John Hejduk. Profezie figurative, Il Poligrafo

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fabian carlos giusta john hejduk. profezie figurative

connessioni



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strumenti di analisi e riflessione 03



fabian carlos giusta john hejduk profezie figurative il progetto per Cannaregio ovest Venezia 1978

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progetto grafico Il Poligrafo casa editrice Laura Rigon ­ copyright febbraio 2013 © Il Poligrafo casa editrice 35121 Padova piazza Eremitani – via Cassan, 34 tel. 049 8360887 – fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it ISBN 978-88-7115-817-4


indice

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Premessa

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Introduzione Il gesto compositivo e l’“alba” del pensiero formativo

john hejduk. profezie figurative

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Il progetto per San Giobbe, Cannaregio, Venezia 1978

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L’ambito compositivo. La “nascita” di un archetipo: Wall House 3 e il Cimitero delle Ceneri del Pensiero

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Teatralità urbana e una nuova macchina per abitare: La Casa di Colui che rifiutò di partecipare

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Lo sguardo della “maschera”

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L’abitare e il suo “cosmo”: Le tredici Torri di Guardia di Cannaregio

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Verso una grammatica delle forme elementari: La Waiting House

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Tempo del “cosmo” e tempo della “grammatica”

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Solidarietà delle epifanie compositive. Una sintesi operativa

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La dimensione concettuale del gesto compositivo

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L’espressione soggettiva e il fare formativo

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Apparato iconografico

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Bibliografia

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Nota biografica di John Hejduk

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Indice dei nomi

Conclusioni provvisorie



john hejduk profezie figurative


Ahimé, che cosa siete mai voi, miei pensieri scritti e dipinti! Or non è molto eravate ancora così versicolori, giovani e maliziosi, così colmi di spine e di droghe segrete, che mi facevate starnutire ridere – e ora? Avete già messo a nudo la vostra novità, e alcuni di voi sono pronti, lo temo, a divenire tante verità: hanno già un’aria così immortale, così onesta da spezzare il cuore, così noiosa! Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male, 1991


premessa

La presente analisi dell’opera di John Hejduk corrisponde alla prima parte di uno studio che ebbe inizio all’interno del Dottorato di Ricerca in Composizione Architettonica presso l’Università Iuav di Venezia, anni 2004-2006, dal titolo: Il progetto e l’attesa. Il gesto compositivo e la teoria nei progetti di John Hejduk, Peter Eisenman, Rafael Moneo. Oggetto della ricerca è l’evidenza di una dimensione teorica implicita nel fare architettonico attraverso la corrispondenza tra gesto compositivo, materializzazione concettuale del progetto e poetica del linguaggio architettonico. Hejduk, Eisenman e Moneo rappresentano tre condizioni di pensiero e di linguaggio distanti tra di loro, ma convergenti verso un punto: evitare il definitivo spostamento della disciplina nell’ambito del “privato”. I tre architetti ricollocano infatti i temi teorici e compositivi, che il progetto architettonico rischiava di smarrire nel suo inesorabile processo verso una architettura come “fatto privato”, all’interno di una nuova autorità del progetto. All’interno di questa nuova visione i parametri di controllo del progetto (la teoria e i concetti che ne fondano e caratterizzano i contenuti) acquistano un carattere diverso; non sono esterni o interni alla disciplina, non sono neppure “momenti” dello stesso processo progettuale ma ne presuppongono un duplice aspetto: i gesti compositivi e i processi progettuali sottendono un “programma” teorico pur essendo a loro volta “produttori” di principi e in ultima istanza di teoria. In questo senso la teoria non è qualcosa che si trova al di fuori del progetto, non è estranea alle maglie dei suoi processi formativi: teoria e progetto sono tutt’uno all’interno dell’invenzione architettonica. Questo primo volume riferito alle architetture “veneziane” di John Hejduk costituisce un tentativo di riportare al centro del dibattito odierno sul progetto e la forma architettonica la necessaria ricostruzione di un sapere teorico disciplinare, capace di tenere insieme – e all’interno di un unico sguardo formativo – la complessità formale e significativa della città contemporanea.


premessa

In quest’ottica bisognerebbe ricordare, a chi volesse oggi ridare la “parola” all’architettura in quanto istituzione, che il tempo dei discorsi “inclusivi” si è frantumato nei mille volti della libertà del soggetto contemporaneo e che ripercorrere i momenti fondativi della forma architettonica attraverso un lavoro analitico-interpretativo significa anzitutto riposizionare il fare progettuale al centro della disciplina architettonica. La composizione e il progetto architettonico diventano così, ancora una volta, il centro di una possibile “rifondazione” teorica e metodologica dell’architettura in quanto istituzione e della forma architettonica in quanto sintesi del “vivere” urbano.

