezia, dopo secoli di vicissitudini, costruì il ponte translagunare perché l’Europa si sentisse meno sola), è sulla seconda metà del Duecento che occorre fissare l’attenzione per capire come sia successa (o sia potuta succedere) la Serrata del Maggior Consiglio. Il che si può fare seguendo l’analisi dell’evoluzione generale maturata in quel torno di secolo; dove, a far da guida, per il dentro non può che essere il citato Maranini, per il fuori – sempre e solo nell’ambito italiano, per quanto l’espressione potesse allora avere un significato – si segue lo storico tedesco W. Goetz, forse il più affidabile perché, appunto, la vede “da fuori”. Fuori il mezzo secolo è dominato, nell’area “padana”, dall’affermarsi dei Comuni nel modulo tradizionalmente inteso di entità territoriale “sovrana” nell’accezione comune di superiorem non recognoscens. Per Venezia fu l’avvio delle avventure militari e dei primi scontri con la rivale di sempre, Genova, che avrebbero trovato epilogo giusto un secolo dopo: un cammino assai lento e spesso travagliato. Prendendola da lontano, il secondo degli autori citati rileva che l’epoca della signoria vescovile o comitale fino al secolo XI non fu nel complesso sfavorevole alle città, né di ostacolo al loro sviluppo. Rappresentò il momento del primo raccogliersi delle loro nuove forze, un’epoca di pace dopo le incursioni degli Ungari e dei Saraceni, una garanzia di sicurezza con la ricostruzione delle mura e la ricostituzione di un’amministrazione che metteva ordine nella vita cittadina. Nel corso di questo processo di sviluppo il ceto dirigente è costituito da una cerchia che può essere chiamata nobiltà cittadina. Il suo nucleo originario era composto dai discendenti dei funzionari longobardi e franchi, dai vassalli vescovili provenienti dalla piccola nobiltà, dai judices e notai statali; in genere dai giuristi presenti in numero cospicuo in tutte le città italiane. La differenziazione sociale all’interno della popolazione cittadina dev’essersi articolata assai presto.
Nella generalità dei Comuni, accanto al ceto dei nobiles si coagulò quello dei mercatores, sempre alla caccia di avanzamenti sociali W. Goetz, Le origini dei Comuni italiani, Milano, Per i tipi dell’Editore Dott. Antonino Giuffrè, 1965; le due citazioni sono tratte dalle pp. 57 e 105.
dagli statuta alla (prima) serrata
per entrare a loro volta nel ceto dei nobiles; all’ultimo gradino sociale i populares, da non confondersi con i pauperes, che erano tutt’altra cosa; fermo restando il rilievo che il confine tra inopia e viziosità restò sempre oscillante e incerto. Un elemento di frequente dissidio fu la tendenza all’inurbamento della nobiltà vassallatica del contado; quando lo stare nel castello avito sperso nella campagna non era più tanto appetito e comunque veniva largamente preferito l’abitare nel ricco palazzo entro le mura della città. Molti dei signori che nel secolo successivo (XIV) domineranno le città maggiori provenivano dalla nobiltà del contado, dagli Ezzelini e dai Carraresi a Padova agli Scaligeri a Verona. Ma sono tutti eventi, appunto, “di fuori”, a cui la Venezia insulare resta del tutto estranea o in cui si lascia coinvolgere assai marginalmente. Seguendo soltanto l’indice del più volte citato Cappelletti nel periodo considerato si vedono narrati: «imprese dei veneziani contro Ezzelino, tiranno di Padova, e contro Alberico, tiranno di Treviso» (1253-1256); «discordie dei Veneziani con i Genovesi» (1260); la «pace di Candia» (1261); «guerra tra Genovesi e veneziani, vittoria dei secondi» (1266); «guerra tra Bolognesi e Veneziani» (1272); «discordie tra veneziani e trevigiani» (1275); «guerra contro gli Anconetani» (1275); «insurrezione dell’Istria» (1276): «Tripoli difesa dai veneziani è presa dai turchi» (1289); «rotta de’ veneziani presso Curzola» (1292); «Marco Polo viaggiatore veneziano» (1297). Pur essendosi qualificata per secoli – prima di denominarsi ufficialmente Repubblica – Ducato o Commune Veneciarum, Venezia non fu mai un Comune nel senso né italiano né tantomeno europeo del termine storico. Nessun affrancamento da dominazioni straniere, mai subite. Fu per secoli un’appendice – all’origine del tutto insignificante – dell’impero Bizantino; poi con l’andar dei secoli quasi impercettibilmente se ne affrancò in via di mero fatto, attraverso la separatezza (separazione de jure) dalla “capitale” fino a trovarsi indipendente e sovrana. Sul piano politico la città isolana passò da Ducato a Repubblica senz’alcun intermezzo “comunale”. In comune con le altre città – e sostanzialmente per le stesse ragioni e con le stesse modalità – conobbe il fenomeno della cetizzazione della popolazione, resa più radicale per la relativa novità Analisi della cetizzazione legale nella Dominante nel mio L’altra Venezia. Impiego, impresa, lavoro nell’ordinamento della Serenissima, Noventa Padovana, Panda, 2011; più in generale Il “sociale” a Venezia. Interventi sociali nell’ordinamento della Serenissima, Noventa Padovana, Panda, 2013.
