Rappresentazioni alle soglie del vuoto. Estetiche della sparizione, Il Poligrafo

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a cura di Agostino De Rosa e Giuseppe D’Acunto

RAPPRESENTAZIONI ALLE SOGLIE DEL VUOTO Estetiche della sparizione

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saggi iuav collana di ateneo 3



rappresentazioni alle soglie del vuoto Estetiche della sparizione

a cura di Agostino De Rosa e Giuseppe D’Acunto

ilpoligrafo


Comitato scientifico per le iniziative editoriali dell’Università Iuav di Venezia Guido Zucconi (presidente), Andrea Benedetti, Renato Bocchi Serena Maffioletti, Raimonda Riccini, Davide Rocchesso, Luciano Vettoretto I volumi della collana Iuav - Il Poligrafo sono finanziati o cofinanziati dall’Ateneo I volumi della collana sono soggetti a peer review

Atti del Seminario internazionale di studi “Rappresentazioni alle soglie del vuoto. Estetiche della sparizione” Venezia, Palazzo Badoer, 22 aprile 2013 a cura di Agostino De Rosa e Giuseppe D’Acunto Scuola di Dottorato Iuav Dottorato in Composizione Architettonica, indirizzo Rappresentazione Gruppo di ricerca “Imago rerum” dell’Università Iuav di Venezia

progetto grafico Il Poligrafo casa editrice Laura Rigon copyright © giugno 2014 Università Iuav di Venezia Il Poligrafo casa editrice Il Poligrafo casa editrice 35121 Padova piazza Eremitani - via Cassan, 34 tel. 049 8360887 - fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it www.poligrafo.it ISBN 978-88-7115-857-0


indice

7 Premessa Perturbamenti, sovversione e regola nelle forme moderne della rappresentazione Alberto Ferlenga 13 Introduzione Danzando sul baratro: prospettiva come scacco della visione Agostino De Rosa 25 Phenomenological depth and representation in the works of Lequeu and Duchamp Alberto Pérez-Gómez 49 L’anamorfosi e i limiti dell’immagine: considerazioni fenomenologiche Paolo Spinicci 75 L’incapacità dell’opera di sparire, tra poetiche concettuali e permanenza del desiderio di immagini Angela Vettese 97 La materia del vuoto. Presenza di un’assenza Renato Bocchi 123 Relaciones de luz-silencio: espacios sonoros, espacios silentes Kosme de Barañano 145 Il divino codice segreto della magia artificiale: i trattati di Jean François Niceron Agostino De Rosa


183 Dal man.d.ala allo yantra: la via verso il vuoto Gian Giuseppe Filippi 215 Architectura civil recta y obliqua di Juan Caramuel de Lobkowitz: regola, geometria, trasgressione Giuseppe D’Acunto 271 Note biografiche degli Autori


premessa perturbamenti, sovversione e regola nelle forme moderne della rappresentazione Alberto Ferlenga

Il tema proposto dal seminario di studi “Rappresentazioni alle soglie del vuoto. Estetiche della sparizione” offre lo spunto per una serie di riflessioni riguardanti il modo con cui le immagini esercitano il loro peso nel mondo contemporaneo e la possibilità di ristabilire un equilibrio con esse attraverso nuove forme di rappresentazione. L’approccio multidisciplinare, scelto dai curatori, risulta di fondamentale importanza – e probabilmente, in termini speculativi, l’unico possibile – per cercare di affrontare questioni complesse come queste ricavandone elementi di utilità generale e non solamente dissertazioni accademiche, cosa particolarmente vantaggiosa in momenti di cambiamento come quello che stiamo vivendo. È ormai chiaro che tutto ciò che riguarda il peso della rappresentazione nel nostro tempo e, più in generale, il ruolo delle immagini, non può più essere affidato – come molte altre questioni che toccano da vicino l’architettura, l’arte, la critica – a punti di vista statici e limitati. Quando si ha a che fare con mutazioni repentine delle prospettive conoscitive, e in molti casi con veri e propri ribaltamenti dei canoni e dei confini consolidati delle diverse discipline artistiche, risultano di scarsa utilità convinzioni fisse e spesso usurate. Ogni cambiamento richiede interpretazioni nuove che, a loro volta, mutano la natura degli strumenti creativi e di quelli critici. Anche se può sembrare che le stesse idee ritornino, in un processo di alternanza apparente che costituisce una delle caratteristiche più evidenti del fatto artistico, è quantomeno l’intensità della spinta che le muove a cambiare, come ricordava Walter Benjamin, e la sua azione, a contatto con condizioni di sfondo in costante evoluzione, ci restituisce pensieri o strumenti a prima vista simili ai precedenti ma in realtà radicalmente mutati.