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introduzione

il gesto compositivo e l’“alba” del pensiero formativo

1. Parlare oggi di Teoria dell’Architettura significa ripercorrere sentieri interni all’ambito della composizione e progettazione architettonica. Significa avviare un’indagine sugli ambiti concettuali dell’architettura, sui fondamenti e sui principi dei procedimenti progettuali, dei gesti compositivi, dei processi formativi e dei temi che ne caratterizzano lo sviluppo; significa quindi fare ritorno alla “realtà” dell’invenzione architettonica. 2. La riflessione sul necessario ritorno alla “realtà” dell’invenzione architettonica ha le sue radici nella frammentazione e nell’isolamento diffuso e generalizzato di tutte le “tecniche” artistiche, da cui deriva l’indubbia complessità nel definire gli strumenti, le procedure, le traiettorie e gli orizzonti comuni all’interno della disciplina architettonica. Nel mondo della frammentazione compiuta, appare difficile stabilire uno sfondo comune o un fondamento stabile che garantisca le procedure e  Teoria della progettazione architettonica, a cura di Giuseppe Samonà, Edizione Dedalo, Bari 1968. In particolare l’introduzione di Giuseppe Samonà, pp. 7-10 e il saggio di Manfredo Tafuri, Le strutture del linguaggio nella storia dell’architettura moderna, pp. 11-30.  La cultura moderna, attraverso alcune figure di intellettuali, artisti e architetti, ha fatto del frammento oggetto di profonde riflessioni sulla totalità della società, della storia, della città e dell’architettura. In relazione a questo tipo di analisi in ambiti vicini o specificamente architettonici si veda: Manfredo Tafuri, Il frammento, la “figura”, il gioco. Carlo Scarpa e la cultura architettonica italiana, in Carlo Scarpa, opera completa, a cura di Francesco Dal Co e Giuseppe Mazzariol, Electa, Milano 1984, pp. 72-95; Maurice Blanchot, L’infinito intrattenimento, Einaudi, Torino 1976 (“Così il poema frammentario è un poema non incompiuto ma che apre un altro ‘modo di compimento’: quel modo che è in gioco nell’attesa, nell’interrogare o in un’affermazione irriducibile all’unità”, p. 410). Il frammento apre dunque ad un nuovo modo di compimento; Franco Rella, Immagini e figure del pensiero, in Rappresentazioni, a cura di Giorgio Ciucci e Massimo Scolari, “Rivista Rassegna”, 9, 1982, pp. 75-78; Massimo Cacciari, Frammenti del tutto, “Casabella”, 684 /685, 2000, pp. 4-7. Tutta l’opera del filosofo Franco Rella è attraversata da una specifica attenzione per il frammento, si vedano in particolare Miti e figure del moderno, Feltrinelli, Milano 19932; Metamorfosi, Feltrinelli, Milano 1984; Limina. Il pensiero e le cose, Feltrinelli, Milano 1987; Asterischi, Feltrinelli, Milano 1989.