capitolo quarto
dell’aggregazione dei profughi delle città d’origine e per la già segnalata “naturale” loro spinta associativa. Il tutto acuito dall’assetto urbanistico assolutamente peculiare della città, che, come rilevava il celebre Editto di Egnazio del 1371 scolpito nella sala del Collegio delle Acque, divina disponente providentia aquis fundata, aquarum ambitu circumsepta, aquis pro muro munitur: una cinta muraria ben più efficace ed escludente di qualsiasi fortificazione di qualsiasi città di terraferma. Un isolazionismo che esaltava le posizioni dominanti, relegando nell’emarginazione i soggetti deboli, alla mercé dei “forti” e oggetto solo della – pur attenta e sedula – beneficenza sia privata che pubblica. Tutte premesse per uno sviluppo dell’organizzazione dei ceti, in cui la popolazione residente s’andava organizzando secondo un andamento comune a molte città, frutto del concorso di fattori i più vari, dallo sviluppo economico alla rinascita culturale, all’aumento dei traffici e, per Venezia, conseguenza del contatto “sovrano” con “mondi” e realtà diverse. Il gioco di questi fattori ebbe uno sviluppo diverso da quello delle altre realtà cittadine anche viciniori, condizionato dalla ristrettezza dell’ambito lagunare; del tutto autoctono nelle modalità di crescita, caratterizzata dalla gradualità dell’evoluzione, che, turbata dalla radicalizzazione dei contrasti tra i ceti legali, in una ventina d’anni attuò la radicale riforma del governo della città attraverso una serie continua di interventi d’assestamento, che nel complesso attuarono quel riassetto – sarebbe fuori luogo definirli “rivoluzione” – che doveva rivelarsi il più marcato e duraturo fattore di conservazione: la Serrata del Maggior (all’inizio Gran) Consiglio, che segna la trasformazione dell’antico Ducato nel più forte e stabile stato della Penisola: la Serenissima Repubblica di Venezia. la vicenda Proprio la gradualità dell’evoluzione rende impossibile la descrizione delle sue varie tappe. Più facile individuarne la data “di partenza”, anche se, nel fissarla, le tesi degli storici differiscono note Questo il testo integrale dell’Editto di Egnazio del 1371, già scolpito nella sala del Collegio delle Acque: «Venetorum urbs divina disponente providentia aquis fundata aquarum ambitu circumsepta, aquis pro muro munitur; quisquis igitur quoquo modo detrimentum publicis aquis inferre ausus fuerit, ut hostis patriae judicetur, nec minori plectatur poena quam qui sanctos muros patriae violasset; huius edicti jus ratum perpetuumque esto».
dagli statuta alla (prima) serrata
Capitolare delle elezioni del Serenissimo Maggior Consiglio
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VI. Il diritto del mare
Capitolo a sé – vero sistema autonomo e del tutto indipendente dall’ordinamento – forma il diritto del mare (“alla veneziana” s’avrebbe da qualificarlo diritto delle navi), del quale – dato l’alto tecnicismo che ne connota gran parte – non si può che far riferimento a singoli aspetti. È materia in cui Venezia fu antesignana nella codificazione delle regole del navigare – venezianissimi i grandi navigatori d’inizio millennio – ed è anche quella in cui, nella trattatistica moderna, il suo apporto viene maggiormente valorizzato nel sistema di materia: basti citare dalla sinossi generale di riferimento, Enciclopedia del diritto, la voce Nave (diritto intermedio) per verificare come i contributi veneziani alla disciplina “mondiale” abbiano largo spazio (del resto indubbiamente dovuto). la codificazione La norma assolutamente generale di riferimento – vero codice universale del mare – resta il Consolato del Mare – qui citato nell’edizione «in Venezia 1737, Colla spiegazione di Giuseppe Maria Casaregi, auditore della Rota Fiorentina e col Portolano del mare d’Alvise da Mosto, Nobile Veneziano» – con tutta la problematica sulla sua paternità e luogo d’origine. A voler dar credito alla premessa, le varie disposizioni contenutevi sarebbero così sorte: Roma, 1075; Acri, 1111; Majorca, 1112; Pisa, 1118; Marsilia, 1162; Almeria, 1174; Genova, 1186; Brandi, 1187; Rodi, 1190; Morea, 1200; Costantinopoli, 1215; Alama C.M. Moschetti, Nave (diritto intermedio), in Enciclopedia del diritto, a cura di G. Landi, F. Piga, XXVIII, Milano, Giuffrè, 1977, pp. 576-600.
