La caduta. Venezia e il Veneto al tremendo zorno, Il Poligrafo

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diritto veneziano

Ivone Cacciavillani

LA CADUTA

Venezia e il Veneto al tremendo zorno

ilpoligrafo



diritto veneziano

collana diretta da Ivone Cacciavillani

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Ivone Cacciavillani

LA CADUTA Venezia e il Veneto al tremendo zorno

ilpoligrafo


Comitato scientifico Ivone Cacciavillani, Foro di Venezia Claudio Carcereri de Prati, Università di Padova Giuseppe de Vergottini, Università di Bologna Renzo Fogliata, Foro di Venezia Davide Rossi, Università di Trieste

progetto grafico Il Poligrafo casa editrice Laura Rigon copyright © dicembre 2015 Il Poligrafo casa editrice 35121 Padova - via Cassan, 34 (piazza Eremitani) tel. 049 8360887 - fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it isbn 978-88-7115-919-5


INDICE

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a mo’ di prefazione

venezia 19 I. il “prima” remoto (il seicento brumoso) 20 L’interdetto 23 La crisi erariale e il ritorno al feudalesimo: la vendita dei carichi e delle giurisdizioni 24 La vendita dei carichi burocratici 25 La nuova burocrazia e i nuovi problemi 27 La vendita delle giurisdizioni nel contado 28 Influenze remote 31

II. il “prima” prossimo (il settecento festaiolo e ciarliero)

32 La crisi economica 34 La crisi politica 37 La neutralità disarmata 38 Dogi e Antidoge

41 III. le “cose di francia” 41 L’antefatto politico 43 Parigi - Venezia 44 La conquista delle idee 46 Burocrati e artisti La burocrazia del Libro d’argento 46 47 Gli artisti nei Domini


48 La deriva dei Domini 49 Il riformismo inane

51 IV. la rivoluzione francese 51 In Francia 53 I rapporti istituzionali 55 La guerra franco-austriaca 57 Le analogie veneziane

59 V. la rivoluzione veneziana (l’invasione) 60 Le vicende politiche 61 L’invasione 62 Ragioni giuridiche e ragioni politiche 64 La reazione dei e nei Domini

67 VI. Il tremendo zorno 68 Come vi s’arrivò 69 Il passaggio dal fatto all’evento 70 L’evaporazione dello Stato 71 L’insediamento 74 L’ultimo atto

77 VII. dopo 78 Una conclusione? il veneto 83 introduzione 87 VIII. un “pre-veneto”: ezzelino iii da romano 87 Solo e “orfano” 90 Le vicende politiche “venete” 93 iX. la dominazione 93 Il precedente istriano 94 Il biennio d’oro 97 Cambrai 100 Il nuovo Veneto


103 X. il tremendo zorno nei domini 104 L’assetto socio-politico finale dei Domini 107 L’allentarsi del vincolo politico 108 I fattori “locali” 110 Proclami e programmi 112 Il “dopo” franco-austriaco 115 XI. la repubblica di manin 115 Il ’48 in Veneto 117 Le vicende venete 118 La “Consulta” 123 a mo’ di postfazione identitÀ veneta



la caduta Venezia e il Veneto al tremendo zorno


avvertenza Le note a piè di pagina sono solo indirizzi d’orientamento per eventuali approfondimenti; di tesi controverse viene indicato il riferimento a quella condivisa dall’Autore.


A mo’ di prefazione

Venezia e il Veneto è un binomio dai più considerato inscindibile. Parlarne ad un secolo e mezzo dal loro avventuroso approdo al Regno d’Italia potrebbe avere il sapore d’una commemorazione, celebrativa o rancorosa; ma con ciò si uscirebbe dalla storia per tuffarsi nel terreno motoso della politica. E invece ha un senso riandare al modo in cui quel binomio si sia formato attraverso secoli di “convivenza” volta a volta simbiotica o burrascosa, fino a creare la complessa realtà di un oggi che continua a presentare – sia pure sotto profili e aspetti particolari – la stessa problematicità di sempre (almeno dell’ultimo millennio): Venezia e il Veneto! C’è una specie di nemesi storica anche nella vita culturale: dopo aver coltivato per anni singoli aspetti di quello straordinario fenomeno che fu la Serenissima Repubblica di Venezia, cercando di sviscerarne gli aspetti anche reconditi (da ultimo: Il Seicento politico veneziano, del 2007; Il Settecento veneziano - la politica, del 2009, Crisi d’ordinamento della Serenissima, del 2012; Il Diritto veneziano vigente, del 2014), uno si trova condizionato ad affrontare il tema da sempre esorcizzato come il più travagliato, ostico nella sua quasi brutalità: quello della sua caduta, della fine. Il più drammatico e doloroso sia per l’argomento trattato che per le contraddizioni storiografiche di cui è infarcito. Coinvolgente anche sul piano “sentimentale”: se n’è diventati figli, che, a descrivere com’è morta la Madre, soffrono; un sentimento risalente, se è vero che fin da subito, nella storiografia popolare, quel 12 maggio 1797 venne indicato come il tremendo zorno del dodeze. E tale resta: il tremendo zorno!