alberto ferlenga

Un testo che potrebbe a buon diritto essere usato come incipit a una discussione su questi temi è il celebre saggio di Pavel Aleksandrovicˇ Florenskij (1882-1937) La prospettiva rovesciata (ed. it. La prospettiva rovesciata e altri scritti, Casa del libro, Roma 1983). La tesi espressa da Florenskij è nota: la prospettiva, che ha impiegato centinaia di anni per affermarsi come strumento di restituzione della realtà, è un modo innaturale di rappresentare le cose. Gli “errori” nel suo utilizzo – voluti e ricercati sia da artisti che da semplici disegnatori – sono stati l’espediente attraverso cui una serie di personalità geniali si sono sottratte ai vincoli delle abitudini rappresentative e alle conseguenti “falsità” che un modo di immaginare – e quindi raffigurare – il mondo aveva progressivamente costruito per sperimentare una visione più vicina alla realtà. L’autore sostiene questa ipotesi di lavoro critico nel 1918-1919, anni in cui insegna presso il Vchutemas, la celebre scuola russa d’avanguardia, influenzando, tra l’altro, il punto di vista e l’azione di molti artisti e architetti. Tra questi, Ivan Il’icˇ Leonidov e altri protagonisti del movimento costruttivista la cui opera innovatrice difficilmente potrebbe essere compresa al di fuori delle sollecitazioni che in quegli anni provengono da campi quali la matematica o il disegno e da intellettuali “anomali” come, appunto, Florenskij. Solo vent’anni dopo, un altro personaggio, il francese Roger Caillois (1913-1978), al pari del religioso russo-ortodosso difficilmente inquadrabile in un settore specifico del sapere, affronta il tema del sovvertimento delle regole per ricercare uno spazio figurativo e fenomenico differente. Il suo è, però, un punto di vista apparentemente opposto a quello di Florenskij. Sono bastati pochi anni per cambiare il contesto culturale e Caillois, dal suo “eccentrico” (sia dal punto di vista culturale che geografico) esilio sudamericano, inizia a riflettere criticamente sulla questione intorno agli anni Quaranta. L’opera che meglio riassume questo approccio non convenzionale alle forme correnti della rappresentazione è il Vocabolario estetico del 1946 (ed. it. Babele, Marietti, Milano 1983). Reduce dall’ubriacatura surrealista lo scrittoresaggista ecc. lancia una sorta di rappel a l’ordre dopo la grande rivoluzione delle avanguardie. Articola (anche se in forma incom-


forme moderne della rappresentazione

piuta) un suo dizionario in quattordici lemmi, alcuni dei quali toccano direttamente questioni inerenti il tema dell’immagine. In esso Caillois pratica una sorta di ribaltamento del punto di vista “avanguardistico” alla ricerca di un nuovo equilibrio fra evidenza (ciò che ha a che fare con la convenzione) e sorpresa (ciò che deriva da un repentino ribaltamento di senso). Nell’arco di poco più di vent’anni, insomma, il peso delle immagini nel processo di formazione della modernità è aumentato talmente da rendere inutile l’atteggiamento provocatorio o “futurista” praticato nei loro confronti dalle avanguardie e tarato su una ben minore incidenza del problema. Ciò che poco prima poteva essere declinato nel senso dell’innovazione estrema rispetto a fenomeni ancora allo stato nascente, poco dopo già richiedeva la ricerca di un riequilibrio nel rapporto tra regola ed eccezione. E restiamo, pur sempre, nell’ambito esclusivo dell’arte o della letteratura d’avanguardia! Anche se le opinioni di Florenskij e di Caillois, due tra gli intellettuali più anomali e brillanti del Novecento, ci appaiono diametralmente opposte (mentre uno è attratto dal sovvertimento delle regole, l’altro ne cerca di nuove) hanno in fondo lo stesso obiettivo: quello di opporsi all’insidioso affermarsi dei luoghi comuni e delle abitudini culturali o formali di qualunque genere. Altri autori, in quegli stessi fertili anni, combattono una battaglia simile ricorrendo a vie non consuete. Se la matematica o la botanica, le pietre o i sogni sono per Florenskij e Caillois un modo per andare oltre l’evidenza, René Guénon (1886-1951), altra figura intellettualmente borderline, esplora il mondo incerto del mistero come elemento destabilizzante. In Il regno della quantità e i segni dei tempi (ed. it. Adelphi, Milano 1982), pubblicato nel 1945, scrive: «Ho paura di un mondo che ha paura del segreto». Dentro al testo, complesso e a tratti criptico come molti altri scritti dello studioso francese, alcune considerazioni riguardano da vicino il tema della rappresentazione. Si fa cenno, ad esempio, a come essa debba includere forme di non chiarezza, una sorta di mascheramento necessario a proteggere e rendere fertile il terreno iconografico. Un altro testo riprende questo stesso tema riportandolo, questa volta, al campo dell’architettura. Si tratta di Cittadelle di