capitolo sesto
nia, 1224; Messina, 1225; Parisi, 1250; Costantinopoli, 1262; Soria & Costantinopoli, 1270; Majorca, 1270. Nell’edizione veneziana manca ogni accenno alla copiosissima legislazione di Venezia, forse datavi per presupposto. In realtà talune isolate disposizioni sul “mondo del mare” sono presenti negli Statuta sia dello Ziani che del Tiepolo, senza peraltro alcuna sistematicità. La promulgazione d’uno “statuto del mare” veneziano segue nel 1255 (la data è incerta; alcune fonti indicano 1252) ad opera del doge Ranier Zeno (1253-1268), anche se la sua importanza sistematica è forse enfatizzata da un suo discendente, il grande storico del diritto marittimo Riniero Zeno (che scrive nel 1946), il quale afferma che «con lo Statuto del doge Zeno la legislazione marittima di Venezia raggiunge il suo massimo splendore». Versione ben contrastante con quanto afferma un altro autorevole storico è ben vero che nell’anno 1252, o secondo altri 1255, fu pubblicata la Compilazione di leggi nautiche dal Doge Reniero Zeno, ma è vero altresì che poco durò il vigore della medesima. In fatti non altro rimase in osservanza, da pochi articoli in fuori registrati nel VI libro de’ volgari Statuti giusta la promulgazione dell’anno 1343. Conciosiaché i Veneziani abbracciarono quel famoso libro conosciuto sotto il titolo di Consolato del mare.
il servizio di galea La signoria del mare era connessa alle fortune della flotta sia da guerra che commerciale, a sua volta legata alle braccia dei rematori, i galeotti, uomini di galera (senz’alcun riferimento, all’epoca, a trascorsi giudiziari). I galeotti erano l’unico propellente delle navi; la navigazione a vela non era ancora sufficientemente sviluppata e generalizzata. L’evoluzione della funzione segue inevitabilmente l’andamento delle vicende politiche della città, che a seguito delle dedizioni quattrocentesche è diventata la Dominante. Il Quattrocento segna l’enorme fioritura dello sviluppo economico conseguente alla formazione dei Domini, che, da un canto scopre nuove forme di lavoro in terraferma, meno gravose e aleato F.C. Lane, Le navi di Venezia fra i secoli XII e XVI, Torino, Einaudi, 1983, p. 91; dalla stessa fonte sono tratti i dati di seguito forniti senza diversa indicazione. Ab. D.C. Tentori spagnuolo, Saggio sulla storia civile, politica, ecclesiastica e sulla corografia e topografia degli Stati della Repubblica di Venezia, 12 voll., In Venezia, Appresso Giacomo Storti, 1785, IV, p. 89.
il diritto del mare
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capitolo sesto
rie; dall’altro lo sviluppo dei traffici aumenta la domanda di braccia da remo e quindi acuisce l’insufficienza dell’offerta. A queste cause economico-commerciali s’aggiunga l’aumento della stazza delle navi – aumento che avrebbe assunto ritmo enormemente accelerato con l’apertura delle rotte atlantiche – che richiedevano un numero sempre maggiore di vogatori. Le ciurme dei galeotti nelle navi da guerra erano prevalentemente formate da schiavi, prigionieri di guerra e condannati (anche se per tutto il Quattrocento la condanna al remo non era frequente); nelle navi commerciali erano imbarcati solo galeotti di buona volontà, ingaggiati per contratto, abbastanza ben pagati nel contesto d’epoca, quando il lavoro veniva remunerato col minimo vitale, non certo in ragione della sua redditività per il datore. Per Venezia, fino al secolo XIV, l’ingaggio di rematori “liberi” era stato abbastanza agevole, perché il trattamento salariale era conforme alle aspettative correnti. Nel quadro sopra accennato, connesso col generale progresso economico e con lo sviluppo delle possibilità di lavoro nelle Arti in terraferma, l’ingaggio si fece difficile e fu necessario ricorrere alla leva coattiva: «tutta una serie di prescrizioni obbligava ciascuna delle Arti della Città, ciascuna Città della Terraferma e ciascun possedimento in Levante a fornire dei contingenti di rematori». il reclutamento coatto A differenza di tutte le altre marinerie – cristiane comprese e, tra di esse, quella papale – Venezia, che sempre si vanterà di non avere mai usato, nella flotta commerciale, schiavi al remo, cercò di risolvere il problema imponendo la leva coatta come forma di fazione, l’imposta personale largamente diffusa nel sistema tributario medievale e non solo nell’ambito della Dominazione. Si trattò di una specie di tassa di remo istituita per sopperire alle impellenti necessità della marinarezza, imposta ad ogni Terra dei Domini. Il contingente posto a carico dei Vicariati delle Terre (per lo Stato da Mar le regole erano formalmente diverse, anche se del tutto simili) era detto caretada.