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a mo’ di prefazione

Ci s’è girati attorno per anni prendendola da lontano: l’avvio della crisi a metà Seicento con la vendita dei carichi (allora si diceva rigorosamente al maschile) burocratici; l’azione deleteria del “genio malefico” della Repubblica che fu Francesco Morosini con l’avventura candiota prima e della Morea poi; l’involuzione settecentesca del riformismo imbelle: quando le radici furono marcite era inevitabile che la pianta cadesse. E cadde! Non è del tutto arbitrario cercare analogie e paralleli evolutivi nei grandi eventi storici: la caduta dell’Impero Romano e quella del Sacro Romano Impero carolingio, pur lontane di secoli, presentano analogie eziologiche che non è difficile scorgere al di là delle singole contingenze: la caduta dell’Impero Romano, ormai fradicio nella sua stessa struttura statale, la calata dei barbari; la dissoluzione dell’Impero Carolingio, a sua volta logoro nella sua artificiosità, la crisi dinastica. Nel Settecento e quasi in contemporanea si ebbero due fenomeni storici che è difficile non mettere in relazione, quanto meno in ragione delle reciproche influenze che tra loro intercorsero: la Rivoluzione Francese e la fine della Serenissima, che si vorrebbe battezzare la rivoluzione veneziana. Sovvertimenti repentini e radicali, giunti ad epilogo dell’evoluzione di istituzioni politiche ben risalenti e radicate; scomparsa di sistemi statali che parevano eterni; eccessi di plebi scatenate e fellonie di governanti improvvisati; tutto doveva consumarsi nel breve volgere di pochissimi anni in ambedue gli scenari. Ma a Venezia con una particolarità che doveva restare un unicum nella storia universale: la scomparsa d’un millenario sistema di governo per consunzione; un’implosione autoctona; un auto-scioglimento, senza che sia intervenuta “da fuori” alcuna causa efficiente. Accompagnata da altra peculiarità, a sua volta e ancora un unicum nella storia: il dissolvimento dello stato territoriale consolidato da quattro secoli di assoluta stabilità, retto da un sistema di governo di straordinaria (per l’epoca) efficienza. Come s’accennerà più oltre, nella dottrina ben risalente gli elementi che costituiscono uno stato sono popolazione, territorio e ordinamento; il terzo comprende tutte le regole del vivere sia del singolo, sia delle comunità che formano la popolazione. La Serenissima Repubblica di Venezia – per secoli rimasta la Repubblica per antonomasia – si costituì attraverso complesse vicende in secoli di presenza viva e attiva, diventando uno dei più importanti stati non solo della Penisola ma dell’intera Europa (che allora signi


a mo’ di prefazione

ficava il mondo); dandosi e sempre rigorosamente rispettando delle leggi che andarono formando un ordinamento tra i più complessi e articolati mai apparsi; instaurando col territorio – sia proprio, metropolitano, che annesso – un rapporto assolutamente originale che la fece qualificare dal suo più grande storico costituzionalista, il Maranini, il primo stato federale del mondo, con un rispetto del “locale” – quelle che oggi vengono definite le autonomie locali – di un’ampiezza e di una latitudine mai più ripetute. Quello che non può non colpire riandando ex post alle vicende di quegli ultimi anni è la solitudine della capitale. Venuta meno la Dominazione (ed è bene precisare in apertura che i termini Dominante, Dominio, Dominazione vengono usati nella loro accezione tecnica, senza alcuna connotazione “colonialistica”), le Province (le circoscrizioni territoriali all’epoca chiamate Terre), ben consce di non poter più far affidamento su nessun aiuto dalla (già ex) Dominante, vanno per conto loro, il territorio diventato scenario delle scorrerie degli eserciti stranieri che si fan guerra tra loro. In quelle drammatiche contingenze non sono mancate crisi istituzionali e movimenti di ribellione all’ordine costituito (Bergamo, Brescia, Desenzano, Salò), anche se in tutti emerge ben chiara una matrice “foresta”, assolutamente minoritaria tra la popolazione locale. Ecco la peculiarità “veneziana”, che sarebbe più corretto definire “veneta”, della crisi finale, per cui quel 12 maggio resta per tutti – Dominante e Domini – il tremendo zorno del dodeze, in cui Venezia Serenissima, per voto in Maggior Consiglio, decise di scomparire dalla storia; ed ecco perché – a sottolineare la diversità dello sviluppo delle due crisi, pur accomunate da identità di genesi – ne vengono esaminati separatamente le tappe e gli esiti. Vorrebbe essere un libro di storia, perché degli eventi narrati intenderebbe dare una valutazione organica per quanto soggettiva; da sempre si discetta sul punto se esistano fatti storici; qui e sin dall’inizio va sfatato il mito dell’obiettività storica, che non esiste proprio! Due celebri apologhi a dirlo: la guerra di Troia e la donna del latte. Nel tempo chissà quante città anche potenti e celebri sono state distrutte dopo guerre spesso cruente senza che ne sia rimasta né traccia né memoria; non è raro che gli archeologi scoprano sotto spessi strati di sabbia rovine di grandi insediamenti urbani di cui non si aveva nemmeno conoscenza. Di Troia, una forse modesta città dell’Anatolia distrutta dai Greci qualche millennio fa, sappiamo tutto, ma proprio tutto: da come vivevano a cosa mangiavano. 