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Antoine de Saint-Exupéry (1900-1944), scritto a partire dal 1936 e pubblicato nel 1948 (ed. it. ridotta Cittadella, Borla, Roma 1978), libro poco noto e mai portato a termine che lo scrittore-aviatore affida a un amico prima di intraprendere il suo ultimo volo che si concluderà tragicamente nel fondo del mar Tirreno. In una specie di frammentaria metafora dell’esistenza, l’autore del Piccolo principe, attraverso le parole del figlio di un sovrano berbero impegnato nell’opera di fondazione di una piccola città, spiega agli architetti come si dovrebbe costruire una casa. La casa – dice SaintExupéry attraverso i suoi personaggi –, che pure deve rispondere a criteri di funzione e di ordine, dovrà, malgrado ciò, prevedere al suo centro uno spazio privo di senso, un vuoto inquietante, un luogo senza usi previsti. Proprio a questo spazio spetta il compito di dare significato a tutto il resto. Il tema dell’“errore” o del segreto sarà presente, anni dopo, anche in Antichi maestri di Thomas Bernhard (1931-1989) pubblicato nel 1985 (ed. it. Adelphi, Milano 1992) la cui trama ruota intorno alle ostinate visite al Kunsthistorisches Museum di Vienna del vecchio professor Reger. Il professore ricerca l’“errore” all’interno di un celebre quadro del Tintoretto considerando questa l’unica possibilità di cogliere la verità della rappresentazione, altrimenti celata dietro la sostanziale “incomprensibilità” della composizione d’insieme. Nell’arco di tempo che ci separa dagli ultimi di questi scritti il mondo è cambiato in modo radicale. Il peso delle immagini e la varietà della loro rappresentazione hanno superato ogni possibile previsione, incrementando la loro incidenza su ogni aspetto dell’esistente. Le riflessioni che riguardano, alternativamente, il ritorno delle forme alla loro origine o un loro ennesimo sovvertimento appaiono ormai come opportunità complementari di approccio, senza che nessuna delle due possa più ambire a ritrarre un’epoca o a essere alternativa all’altra. In effetti, non vi è più nulla di provocatorio ai nostri tempi e le idee stesse di avanguardia o di reazione applicate alle arti hanno perso gran parte del loro significato destabilizzante. Sovvertire le regole o ricostruirne di nuove sono azioni di uno stesso necessario processo di aggiustamento delle posizioni interpretative, strumenti che un secolo


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di avventure intellettuali ci ha lasciato in eredità. L’esaurimento delle ideologie che ha caratterizzato la fine del Novecento ce li mette a disposizione come strumenti “assoluti” da usare, alternativamente o insieme, quando li si ritenga utili per rompere forme di immobilismo o superare momenti di crisi. Nel saggio Babele, contenuto nel già citato Vocabolario estetico di Caillois, si può trovare un frammento particolarmente significativo rispetto alla necessità di alternare momenti di accelerazione a momenti di ripensamento. Si intitola Cordicelle annodate e racconta come i cinesi, in età preistorica, comunicassero attraverso nodi, diversamente spaziati, eseguiti su dei fasci di cordicelle. L’autore ci spiega come questo metodo assicurasse la necessaria distanza tra le cose, i loro significati e le forme della loro comunicazione. In seguito, scrive Caillois, la nascita del linguaggio, parlato e scritto, ha ridotto questo stacco mettendo contemporaneamente in pericolo il senso vero delle cose. Caillois cita questo passaggio storico per indurci a riflettere sulla necessità di tornare a forme di rappresentazione o comunicazione che ristabiliscano distanze equilibrate ridando profondità all’espressione, sia essa artistica, letteraria, architettonica. Magari ricorrendo, ancora una volta, a “errori”, “aberrazioni”, “segreti”, “silenzi”, purché liberi da ogni compiacimento tecnico, ideologico o formale e seriamente destinati a cogliere e comunicare sempre meglio ciò che delle cose ci è dato di conoscere.