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introduzione

i temi del processo di progettazione, che ne controlli le diverse articolazioni e momenti e che possa anche costituirsi come parametro di controllo delle relazioni tra “motivazioni iniziali” e risultati finali del progetto. Nella dimensione della frammentazione compiuta, con un’architettura che costruisce discorsi solo all’interno della realtà delle sue invenzioni, come si può parlare oggi di teoria? Come si può avviare un’indagine con pretese di generalità, di “discorsi comuni” se il “frammento” in se stesso è una “fortezza autosufficiente”? Dunque, se il destino del frammento è la sua totale solitudine, che senso ha parlare di disciplina architettonica, di argomenti di carattere “istituzionale” e di “linguaggi comuni”? In sintesi: è possibile oggi avviare un discorso sulla Teoria in ambito architettonico, sui concetti che ne caratterizzano i contenuti, sulle caratteristiche e i fondamenti del discorso teorico, senza collocarsi all’esterno dello stesso ambito disciplinare oppure perdersi in complicatissime reti metodologiche? 3. Se si ritorna all’interno della nostra indagine sembra che il riflettere sul “frammento” e la sua solitudine non rappresenti tanto un costruire autonomo e isolato che nega il “deserto che avanza”, un permanente innalzare argini, quanto piuttosto una delle modalità del fare architettonico e dunque una delle teorie che ne fondano il senso. In quest’ottica i parametri di controllo del progetto (la teoria e i concetti che ne costituiscono e caratterizzano i contenuti) acquistano un carattere diverso; non sono esterni o interni alla disciplina, non sono neppure “momenti” di uno stesso processo, cioè “sotto-teoria” di una visione totale, teleologica, bensì sono un qualcosa di doppio. I principi, le procedure, in sintesi i fondamenti dell’autorità del progetto, si trovano in una zona fra luce e ombra, e il loro senso è sempre doppio: “Giano bifronte”. I gesti compositivi e i processi progettuali presuppongono un “programma” teorico e sono a loro volta “produttori” di principi e, in ultima istanza, di teoria. Da questo particolare punto di vista la Teoria non è qualcosa che si trova al di fuori del progetto, non è estranea alle maglie dei suoi processi formativi. Affermarla come guida massima del fare, o negarla nel semplice agire, non ha più senso perché essa è già presupposta nel carattere del progetto, nei temi, nelle procedure e nei gesti compositivi: teoria e progetto sono tutt’uno all’interno dell’invenzione architettonica. John Hejduk si muove all’interno di uno spazio storico caratterizzato da una preoccupazione teorica specifica: evitare il definitivo spo-

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introduzione

stamento della disciplina nell’ambito del “privato”. Hejduk ricolloca i temi teorici e compositivi, temi che il progetto architettonico rischiava di smarrire nel suo inarrestabile processo verso un’architettura come “fatto privato”, all’interno di una nuova autorità del progetto. Un’autorità che non può più fondarsi soltanto, o esclusivamente, nei grandi racconti esterni all’architettura (la tecnica, la società, l’estetica ecc.) o nell’affermazione del soggetto (architetto-creatore) e non può nemmeno far ritorno nostalgicamente ad un’idea di “fondamento stabile”, di “aura” o di parvenza di “referente”. 4. In quest’ottica la composizione architettonica, o meglio la gestualità implicita in questo strumento di definizione della realtà della forma e dei suoi linguaggi, diventa momento teorico: nel gesto compositivo si materializza un momento di “raccoglimento” della forma e dunque, dal punto di vista del progetto, della sua costruzione, questo gesto è figurante, stilistico oppure salvifico. I gesti compositivi costituiscono non solo la base tecnica di una particolare poetica, ma articolano nel loro susseguirsi questa consapevolezza tra gesto e teoria, attraverso la definizione delle traiettorie figurative, dei passaggi concettuali e dei contorni dell’agire. In John Hejduk i gesti compositivi si ripetono in un continuo scavare, togliere o “pulire” delle forme che porta a decifrare le “percentuali” di generalità che si celano negli oggetti architettonici e urbani. Questo carattere stilistico del gesto compositivo permette di ricavare tanto la specificità del linguaggio poetico della singola opera quanto il carattere generalizzabile dei processi che hanno dato luogo allo stesso linguaggio . Nel gesto compositivo vive il pensiero che è in relazione non solo con l’apparire dei principi costitutivi del formare, ma anche con la me “Se agli inizi dell’agonia (del referente) è l’affermazione umanistica del soggetto, come sperare un riscatto basato su volontà soggettive?”, Manfredo Tafuri, Premessa, in Id., Ricerca del rinascimento, Einaudi, Torino 1922, p. XX.  Sull’idea di stile come linguaggio condiviso si veda Antonio Monestiroli, Natura, Tecnica, Storia. Le forme dell’analogia nel linguaggio architettonico, in Id., L’architettura della realtà, Allemandi, Torino 20043, pp. 215-247.  “Il contadino che fa e lavora, che trasforma il deserto del campo, in pane per la vita dell’uomo non sa cosa è il mistero del seme che diventa, per il suo lavoro, la messe estiva. Il mistero non è l’identico o la sostanza irrelazionante, ma è vivo e presente nella sua opera. La messe è il dono della terra per chi ha saputo accettarla come realtà che chiede trasformazione e lavoro”, Enzo Paci, Tempo e relazione, Taylor, Torino 1954, p. 125. Dunque