a mo’ di prefazione

Perché? Non perché fosse la più grande e importante dell’epoca, perché pare che non lo fosse proprio, ma solo perché a descriverne la vicenda fu un “giornalista” d’eccezione, certo Omero, che ne narrò quel che scrisse; con tanta precisione che per secoli tutti pensarono che fosse un romanzo d’avventura, prima che se ne scoprissero le rovine. Stesso rilievo – per dire come d’uno stesso fatto possono esser date diverse valutazioni – nel celebre apologo, attribuito – se la memoria non fa scherzi – a Pittigrilli, della donna che, in bicicletta, portava una bottiglia di latte, che d’improvviso le scivola andando in frantumi spargendo il contenuto sull’asfalto. Alla scena assistono vari spettatori, dei quali ecco i commenti: a) poverina, così male in arnese stava evidentemente portando il latte ai suoi bambini, che ne restano privi e affamati! b) incoscienti di donne! Andare in bici su una strada di grande circolazione con una bottiglia di latte in mano! Col rischio che le cada, disseminando l’asfalto di cocci che possono danneggiare gli pneumatici delle auto e causare incidenti anche gravi! c) Il degrado delle città! Del latte sparso per terra; insetti che v’accorrono; passanti che vi possono scivolare; non c’è proprio più rispetto per l’ambiente! Tutti commenti pienamente pertinenti, valutazioni perfettamente plausibili d’un evento realmente accaduto. Il rilievo vuol collocare la presente analisi a metà tra la spiegazione e la giustificazione: il fatto-svolta esaminato nel suo complesso consta d’una miriade di episodi, talora anche di grande impatto, narrare analiticamente ciascuno dei quali porterebbe decisamente fuori strada; mentre ometterne anche la semplice menzione potrebbe ingenerare il sospetto di parziarietà dell’esposizione e quindi di inattendibilità delle valutazioni. Si tornerà sulla differenza tra fatto storico ed evento storico; l’analisi del primo mira a coinvolgere – a far con-patire – il lettore; l’analisi del secondo mira a collocarlo nel suo contesto oggettivo storico, per “spiegarlo” in sé e nelle conseguenze che ne son derivate; tenendo ben presente che quell’evento non fu una fatalità, ma l’epilogo di un lungo cammino, di cui il libro vorrebbe spiegare le tappe della maturazione Quello che per il lettore-partecipe è il tremendo zorno del dodeze, la fine del mito-Serenissima, un fatto che lo coinvolge, oggettivamente – nella successione degli eventi che fanno la storia – è solo un episodio, pur di grandissima importanza, che chiude la vita del più longevo stato che la storia umana abbia annoverato, aprendo una serie di cicli di eventi che rappresentano il contesto sociale in cui il lettore d’oggi vive. 


a mo’ di prefazione

Ecco lo sforzo di passare dalla narrazione dell’evento alla ricostruzione del fatto, per quello ch’esso fu nella serie di episodi che lo determinarono e delle conseguenze che ne seguirono: una tappa – l’ultima – del lungo cammino. Con lo sforzo di accompagnare il lettore almeno nell’ultimo tratto, da un “prima” remoto al suo progressivo avvicinarsi, per strade solo parzialmente coincidenti, al tremendo zorno.

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venezia


Venezia San Marco, el to vangelo gera eterno e l’Istria la viveva soto l’ala del to leon, e mai la zente mala lo veva vinto incora e mai l’inferno. E canti su la boca d’ogni tosa E canti su le barche d’ogni porto; el rosmarin, la salvia in ogni orto, e bionda l’ua, vissina de la rosa. Calme scoreva e lente le stagion sora dei porti, sora quele rade; le vele via pel mare sensa strade le ’ndeva in vagassion. Sora i palassi, sora dei bastiuni quela parola granda de la pase; furiva sui barcuni de le case gerani e stiopetuni. Da tramontana in ostro per duto pase e dì beati e ciari, preghiere trasognae drento ai rosari e dolse invocassion del Padre nostro. San Marco, el to vangelo adesso el xe finio; lo crévemo del sielo, lo crévemo de Dio. Biagio Marin, Elegie istriane (Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1963, p. 105)


I. il “prima” remoto (il seicento brumoso)

Collocando a Lepanto (6 ottobre 1571) l’acme della vicenda storica della Serenissima Repubblica di Venezia, il primo episodio della “fase calante”, che avrebbe trovato il suo epilogo nel tremendo zorno, fu altrettanto lenta e graduale della “fase ascendente”. Una serie di eventi apparentemente slegati tra loro, che contribuirono a demolire, pietra per pietra, l’imponente edificio frutto di secoli di sedimentazioni di esperienze di governo. Nell’impossibilità di darne un’analisi completa e dettagliata, pare sufficiente soffermarsi sui due eventi che sembrano maggiormente incidenti sull’assetto storico, pur interagendo con effetti spesso cumulantisi. Sono, all’inizio del secolo, la crisi intercorsa con la Curia Romana, che culmina con l’Interdetto del 1606 e, a fine secolo, la gravissima crisi “erariale” conseguente alle vicende morosiniane (la guerra di Candia e l’avventura della Morea): un secolo che ben può essere definito brumoso. La genesi e le vicissitudini del dissidio con la Curia Romana e della sua composizione sono temi classici della storiografia veneziana e non solo; a loro volta al centro di valutazioni le più varie e variamente motivate. I “fatti dell’Interdetto” giocano un ruolo remoto, quasi di presupposto di un fenomeno alterativo dell’assetto secolare della Repubblica; certo è che le conseguenze che più o meno direttamente vennero dopo segnano l’avvio della “fase calante” della parabola. La contesa era scoppiata violenta, raggiungendo momenti di acuta esasperazione e lasciando dietro di sé anche aspri dissidi tra le casate, che, pur composti talora variamente e faticosamente, covarono a lungo, anche se abilmente “coperti” sul

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capitolo primo

piano storico-politico dall’eroica vicenda candiota con l’epopea del Morosini. Ma s’ebbe anche un vero cortocircuito istituzionale con grave obnubilamento della legalità, sul piano storicistico “coperto” col geniale alibi – che tuttora funziona – della fantasiosa congiura spagnola del 1618. Potrebbe essere considerato un condizionamento, per chi ha trattato il tema in chiave marcatamente autonoma, il tornarvi considerandolo una componente di un quadro più ampio e articolato: un po’ come essere in ostaggio delle proprie tesi pregresse. Ciò non accade quando, riprendendo temi d’indagine trattati in epoche lontane nel tempo, non solo se ne condividono le conclusioni, ma se ne trova anche nuovo conforto – o conferma – nell’ampliamento del campo d’indagine. È quanto accade a chi scrisse la congiura spagnola. l’interdetto La vicenda che interessa e da cui meditatamente si intende prendere le mosse va inquadrata nella secolare politica “ecclesiastica” (termine usato nel senso tecnico attuale del sistema dei rapporti tra Stato e Chiesa) della Serenissima: il più cattolico degli stati cristiani (ricordare che Venezia fu il primo stato europeo che dichiarò d’accettare integralmente le decisioni del Concilio di Trento – 1563 – e fu in riconoscenza nei confronti di tale gesto che il Papa donò alla Repubblica quello che a tutt’oggi si chiama “palazzo di Venezia”, in cui la Repubblica pose la sua ambasciata a Roma). E nel contempo fu l’inventore del principio di laicità dello Stato (è del Sarpi, il più grande giurista veneziano, il rilievo che, se il Regno di Dio e il Regno dell’Uomo camminano su strade diverse, “come ponno dar di cozzo?”). Ossequente nella “cose di Chiesa” ma intollerante d’ogni intromissione della Curia papale nelle sue “cose mondane”. Al culmine d’uno stillicidio di dissidi sui temi più vari s’erano verificati due episodi di più acuta frizione: la pretesa della Repubblica di tassare anche i patrimoni degli enti ecclesiastici, da sempre esenti, Ampia analisi delle vicende sia “vere” che “storicizzate” (dalla storiografia ufficiale) nel mio Il Seicento politico veneziano, Conselve, Edizioni Think ADV, 2008, cap. IV, “La Guerra di Gradisca” (altro episodio della crisi), pp. 101-128.  Rinvio al mio La “congiura spagnola” del 1618, Padova, Cleup, 2007.  Descrizione delle cause storico-politiche e delle vicende dell’Interdetto nel mio Gli interdetti della Serenissima, Padova, Signum, 1993 (“Civiltà Veneta”, 12). 