introduzione danzando sul baratro: prospettiva come scacco della visione Agostino De Rosa

Il tema dell’immagine nella cultura occidentale si palesa come centrale sin da epoche remote: il cardine prospettico – come lo ha definito altrove Alberto Pérez-Gómez – e l’esigenza del realismo visivo hanno permeato di sé secoli di produzione iconografica, stabilendo un canone cui l’artista, e più in generale colui che rappresenta, si è sentito vicariamente vincolato. Ma l’immagine così costruita riesce ad assumere, nel complesso arco della storia della rappresentazione, un particolare significato obliquo allorquando si pone in una condizione liminare in cui non sempre appare chiaramente il suo senso: scatenando meccanismi associativi, suscitando rimandi all’altro da sé, essa riesce a condurci in prossimità di una soglia oltre la quale compare epifanicamente il perturbante . Fruizioni stenopeiche, deformazioni improvvise, viraggi cromatici o semplicemente riduzioni “ad arte” di alcuni elementi di riconoscibilità ottica stravolgono la narrazione lineare e continua, associabile criticamente alla prospettiva, introducendo uno iato fruitivo e percettivo che consente di scardinarne il senso. Su questo gap semantico, presente sia nelle espressioni figurative del passato sia in quelle contemporanee, tanto a est quanto a ovest, si sono misurati gli interventi del seminario interdisciplinare intitolato “Rappresentazioni alle soglie del vuoto”, tenutosi a Venezia nell’aprile del 2013 e di cui questo volume dà conto.

Cfr. A. Pérez-Gómez, L. Pelletier, Architectural Representation and The Perspective Hinge, MIT Press, Cambridge (MA) 1997.  Cfr. A. Vidler, Il perturbante dell’architettura. Saggi sul disagio nell’età contemporanea, Einaudi, Torino 2006.


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Da osservatori disciplinari diversificati, i relatori sono stati invitati a offrire spunti di riflessione che hanno spaziato dall’uso della prospettiva nell’opera di Jean-Jacques Lequeu (1757-1826) e Marcel Duchamp (1887-1968) (Pérez-Gómez) alla dimensione immaginativa e percettiva dell’immagine (Spinicci); dal ruolo che assenza e ombra giocano, come elementi attivi, nell’opera di Jorge Oteiza (1908-2003) e di Claudio Parmiggiani (1943) (Bocchi) all’estetica della sparizione e dell’assenza nella scultura contemporanea (de Barañano); dall’idea di obliquazione del visibile (D’Acunto) all’impossibilità dell’opera d’arte di cancellarne i confini fisici e semantici (Vettese), per concludersi con un esame critico sullo statuto delle depravazioni prospettiche (De Rosa) e sulla natura liminale del vuoto nella cultura estremoorientale (Filippi). Come si evince da questa breve disamina dei contributi che il lettore troverà fedelmente riprodotti nel volume, il nucleo di riflessione proposto dal seminario era costituito dall’idea di rappresentazione così come si è andata definendo sia in Occidente sia in Oriente (o, più precisamente, negli Orienti). Come suggerisce la stessa etimologia del termine (dal composto latino re-ad presentare, “rendere presenti cose passate o lontane”), la rappresentazione è stata intesa in questa sede critica come un’operazione teorico-applicativa che coinvolge un’azione mnesica – biologica o meccanica – nel suo tentativo di restituire, attraverso immagini significative, alcuni aspetti – formali, metrici, strutturali o simbolici – di un oggetto reale o solo immaginato. La rappresentazione, dunque, si esercita in absentia rispetto all’oggetto o all’idea di esso, essendone, in termini rigorosamente geometrico-descrittivi, la proiezione, e misurando continuamente, attraverso la rete di segni che la configura, lo scarto tra una struttura rigorosamente formalizzata – quella del disegno appunto – e la realtà, pur’anche quella del pensiero, fortemente caratterizzata per la sua natura stocastica. La rappresentazione è dunque il segno sensibile di una lontananza che separa il mondo della descrizione da quello dell’esperienza, e tuttavia in questo gap, a un tempo qualitativo e quantitativo, emergono valori e aporie che la rendono indispensabile al mondo del progetto e a quello della sua