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Tutte le immagini appartengono a: UniversitĂ Iuav di Venezia, Archivio Progetti. AP-riproduzioni/fot/014/09 AP-riproduzioni/fot/017/36/8


apparato iconografico

Planimetria dell’area d’intervento progettuale. Cannaregio ovest, Venezia

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apparato iconografico Teatralità urbana e una nuova macchina per abitare: La Casa di Colui che rifiutò di partecipare Questo congegno è pensato come una macchina d’abitare particolare, le cui funzioni si distribuiscono e si presentano sulla superficie della facciata; ogni cellula è un ingranaggio di un funzionamento impossibile e, contemporaneamente, come un “pezzo” di decorazione urbana, dove l’abitare è sintetizzato nel frammento di città rappresentato dalla casa stessa. Entrare in ognuno degli spazi della casa vuol dire attraversare la soglia costituita dal muro strutturale e soggiornare all’interno della città stessa. Ogni cellula abitativa è in relazione funzionale con il muro e, allo stesso tempo, è sospesa all’interno di uno spazio pubblico, il campo-piazza di Venezia.

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apparato iconografico

La Casa di Colui che rifiutò di partecipare. Planimetria generale con l’inserimento della casa all’interno del campo-piazza di Venezia

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apparato iconografico

La Casa di Colui che rifiutò di partecipare. Schizzi di studio del principio insediativo

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apparato iconografico

La Casa di Colui che rifiutò di partecipare. Prospettiva dell’intervento progettuale con l’inserimento dei diversi elementi architettonici nel contesto urbano

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apparato iconografico

Le tredici Torri di Guardia di Cannaregio. Prospettiva. Particolare della relazione tra le Torri e la Waiting House

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apparato iconografico

Le tredici Torri di Guardia di Cannaregio. Planimetria generale Le tredici Torri di Guardia di Cannaregio. Prospettiva a volo d’uccello del progetto per Cannaregio con l’inserimento delle Torri nel contesto veneziano

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apparato iconografico Verso una grammatica delle forme elementari: La Waiting House Questa architettura non solo è costituita da più frammenti, ma si qualifica essa stessa come frammento di una possibile e più ampia composizione. La mancanza in questa casa di un elemento catalizzatore principale che si imponga come momento, anche provvisorio, di sintesi, costringe la composizione all’interno di una dimensione frammentaria: la scala in asse rispetto al muro, il volume della cellula abitativa centrato rispetto allo stesso muro, l’occupazione di tutta la sua superficie da parte dei tubi che creano una figura a “mulino” e la sequenzialità funzionale degli spazi, definiscono la Waiting House come frammento chiuso e autosufficiente, come cellula essa stessa da utilizzare in futuri montaggi.

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apparato iconografico

La Waiting House. Pianta, sezione

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L’opera di John Hejduk (1929-2000) è stata associata a un’esperienza fondamentale come quella dei Five Architects, che ha lasciato un’impronta duratura nella cultura architettonica contemporanea, ma è anche collegata a una serie di esiti originali che hanno cercato di tenere insieme la complessità formale e significativa dell’opera e l’evoluzione della città contemporanea. Esempio “profetico” di questa linea di ricerca è il progetto di John Hejduk per l’area di San Giobbe a Venezia del 1978: l’approccio “ingenuo” a una ricchissima dimensione simbolica come quella veneziana riesce nell’impresa di trasfigurare la città lagunare, con i suoi colori e i suoi ritmi, con il suo fascino e il suo mistero, all’interno dei meccanismi di costruzione della forma architettonica. In questa ottica, la composizione e il progetto diventano il nucleo di una possibile rifondazione teorica e metodologica dell’architettura in quanto istituzione e della forma architettonica in quanto sintesi del vivere urbano. L’obiettivo finale è quello di ridefinire il sapere teorico disciplinare, ma anche di riposizionare il “fare progettuale” al centro dell’architettura. Fabian Carlos Giusta si è laureato in Architettura presso l’Università Iuav di Venezia, dove ha conseguito il dottorato di ricerca in Composizione Architettonica. Ha svolto attività di ricerca e di didattica presso la Facoltà di Architettura dello Iuav ed è attualmente Visiting Professor alla Facultad de Arquitectura de Rosario, in Argentina.

in copertina John Hejduk, Le tredici Torri di Guardia di Cannaregio prospetto sud verso la città di Venezia, part., 1978-1980

e 20,00 isbn 978-88-7115-817-4


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