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il “prima” remoto

e l’incarceramento di due canonici, accusati di gravi delitti comuni, sottratti al “foro ecclesiastico”. Papa Paolo V aveva intimato alla Repubblica di revocare quei suoi atti “insani”; rimasta inattuata la diffida, aveva fulminato sull’intera Repubblica l’Interdetto, la scomunica con sua messa al bando dall’intero mondo cristiano. Delle pur vaste analisi della vicenda che per secoli seguirono non si trovano adeguati riferimenti alle conseguenze “interne” – nei rapporti tra casate – delle posizioni via via assunte dalla Repubblica nei rapporti con la Curia romana. Molto varie erano state ed erano le relazioni private, di casata, con la Curia, sempre molto considerate per la possibilità che offrivano di avviare qualche rampollo alla carriera ecclesiastica, appetita come fonte di enorme prestigio, oltre e non di rado per le ricche prebende che assicurava, specie con le commende abbaziali (si tornerà tosto sulla più celebre di tali commende dell’Abbazia della Vangadizza). Pur sotto l’abile e – dal punto di vista dell’ortodossia – ben affidabile (non foss’altro che per ragion d’abito) guida del Consultore in jure, il Padre Maestro Paolo Sarpi dell’Ordine dei Servi di Maria, certe prese di posizione nei confronti della Curia non potevano non riuscire ostiche specie alle casate più apertamente “papaliste”. In seno agli organi collegiali (e tutti gli organi di governo lo erano), per disciplina politica – proprio l’asprezza dello scontro rendeva obbligatoria la solidarietà politica, per cui un voto contrario sarebbe sonato fellonia o connivenza col “nemico” –, si votarono misure anche di grandissimo impatto religioso, che rodevano profondamente le coscienze. Specie certe intromissioni deliberate dal Senato in ordine all’obbligo, imposto al clero d’ogni ordine e grado, di continuare la celebrazione delle funzioni religiose senza tener conto dell’Interdetto papale che le vietava tassativamente. Questo nei Domini compresi nella provincia ecclesiastica del Patriarcato di Venezia venne osservato senza eccessive resistenze, che invece scoppiarono violente nei territori del Dominio della Lombardia veneta, compresa nella provincia ecclesiastica di Milano, il cui Primate esigeva piena osservanza dell’Interdetto, costringendo i vescovi delle diocesi “lombarde”, tutti rigorosamente di nobiltà veneziana, a veri funambolismi

Il rinvio è limitato ai miei saggi: Paolo Sarpi nella Vita di Fulgenzio Micanzio, Padova, Signum, 1996; Paolo Sarpi, Venezia, Corbo & Fiore, 1997; Paolo Sarpi. La guerra delle scritture del 1606 e la nascita della nuova Europa, Corbo & Fiore, 2005; presso Cedam di Padova, I consulti di Paolo Sarpi sulla Vangadizza, del 1994; Sarpi giurista, del 2002. 

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V. la rivoluzione veneziana (l’invasione)

Volendo restare fedeli all’impostazione data dal Salvemini alla descrizione di quella francese, si dovrebbe far partire la rivoluzione veneziana dalla data d’inizio della catena di eventi scatenanti sfociati nella sciagurata delibera del tremendo zorno. Quella pesante stagnazione istituzionale; l’empasse del governo; l’involuzione sociale col sovvertimento del secolare rapporto tra e all’interno dei ceti legali. Molto varie ma sempre profonde furono, sia in Laguna che nei Domini (anche se non certo omogenee), le reazioni “veneziane” alle notizie “di Francia”. Generalmente si può ben dire che andò crescendo quel clima di provvisorietà istituzionale che era maturato nei decenni del riformismo inane; tutti eran d’accordo che così le cose non andavano proprio; ch’era indilazionabile cambiare; le terribili ultime “cose di Francia” maturarono il generale convincimento che ormai il cambiamento era nell’aria: qualcosa presto doveva succedere. Prima dell’inizio della fine s’ebbe un intermezzo sostanzialmente inconsistente se non addirittura banale, legato alla permanenza nei territori della Repubblica del superstite pretendente al Regno di Francia, il conte di Lilla, dapprima ospite di amici a Verona. Null’altro che uno dei numerosi fuorusciti francesi rifugiatisi a Venezia o nei Domini. Era personaggio in quanto pretendente al trono – un trono ben lontano e improbabile – divenuto ingombrante, la cui ospitalità costituiva un ottimo pretesto per la neorepubblica d’oltralpe per prendersela con Venezia; un’ottima ragione per trattarla da nemica quando il vento della politica cominciò a spirarle contro.