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comunicazione. Già Leon Battista Alberti (1404-1472) nel suo De re aedificatoria  (1450) sottolineava il ruolo strategico svolto dall’azione intellettuale e astratta della definizione dei lineamenti (libro I, 7), costruzioni proiettate nella mente dell’architetto e disposte dall’autore in antitesi con quelle materiali svolte nel mondo fenomenico, dando così la stura a un’ininterrotta querelle nella quale spesso la rappresentazione è stata vista come luogo dell’assenza, dominio simmetrico a quello della concretezza tettonica dell’edificio. Sembrano dunque decisamente impervi i sentieri che l’idea di architettura è costretta ad attraversare nel passaggio dal disegno alla realtà materiale della sua costruzione: sono percorsi accidentati, segnati da una forte tensione dialettica tra una disciplina che esiste senza la necessità di ingerenze eteronome che ne definiscano l’ambito di competenza – il disegno – e l’evidenza materica e tattile che ogni opera affida alla sua “presenza” fisica in un campo: il costruito. Ogni slittamento da un ambito all’altro, ogni fraintendimento sul ruolo reciproco di questi due elementi sembra derivare dalla volontà di stabilirne la precedenza ontologica, di identificarne l’anzianità e perciò il carattere originario dell’uno rispetto all’altro. È possibile che l’architettura nasca senza il disegno? Il disegno precede la nascita della disciplina tettonica? Domande senza risposte, se non risposte faziose. Il sistema di pensiero occidentale nel suo procedere errabondo per opposizioni sembra aver privilegiato questa dicotomia e separatezza, avallando l’idea che l’una disciplina possa incidere sull’altra, definendone circolarmente i destini. Così la prospettiva rinascimentale diventa quell’altissima espressione geometrica e grafica che incarna il coagularsi di idee e riflessioni su uno spazio architettonico e umano pensato “isotropo e omogeneo”, la qual cosa può trovare consensi fin quando si parla di rappresentare e costruire un elemento che si ritiene – che la filosofia, la religione, la scienza, l’arte ritengono – reale: Pienza e la sua splendida piazza rinascimentale sono la fisica traduzione di un principio compositivo che si ispira a un modus videndi et pingendi appena omologa Cfr. L.B. Alberti, L’arte del costruire, a cura di V. Giontella, Bollati Boringhieri, Torino 2010.


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to agli inizi del Quattrocento; le scansioni di un palazzo signorile coevo registrano, sui fronti principali, variazioni dimensionali che saldano l’idea di proporzione alle considerazioni sulle grandezze apparenti ripescate in epoca umanistica direttamente da Euclide. Ma cosa succede quando il compito dell’artista è quello di rappresentare un oggetto che si ritiene non abbia una consistenza fisica? Come disegnare i confini, i contorni apparenti di essenze la cui evanescenza sfida quella dei sogni? Il disegno, un sistema di segni fortemente astratto, può prefigurare una realtà altra, ancora più astratta del mezzo con il quale la si intende rappresentare? Forse in Occidente simili domande si sono poste all’attenzione della speculazione artistica – e di quella architettonica – solo in epoca recente, allorché il primato dell’oggettività e del realismo ha ceduto il passo alla pura visibilità e alla pura percettività. Liberandosi dai cascami accademici che imponevano a una figurazione di descrivere qualcosa, la rappresentazione ha acquistato maggiore libertà ma ha perso, al contempo, ogni statuto di riferimento, ogni sistema di coordinamento generalizzato: i suoi segni non parlano più un esperanto, ma i mille dialetti della cultura planetaria. Non necessariamente ciò si risolverà in una menomazione; anzi, le premesse per una nuova sensibilità del “rappresentare” sembrano ormai prossime a esprimere cambiamenti di portata epocale, ma è indubbio che questa crisi contingente dei linguaggi trascini con sé ciò che di originario e archetipico esiste nel segno grafico e nel suo contenuto esistenziale. La realtà virtuale sembra indicare una strada sinestetica nel sogno di unire a una proiezione di immagini – fortemente allusive della tridimensionalità – l’illusione del tatto, dei rumori e, ben presto, degli odori; a quel punto perderà senso il termine rappresentare, dal momento che l’esperienza percettiva reale e quella virtuale coincideranno, confondendosi vieppiù. Nuovi termini e nuovi parametri allora si dovranno inventare per descrivere – ma avrà ancora significato 

Secondo Euclide la grandezza apparente di un oggetto è direttamente proporzionale all’angolo visivo sotto il quale si vede l’oggetto stesso. Cfr. A. Sgrosso, Il problema della rappresentazione dello spazio attraverso i tempi, Stabilimento poligrafico IEM, Napoli 1984, pp. 13-19.