Lane, Le navi di Venezia, cit., p. 273. A. Zorzi, Una Città; una Repubblica; un Impero, Venezia 697-1797, Milano, Mondadori, 1980 (numerose edizioni successive), p. 220; G.B. Rubin de Cervin, La flotta di Venezia. Navi e barche della Serenissima, Milano, Automobilia, 1985.
il diritto del mare
La leva di Terra avveniva col sistema comune ad ogni prelievo fiscale: obbligata a fornire il numero di rematori assegnato era la Terra (l’attuale provincia), che lo ripartiva tra i Vicariati e questi tra le Ville – gli attuali comuni – che dovevano “reclutarli” sulla base di liste analoghe a quelle delle cernide, le milizie territoriali istituite – una vera leva obbligatoria del contado – dal doge Gritti nel 1529. Fin dal 1522 era stato stabilito che dalla terraferma dovessero essere inviati almeno 6.000 uomini, il cui carico (caretada) venne così ripartito: Padova doveva fornirne 800; Vicenza 700; Brescia e Salò 1.200; Verona 800; Crema 200; Bergamo 600; Udine 700; Treviso 800; Rovigo e il Polesine 200. Ma è sull’almeno che giocò l’amministrazione sia civile che giudiziaria, penale. Il sistema non risolvette certo il problema, se è vero che «le galere, partendo sempre più spesso da Venezia incomplete nei ranghi e persino semivuote, dovevano necessariamente ricorrere a disperati reclutamenti in Dalmazia, creando spaventosi vuoti nella popolazione maschile di quelle coste». I vogatori coscritti potevano essere adibiti alle galere sia militari che mercantili. Conosciamo i salari dei marinai mercantili soltanto per quanto riguarda le galere di mercato. Il salario minimo, quello dei rematori, era fissato per legge in 8 o 9 lire. Otto lire al mese, meno di 16 ducati all’anno, non erano un gran salario (un comune maestro d’ascia dell’Arsenale guadagnava circa 50 ducati all’anno), ma i benefici collaterali del marinaio imbarcato su una galera di mercato erano considerevoli. Arruolandosi otteneva il diritto di portare una certa quantità di mercanzia in viaggi che collegavano i migliori mercati del mondo nella massima sicurezza e senza pagare il trasporto. Sulle galere da guerra le condizioni di lavoro erano diverse. La paga base dei rematori era di 12 lire al mese. I benefici collaterali consistevano soprattutto in una parte dell’eventuale bottino.
Gli addetti stabili alla navigazione nella flotta commerciale – una settantina di navi battenti bandiera veneziana, di diversa stazza e tonnelSulle cernide in genere rinvio al mio La milizia territoriale della Serenissima, Padova, Signum, 2002, della mia citata collana “Civiltà Veneta”; sull’intervento istituzionale del Gritti del pari rinvio al mio citato Lo Stato da Terra della Serenissima, al cap. VIII, “La milizia territoriale e la leva da remo”, pp. 173 ss. Lane, Le navi di Venezia, cit., p. 273; riesce praticamente impossibile stabilire il valore monetario attuale della mercede così indicata; per qualche parametro di valutazione si può ricordare lo stipendio di 300 lire pagato al medico pubblico di Capodistria e di 100 ducati (1 ducato = 12 lire) per quello di Chioggia; dati esposti e analizzati nel mio La sanità pubblica nell’ordinamento veneziano, Venezia, ARPAV, 2010; riferimenti in V. Padovan, Le monete dei Veneziani, Venezia, Tip. del Commercio di M. Visentini, 1881, p. 173.
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ISBN 978-88-7115-918-8