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capitolo quinto

le vicende politiche Le vicende politiche d’Oltralpe furono vissute con forte partecipazione a Venezia, i cui rapporti con Francia e Francesi, sociali e culturali oltre che politici, erano stati – nel meno recente passato – sempre molto stretti e partecipati (ecco le “cose di Francia”), anche se così profondamente turbati dalle ultime evenienze. Come detto, a seguito del regicidio era stato ritirato l’ambasciatore da Parigi e i rapporti della Serenissima con la nuova Repubblica, faticosamente ristabiliti, vennero tenuti da un rappresentante diplomatico definito nobile e non più ambasciatore. Il primo nobile diplomatico fu Alvise Querini del ramo di Santa Fosca, i cui dispacci da Parigi costituiscono preziosa e insostituibile fonte storica, alla quale s’attingerà largamente, rendendo alto merito alla Fondazione Querini Stampalia per averne curato, nel 2006, la pubblicazione nei due densi volumi. Anche quest’episodio – come accadde per il conte di Lilla –, nella sua oggettiva inconsistenza, svolse ruolo – effettivo o artefatto – di grande rilevanza per gabellare come ritorsione atteggiamenti e iniziative ch’erano null’altro che sopraffazioni. Ecco il passaggio d’avvio che qui interessa (una reiterazione dell’incidente del conte di Lilla: quanta poca fantasia!): un piccolo contenzioso tra Francia e Venezia era insorto a causa del conte de Launay d’Antraigues, il quale era un immigrato che stava in territorio veneto coperto dall’incarico di segretario della legazione di Russia a Venezia e che i Francesi volevano fosse espulso, pretesa che il governo veneziano non intendeva soddisfare. Al riguardo, Querini ebbe il suo bel da fare per difendere la linea di condotta veneziana. Intanto, ai confini della Repubblica, i problemi già s’erano creati e ben concreti. Giovanni Battista Contarini, podestà di Crema, in un messaggio al governo del 12 maggio 1796, descriveva il suo incontro con Napoleone. Egli impegnato a far presente che Venezia era uno Stato libero, il quale perciò lasciava vivere sul suo territorio tutti quelli che non avessero violato le sue leggi; era uno Stato neutrale il quale, perciò, non poteva far altro che lasciar passare gli uni e gli altri dei belligeranti che varcavano con prepotenza i suoi confini. Querini mostra apprensione per l’evolvere delle situazioni e prega sempre più insisten­temente il Senato perché gli siano inviate istruzioni precise. In base alle notizie ricevute da Venezia, protesta presso il ministro degli esteri e presso il Direttore Rewbel per le vio­lenze e i soprusi cui si abban-

 Pubblicazione con sola indicazione dei curatori, G. Ferri Cataldi e A. Gradella, Venezia-Parigi 1795-1797. I Dispacci di Alvise Querini ultimo ambasciatore in Francia della Repubblica Veneta, cit.; il brano infra citato è a p. 15.

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la rivoluzione veneziana

donavano le truppe francesi nei territori veneti (Nicolò Foscarini era stato nominato Provveditore Generale in Terraferma). Particolarmente interessanti sono i dispacci del 10 e 11 giugno, nei quali egli informa il governo veneto di aver avvicinato il ministro degli esteri e poi anche il Direttore Rewbell informandoli della condotta di Napoleone, il quale, vinta la battaglia di Borghetto, aveva occupato Peschiera (in precedenza occupata dagli austriaci); aveva altresì occupato Brescia e Verona e, millantando di avere l’assenso del Direttorio, aveva minacciato il Provveditore Generale in Terraferma Foscarini di una dichiarazione di guerra. Il ministro Delacroix aveva negato che il Direttorio fosse al corrente delle minacce di Napoleone e della deplo­revole condotta delle truppe francesi nei territori della Repubblica, aveva giustificato le occupazioni napoleoniche con il fatto che prima erano state tollerate occupazioni austria­che; aveva assicurato sulla continuità dell’amicizia della Francia, ma non aveva trascura­to di far presente ancora una volta che, per il proprio bene, sarebbe stato opportuno che Venezia attenuasse la rigidezza della sua neutralità e riarmasse per poter far la voce gros­sa con l’Austria e poter aderire a una “coalizione marittima” con l’Impero Ottomano in funzione antirussa e antiaustriaca. Querini era stato un po’ tranquillizzato da quei colloqui, ma sottolineava che Napoleone stava conquistandosi progressivamente margini di libertà di manovra rispetto al Direttorio. Egli mette in evidenza il peso crescente di Napoleone presso il Direttorio; chiarisce che le armate francesi in Italia non sono sovvenzionate da Parigi ma devono sostenersi a spese dei paesi occupati; fa menzione degli arrivi nella capitale francese di esponenti della municipalità di Milano e di fuoriusciti di altri stati italiani, i quali (inco­raggiati da Napoleone) erano venuti a chiedere appoggio a disegni d’indipendenza nella penisola e precisa che essi avevano trovato tiepida risposta dal Direttorio.

È la Rivoluzione Veneziana. l’invasione Le vicende della guerra – una guerra di corsa, con l’esercito francese (un “esercito di straccioni” lo definirà Stendhal nel suo La Certosa di Parma) a rincorrere gli austriaci fuggenti da ogni dove – sono solo una monotona sequela di fatti d’arme sempre risolti con una nuova rotta degli imperiali, incapaci di raccapezzarsi in quelle frenetiche scorrerie; ambedue gli eserciti operanti in terra veneta. Questo è il dato sconvolgente: due eserciti senz’alcun servizio d’intendenza che assicurasse ai combattenti il minimo vitale, al che ambedue – con assoluta prevalenza dei Francesi – provvedevano con 

Ivi, p. 15.