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questo termine? – un’esperienza che Elémire Zolla ha avvicinato a quella sciamanica di “uscita dal corpo”. Tuttavia, è innegabile che anche la rappresentazione tradizionale – e a certi livelli estetici – riesca brillantemente a sottrarci a questo tipo di coscienza diurna, al nostro mondo quotidiano: quanti di noi sono stati presi dalla dolcezza di un disegno di Leonardo da Vinci, dalla sapiente struttura grafica dei disegni di Piero della Francesca? Quanti hanno partecipato quasi fisicamente alla poesia dei luoghi osservando l’immagine della casa Kaufmann di Frank Lloyd Wright? Certo, quei disegni descrivono qualcosa o qualcuno assolvendo così a un ruolo istituzionale, ma si avverte quanto questo aspetto sia poco importante e secondario: essi celano, dietro ritratti ed edifici splendidamente tratteggiati, un messaggio criptico di cui l’opera stessa ci fornisce inconsciamente la chiave. L’abbandono e la contemplazione paiono essere l’unico modo per decifrare la geografia subliminale che si nasconde dietro una tale rappresentazione. Se, come si diceva, l’Occidente ha iniziato a riflettere con consapevolezza su questi temi solo in tempi relativamente recenti, esso ha tuttavia accumulato una serie di interpretazioni sull’idea di rappresentazione – intesa come modello di analisi del reale – che sfida, per ampiezza, la ciclopica estensione della borgesiana biblioteca di Babele. Così, l’assunto che la rappresentazione possa celare un messaggio riposto, un’analisi in vitro della realtà apparente per far emergere una realtà nascosta, si è opacizzato, nel nostro emisfero geo-culturale, grazie a una serie di sovrastrutture interpretative viziate dall’ideologia imperante del momento. L’estremo Oriente sembra invece proporsi ai nostri occhi in uno stato aurorale rispetto alla nostra idea di rappresentazione: nonostante i guasti prodotti, anche in quei lontani paesi, dalla tendenza all’omologazione planetaria, vi si riscontra ancora una sorta di purezza di intenti e di semplicità di mezzi. Se ci riferiamo alla tradizione rappresentativa della Cina e del Giappone prima

 Cfr. E. Zolla, Uscite dal mondo, Adelphi, Milano 1992: in particolare, si rimanda al capitolo intitolato “Il futuro alle soglie”, pp. 19-31.



l’incapacit dell’opera di sparire, tra poetiche concettuali e permanenza del desiderio di immagini Angela Vettese

Ho il sospetto che tutti abbiamo un sospetto: da secoli ruminiamo intorno alla paura dell’immagine, un tema che caratterizza la nostra civiltà dall’origine e che, a spinte periodiche, ritorna sotto diverse forme. La conosciamo attraverso la Bibbia (a partire dall’episodio del vitello d’oro) e dunque le tre religioni rivelate, benché in area cristiana la condanna non sia stata radicale e anzi, con il Concilio di Trento (1545-1563), il cattolicesimo abbia insistito sull’immagine come propria privilegiata via di comunicazione. Sappiamo peraltro che la condanna delle immagini non si trova solo nella Bibbia, ma anche in molta parte della tradizione filosofica classica a partire da Platone e fino a Hegel. Ancora oggi, decise prese di distanza dall’immagine si sostanziano nella difficoltà con cui essa viene accolta a livello universitario, laddove non si tratti di studiarne la storia ma di imparare a produrla. Le ondate di repulsione verso l’iconico hanno trovato un’attualizzazione nel Novecento, secolo in cui è possibile rinvenire alcune delle più importanti prove di iconoclastia operata dagli artisti medesimi. Iconoclastia nel senso di sospetto nei confronti del fare una nuova immagine, operazione che però può essere ribaltata nel suo contrario. Un esempio significativo è fornito da Ruota di bicicletta (1913) di Marcel Duchamp (1887-1968), indicato erroneamente come il primo ready made anche se appare come un assemblage, commento ironico alla scultura fissa da piedistallo. Così com’è scorretto parlare di ready made riguardo a Fountain (1917), il famoso orinatoio, poiché non si tratta di un’opera realizzata con un oggetto prelevato dal mondo reale e trasportato tel quel nel mondo dell’arte: è stato infatti rinominato e appoggiato nella parte