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capitolo quinto

rapine e spoliazioni indiscriminate d’inaudita violenza e brutalità. Dietro ai grandi fatti d’arme napoleonici sta – e rare volte lo si ricorda – una scia di lacrime e di sangue delle popolazioni, specie del contado, lasciate alla mercé delle rapine e delle soperchierie d’una truppa brutalizzata da una guerra spietata e crudele, esaltata e resa strafottente quella francese dalle continue vittorie che riportava sul campo; quella austriaca dalla esacerbata rabbia delle continue sconfitte. Il tratto che maggiormente colpisce dell’invasione è la tripolarità della situazione che, almeno quanto a durata (un anno tondo tondo dall’episodio di Peschiera al tremendo zorno), non consta aver avuto uguale nella storia: due eserciti d’avventurieri (certo lo era quello francese, comandato – a detta del Direttorio come riferito dal nobile Querini – a titolo personale dal Bonaparte) senz’alcun aiuto dalla madrepatria lontana; non molto diversi i vari reparti imperiali inviati da Vienna per contrastare le mire espansionistiche francesi (a fine marzo 1797 «Napoleone contava di riunire le sue truppe a Villaco e di lì di muovere su Vienna»), che si combattono aspramente sul territorio d’uno Stato terzo – la Serenissima – che non solo non era in guerra con nessuno dei rispettivi Stati belligeranti, ma intratteneva con ciascuno di essi normali rapporti diplomatici. Significativo nella sua quasi banalità un dato apparentemente insignificante: una bella stampa panoramica francese della bassa Val del Brenta, poco a monte di Bassano, a rappresentare il Forte del Covolo (La divisione du Général Augereau enlève cette forte position, Decembre 1796). Una stampa molto accurata e suggestiva, che sembra impossibile mettere in relazione con l’evento “battaglia di Primolano-Bassano”, del 7 e 8 settembre precedenti; prova che a Bassano c’era una guarnigione stanziale di soldati francesi senza troppi impegni bellici, se avevano tempo e modo di dedicarsi alle “belle arti”. ragioni giuridiche e ragioni politiche Sul piano storicistico si può discutere senza fine su ragioni e torti dell’invasione, con le valutazioni e conclusioni più varie; sul piano giuridico – per quanto ovviamente tale valutazione possa valere – le ragioni e i torti si possono distribuire con molta chiarezza sulla base  G. Scarabello, Gli ultimi giorni della Repubblica, in Storia della cultura veneta, a cura di G. Arnaldi, M. Pastore Stocchi, Vicenza, Neri Pozza, 1986, V/2, Il Settecento, pp. 487-508: 491.

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la rivoluzione veneziana

delle norme di diritto internazionale allora universalmente condivise sulla scorta delle teorie del Grozio (1583-1645) sul De jure belli ac pacis del 1625, secondo il quale è onere degli Stati sovrani proteggere le proprie frontiere da ogni “intrusione altrui”, dove per intrusione vietata era inteso anche il semplice transito di un esercito straniero; permettere il quale, per far guerra ad un altro Stato, equivaleva ad una quasi alleanza col transitante e ad un atto quasi di guerra col suo nemico. Per i benpensanti dell’epoca – ammesso che ce ne fossero – pertanto, fu Venezia a far torto ai Francesi permettendo all’esercito austriaco in fuga di rifugiarsi e trincerarsi a Peschiera, da cui gli stessi Francesi dovettero sloggiarlo con la forza con la battaglia del Borghetto del 30 maggio 1796. Quello, secondo il diritto internazionale dell’epoca, fu un atto ostile di Venezia nei confronti dei Francesi, che non glielo perdonarono proprio, tanto da giustificare, in una delle tante contestazioni emulative, la loro pretesa del risarcimento, da parte di Venezia, dei danni subitine. Questo spiega l’atteggiamento di pesante e minaccioso sfottò praticato dal Bonaparte al rappresentante veneziano, recatosi l‘indomani 31 maggio (1796) a fargli visita: al generale non era certo sfuggito che Venezia, dopo anni di sconsiderata neutralità disarmata, non era più in grado di opporre alcuna reazione miliare, come non era stata in grado di impedire l’occupazione austriaca di Peschiera. Fermo comunque restando che per diritto internazionale dell’epoca i primi invasori dei Domini furono gli Austriaci. Ben diverse le ragioni politiche, sia da parte francese (leggasi Bonaparte) che da parte veneziana. La sfuriata di Peschiera doveva rivelarsi la prima di una serie di sempre più pesanti umiliazioni inflitte alle sempre più frequenti e affollate delegazioni di blasonati  L’episodio viene ripreso da tutti gli storici trattatisti di materia; lo si segnala anche per la stretta analogia della valutazione in Scarabello, Gli ultimi giorni della Repubblica, cit., p. 49: «un Bonaparte giovanissimo signore della guerra, che il 31 maggio a Peschiera investe di minacce il vecchio Provveditore Foscarini e il “circospetto” Segretario Rocco di Sanfermo, che erano andati ad incontrarlo», ai quali minaccia che «se Venezia non lo plachi di umiliazioni e di sacrifici, di spargere il terrore tra le popolazioni, punire di rappresaglie indiscriminate, incendiare magari una città, magari Verona, magari la prossima notte stessa. Napoleone mostrava con Venezia una arroganza particolare. Forse perché si era accorto che il governo veneziano non aveva alternative al cedimento; forse perché già interessato a provocare rotture con la Repubblica che gli consentissero di lanciare, sulla testa del Direttorio, la sua gestione delle cose d’Italia e di impostare prospettive di una sua contrattazione politico-territoriale con la controparte austriaca».