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che normalmente è collocata a parete. L’unico vero ready made che sia mai esistito è dunque Rack Bottle (1914), il solo che non sia stato “aiutato” nel linguaggio duchampiano: l’oggetto è stato infatti solo spostato dal suo contesto originario non subendo cambiamenti di forma né di senso, come recita anche il suo didascalico titolo. Porrei accanto alle opere di Duchamp le Brillo boxes (1970) di Andy Warhol (1928-1987), oggetto di numerose meditazioni filosofiche da parte, soprattutto, di Arthur C. Danto, Benjamin H.D. Buchloh, Rosalind Krauss, Yves-Alain Bois, i quali hanno ragionato a lungo sul significato di quest’opera-non opera e, in generale, sul prelievo nell’arte dal mondo quotidiano, sulla trasfigurazione del banale, per citare il famoso saggio The Transfiguration of the Commonplace (1981) di Danto; in questa prospettiva critica l’ovvio “verrebbe” prelevato appunto dal mondo e portato nell’arte senza affatto mutarne le caratteristiche. Allora, come già detto, le due opere di Duchamp – Ruota di bicicletta e Fontana – non sarebbero due prelievi, l’artista avendo agito su di essi. Le Brillo boxes di Andy Warhol riprendono il layout elaborato da James Harvey (1929-1965), un pittore che fu costretto a diventare famoso come graphic-designer, ma in questo caso ci troviamo di fronte alla proposta di un manufatto nuovo, cioè fatto a mano, in legno, e non all’oggetto seriale – lo scatolone per pagliette con il logo di Harvey – di produzione industriale: si tratta insomma, nella versione di Andy Warhol, di sculture realizzate non come semplici riproduzioni della grafica originale, ma di sue riproposizioni serigrafiche, caratterizzate talvolta anche da irregolarità, da volute mancanze di registro e quindi caratterizzate da un intervento dell’artista, minimale ma preciso, deciso, voluto sulla estetica stessa dell’opera. Anche in questi casi abbiamo una serie di testi che ci aiutano nell’interpretazione: quando Marcel Duchamp confessa a Calvin Tomkins, in Marcel Duchamp: The Afternoon Interviews (1964), «I never intended to sell my ready mades» ammette in un certo senso che egli non ha mai inteso i suoi ready made come opera d’arte; del resto consultando le Effemeridi su e a proposito di Marcel Duchamp, 1887-1968 – contenute nel catalogo della mostra tenutasi a Palazzo Grassi nel 1993 –


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è possibile trovare più di un’affermazione in questo senso, cioè di negazione del ready made come opera d’arte: più avanti Marcel Duchamp afferma «I do not believe in speed in artistic production, I do not believe in rapidity», definendo così l’opera d’arte come “ritardo” (retard), qualcosa che si fa in modo assolutamente lento, che non ha a che fare con il “retinico”, col “guardare” ma che implica soprattutto il “pensare”. Duchamp quindi mai avrebbe accompagnato la propria attività artistica con la rapidità dello sguardo che noi normalmente dedichiamo a un ready made. Per capire meglio questi aspetti dobbiamo rifarci a ciò che Victor Stoichita definisce, in L’invenzione del quadro (2004), il «negativo tematizzato», cioè il trasformare in centro dell’opera il negativo, il “non fare”: in altri termini il porsi delle questioni intorno al fare e a ciò che implica la sua negazione. Stoichita ci aiuta a interpretare questo atteggiamento estetico citando una serie di esempi celebri, tra cui la famosa rappresentazione del retro di una tela in Las Meniñas (1656) di Diego Velázquez (1599-1660): l’opera costituisce una delle prime occasioni in cui compare un non-fatto, un luogo del fare, un luogo dell’ancora da farsi, un topos che poi, in tempi recenti, sarebbe stato ripreso da molti artisti contemporanei, tra i quali va citato Giulio Paolini: proprio a lui, infatti, si devono i primi esperimenti con la squadratura del foglio (1961), quando ancora le poetiche concettuali di Joseph Kosuth, Bruce Nauman, Sol LeWitt e di altri concettuali erano all’alba. È bene precisare, peraltro, che anche la corrispettiva attenzione al “fare” è rimasta sempre centrale per gli artisti di questo periodo: una delle metafore attraverso le quali si è sempre parlato di “fine dell’arte” o “fine della rappresentazione” – ambiti di indagine che spesso (erroneamente) si sovrappongono –, è stata quella della “fine della tecnica”. Un fenomeno che non si è mai registrato, come comprovano anche diversi saggi tra cui citerei due classici: La forma del Tempo (1976) di George Kubler e il più recente L’invenzione dell’arte (2001) di Larry Shiner. In entrambe le opere si sottolinea come l’effetto “tecnica” sia sì cambiato nel tempo ma, lungi dallo scomparire, abbia semplicemente seguito i cambiamenti della tecnologia: in questa prospettiva esegetica l’opera d’arte è sempre