il veneto



IX. La Dominazione

Evento centrale nella storia del Veneto fu l’avvento della Dominazione: il suo passaggio “sotto Venezia” nel biennio d’oro 1404-1406, con la fitta serie di dedizioni. il precedente istriano La narrazione anche sommaria delle turbinose vicende del tormentato Trecento delle signorie – tutti contro tutti, mentre la Venezia insulare non si è ancora “accorta” del suo entroterra padano – è impossibile nei brevi tratti. Rilevante pare – anche ai fini di dare una qualche spiegazione dell’avvento, così improvviso, della Dominazione – accennare alle trecentesche vicende veneziane d’oltremare, sull’altra sponda del Golfo, l’Istria. Col che s’entra – sia pure per brevi tratti e quasi di straforo – nell’immenso scenario, per larga parte inesplorato, che fu il Patriarcato di Aquileia. Nato da un’infeudazione imperiale alla fine del secolo X, si vide accrescere sia le prerogative sovrane, sia il territorio della sua giurisdizione fino a diventare un vero proprio Stato sovrano a cavallo delle Alpi. Uno strano stato ecclesiastico; dove il Patriarca, necessariamente avvicendandosi al potere senza mai poter creare una dinastia, sottoponeva lo stesso assetto statale ai mutamenti più radicali e ai condizionamenti di un nepotismo molto disinvoltamente praticaIl “tema-Aquileia” è essenziale per capire a fondo il fenomeno-Venezia; il rinvio d’obbligo è allo splendido monumentale volume Da Aquileja a Venezia. Una mediazione tra l’Europa e l’Oriente, a cura di B. Forlati Tamaro, Milano, Libri Scheiwiller - Credito Italiano, 1980. 

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capitolo nono

to, molto generoso – se non prodigo – d’infeudazioni. Ne risultava una sovranità molto frazionata, spesso più nominale che reale, con vastissime aree preda dell’arbitrio e della sopraffazione di signorotti locali. Questa la situazione della ricca penisola istriana, che trovava nella fertilità delle sue terre, nell’industriosità della sua gente e nella naturale portualità delle sue coste dei formidabili presupposti di progresso; purché riuscisse a garantirsi un minimo di stabilità politica. Ecco il richiamo d’oltremare. Venezia, sull’altra sponda del Golfo, nel Duecento aveva infittito la sua presenza; la sua flotta era tra le più potenti dell’epoca; sulla scena internazionale era balzata all’attenzione mondiale per essere stata l’artefice della pace di Venezia tra l’imperatore Barbarossa e Papa Alessandro III, sanzionata nella solenne cerimonia tenutasi nella Basilica di San Marco nel 1177; i suoi naviganti, a cominciare dal mitico Marco Polo, avevano acquistato fama e universale ammirazione. Ed ecco la serie di dedizioni, in cui singole città specie della costa (ma sulla nozione di città in Istria va posta qualche riserva: si definivano in questo modo anche villaggi di poche case arroccate tra le gole dell’interno) stipulano con la signoria veri trattati internazionali (sempre considerati tali), con cui “si davano” a Venezia con solenne promessa di fedeltà e di servizio in tutte le necessità che si sarebbero presentate, conservando i propri statuti e le proprie magistrature col solo controllo di non contrasto con gli interessi di Venezia, per questo denominata Dominante (e fu così che nacque l’appellativo rimasto in uso per secoli); contro protezione militare e difesa dai nemici, assicurata dalla presenza d’un Podestà di nobiltà veneziana. Undici le dedizioni istriane, dalla prima, di Parenzo, del 1220, all’ultima trecentesca, di Dignano, del 1339. il biennio d’oro Del Trecento “padano” sarebbe follia cercar di tracciare un quadro per quanto sommario e approssimativo. Un carosello di signorie, alcune riuscite ad affermarsi con dimensioni e ruoli di quasiStati, per quanto effimeri; molte rimaste arroccate attorno a – talora Descrizione delle vicende veneziane d’Istria nei miei: Istria (dopo il tremendo zorno), Venezia, Corbo & Fiore, 2003; L’Istria veneziana (la venezianizzazione), Milano, Leoni editore, 2012; La Provincia veneziana d’Istria (sotto la Dominazione), Milano, Leoni editore, 2014. 

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la dominazione

tetri – manieri; tutte in perenne guerra con tutte. Nomi e dinastie – per quanto caduchi – rimasti celebri: gli Sforza e i Visconti a Milano, ma largamente sconfinati in terra veneta; i Carraresi a Padova; gli Scaligeri a Verona. Corti talora splendide; città-fortezze tuttora monumentali. Ma il tutto, appunto, caduco. La sensazione della caducità del sistema era quasi palpabile; troppe meteore rutilanti di splendore avevano solcato il cielo, promettendo meriggi di trionfi, per scomparire con la stessa rapidità con cui erano apparse. L’ultimo baleno fu Giangaleazzo Visconti, la cui improvvisa scomparsa (1403) doveva generare un senso di smarrimento generale, dal quale nacque – lo si può ben dire – l’attuale Veneto. Ad opera/iniziativa dei pastori dell’Altopiano dei Sette Comuni, già Spettabile Reggenza, che per primi ebbero l’idea della dedizione “a San Marco”: il 20 febbraio 1405 (more veneto 1404); queste le altre tappe: 28 aprile, Vicenza; 7 maggio, Cologna; 18 maggio, Belluno; 10 giugno, Bassano; 15 giugno, Feltre; 1406, 23 giugno, Verona; 22 novembre, Padova. Se “la scelta di San Marco” fu per le varie Terre (così si chiameranno per secoli le circoscrizioni territoriali che solo in pieno Seicento si comincerà a definire Province) un rifugio sicuro, per la Repubblica l’improvviso – e per larga parte imprevisto – “arrivo” di tante realtà territoriali creò problemi politico-costituzionali di impellente gravità; ed ecco la scelta istriana! Il modello d’assetto assunto nel secolo precedente dalla penisola oltremare fu trasferito e applicato pari pari alle dedizioni venete, sicché si può ben dire che il Veneto è, sul piano costituzionale, figlio dell’Istria! Stesso assetto: conservazione dello status quo politico e sociale (leggi, magistrature, istituzioni cittadine, rapporti col rispettivo contado), col solo controllo di non lesività degli interessi della Repubblica delle scelte politiche locali, pagamento d’un tributo a cui era tenuta la singola Terra, che ne disciplinava secondo i suoi ordinamenti l’esazione; controllo in loco d’un rappresentante della Repubblica, il Podestà di nobiltà veneziana, coadiuvato, nelle Rettorie più vaste, da un Capitanio, contro protezione militare. Per “il resto” tutto doveva continuare “come prima”. Così nacque lo Stato da Terra, il Dominio.

 Descrizione nel mio Lo Stato da Terra della Serenissima, Conselve, Edizioni Think ADV, 2007, p. 32.

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capitolo nono

Per l’intero Quattrocento la vita e le vicende delle due componenti dello Stato veneziano, la Dominante e i Domini da dedizione (la genesi dell’approdo a Venezia resterà sempre elemento rilevante nel rapporto delle varie Terre; la distinzione tra Domini da dedizione e Domini da conquista, geograficamente segnata dal fiume Mincio, resterà una componente stabile dell’ordinamento della Repubblica), si svolsero in totale indipendenza e autonomia: ogni Terra assestò il suo nuovo assetto politico secondo le proprie tradizioni, conservando gli assetti primigeni in totale libertà, anche se lentamente gli ordinamenti cittadini andarono omologandosi a quello della Dominante. Da questo impianto di partenza, rimasto sostanzialmente immutato per i quattro secoli della Dominazione, deriva il tratto tuttora qualificante del Veneto anche attuale: il forte richiamo “localistico”; il permanere di identità territoriali molto marcate e condivise nel policentrismo che ancor oggi caratterizza il “paesaggio”, sia naturale che socioeconomico, della Regione, con tutti i relativi anacronismi talora pesantemente condizionanti. Le turbinose vicende politiche del Quattrocento – le guerre e le conquiste in Lombardia e in Romagna – non interessano minimamente lo Stato da Terra; che il confine occidentale sia stabilito sull’Adda, con l’acquisto della Lombardia Veneta, resta un mero evento “loro”, dei signori di Venezia. Solo lo sconquasso della Guerra di Cambrai porterà il Veneto a contatto con i problemi – e che problemi! – internazionali; ma questo accadrà oltre un secolo dopo le dedizioni del “biennio”. Il segno della “svolta epocale” dell’intera politica veneziana indotta dal turbinio delle dedizioni del “biennio” è dato dal celebre testamento del doge Mocenigo morente, del 1423, d’incitamento a non abbandonare il mare, a non impelagarsi nelle diatribe di terraferma. Morì il 4 aprile; il 15 aprile 1423 venne eletto a succedergli Francesco Foscari, capo del “partito” degli interventisti di terraferma: ormai era tardi e le scelte erano diventate irreversibili.

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Cappelletti, Storia della Repubblica di Venezia, cit., V, pp. 462-470.


la dominazione

cambrai Dal sonno quattrocentesco il risveglio, quel 9 giugno 1509, con la bruciante sconfitta della Giaradadda, doveva essere brusco e tragico. Come conseguenza di quanto s’è accennato, tutti gli Stati europei avevano contro Venezia motivi di rancore recenti o antichi: troppa era stata la sua fortuna; troppo ardita e ricca di successi la sua politica! Aveva annesso allo Stato da Terra buona parte della Romagna; in Puglia aveva stabilito solide basi commerciali e militari; i suoi commerci erano floridissimi; il suo Arsenale era una delle meraviglie del mondo; le sue flotte militare e commerciale le più importanti che solcassero i mari. Il re di Francia anelava a ricuperare il “suo” Ducato di Milano, del quale Venezia aveva occupato Cremona (10 settembre 1499); l’imperatore Massimiliano aveva subito, se non una sconfitta, un chiaro insuccesso nel Belluni veneticum di appena un ventennio prima; il papa Giulio II era impegnato a ristabilire la sovranità della Chiesa entro gli antichi confini. La Lega di Cambrai, composta nel più gran mistero sul finire del 1508, non è l’opera né d’un giorno, né d’una sola volontà. Una lunga serie di fatti l’avea preparata a poco a poco, accumulando odi, ragioni e pretesti e contribuendo a formare lentamente l’ambiente che la rese possibile.

A Cambrai erano convenuti in gran segreto i plenipotenziari di tutti gli Stati europei per stipulare un trattato offensivo contro Venezia: la secretezza, con cui tutto ciò fu condotto al suo termine era stata veramente maravigliosa. Narrano gli storici nostri, che, sebbene il Papa fosse ansioso di ricuperare le città di Romagna, ch’erano in potere de’ Veneziani, tuttavia non sapeva accomodare l’animo suo al pensiero della futura grandezza dell’imperatore Massimiliano e del re Luigi XII (di Francia), e quindi

 Ivi, VII, p. 303; la scelta di Cambrai come luogo del convegno dei plenipotenziari per la stipula dell’accordo offensivo fu determinata, oltre che da esigenze di segretezza (la località era fuori delle grandi direttrici dei traffici), anche dal fatto che essa era “città imperiale” sotto il dominio del vescovo-principe, legato alla Francia ma feudatario imperiale; la città va famosa per altra conferenza internazionale, del 1529, dalla quale uscì la pace, detta Des deux dames perché conclusa da Margherita d’Austria, sorella dell’imperatore, e Luisa di Savoia, madre di Francesco I di Francia, in cui furono tracciate le zone di influenza politica in Europa e la spartizione dell’Italia (M. Arduino, s.v. Trattati internazionali, in Digesto Italiano, cit., XXIII, 1926, pp. 455-582: 537); la conferenza del 1509 non dovette colpire particolarmente se, nell’Histoire de Cambrai, a cura di L. Trénard, pubblicata dall’Università di Lille, ad essa non viene nemmeno fatto cenno: sulla Lega cfr F. Cipollini, La Lega di Cambrai, saggio storico, Catanzaro, Gaetano Silipo e C., 1909.

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20,00

ISBN 978-88-7115-919-5


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