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stata realizzata in modi diversi, rasentando anche il vuoto, lo zero tecnico, il nulla. Eppure, anche davanti al nulla l’artista ha sempre posto un “quasi”; e questo “quasi” è sempre stato animato dalle innovazioni nell’uso della tecnica e, in una prospettiva mcluhaniana, da una reazione alle nuove tecnologie. I passaggi fondamentali della cosiddetta smaterializzazione dell’arte sono stati appunto la nascita dell’arte come supposto (ma quasi mai totale) ready made, come tautologia (l’arte che parla dell’arte), dell’arte sine materia (l’arte come mera processualità). Si pensi in tal senso alle varie proposizioni di Joseph Kosuth intitolate tutte Art as idea cominciate nel 1965, oppure alla mostra “Nine” presso la galleria di Leo Castelli (1968) in cui l’operazione più esemplare è stata quella eseguita da Richard Serra attraverso uno splashing di piombo: l’artista gettava del piombo fuso contro un muro, nel punto in cui la parete incontra il pavimento, lasciando che si asciugasse, per poi eliminare questa “scultura” dal muro stesso; in tal modo ogni immagine, ogni rappresentazione veniva annullata da questo grado secondo, grado in potenza del dripping di Pollock. Manifestazioni come queste sono state prima raccolte nel testo di Lucy Lippard intitolato Six Years: Dematerialization of the Art Object 1966-1972 (1997), e poi organizzate museograficamente nella mostra “When Attitudes Became Form Become” (Bern Kunsthalle, 1969) a cura di Harald Szeemann, dove appunto raccoglievamo lavori ancora sospesi tra processualità e mancanza di materia. Più recente (2011) è ancora la bellissima mostra itinerante “In Deed: Certificates of Authenticity in Art”, curata da Susan Hapgood e Cornelia Lauf, dedicata a certificati di autenticità delle opere, le cui motivazioni vanno ricercate nel fatto che, in questo lungo lasso di tempo che va dagli anni Venti a oggi, alcune opere si sono presentate solo sotto forma di “certificato”, di “pezzo di carta” e talvolta anche senza il “pezzo di carta”. Pezzo di carta era, ad esempio, quello che Piero Manzoni redigeva quando stabiliva che una persona era un’opera d’arte (esemplari i casi di Umberto Eco o Mario Schifano) fornendogli un certificato per attestarlo: non esistevano altri elementi materiali dell’opera, ma solo un certificato immateriale, talvolta soltanto orale, che lo attestasse.


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Lo stesso atteggiamento si registra oggi in alcuni artisti che, inseguendo il processo di demercificazione, tendono a ridurre l’opera a solo processo e quindi a sola performance. Ma tutti questi esempi non sono forse controprove, cioè eccezioni che confermano la regola? La sensazione è appunto questa: che esse siano delle eccezioni che confermano la regola di un desiderio di esecuzioni innovative, e creazioni di immagini, anche in relazione alle nuove tecnologie. Pensiamo al caso emblematico del Monumento alla Terza Internazionale (1919) che Vladimir Tatlin (1885-1953) non riuscì mai a vedere realizzato e che non era solo un’elicoide lignea che si innalzava verso l’alto, in un anelito di infinito, ma era soprattutto una ricetrasmittente: alla sommità dell’opera infatti doveva essere collocata una radio che riceveva e trasmetteva, assumendo in sé tutte le caratteristiche della torre dell’orologio, del campanile, del minareto, ovvero della torre sacra (sacra in questo caso al popolo, al comunismo, all’Unione Sovietica) e che effettivamente si sarebbe dovuta realizzare in acciaio e con molti motori. Una simile opera era decisamente visionaria da immaginare per quel tempo perché solo oggi avremmo gli strumenti per portare davvero a compimento quel genere di potenzialità. Altra opera interessante in questo senso è il Merzbau di Kurt Schwitters (18871948) elaborato fino al 1936 e concepito come il diario di una vita: si tratta dello studio di un artista il quale decide, giorno dopo giorno, di entrare nella stanza deputata al proprio lavoro e di aggiungerci un finto contrafforte, una lettera, la missiva di un’amica, una ciocca di capelli, il biglietto del tram, grotte dedicate a Johann Wolfgang von Goethe, piuttosto che all’amore o ad altre tematiche esistenziali. In ogni caso l’opera si costituisce secondo una dinamica in progress che crea un’immagine e, appunto, una nuova maniera di concepire la manualità tra architettura e rappresentazione scultorea e, talvolta, anche rappresentazione pittorica. L’opera andò distrutta in un bombardamento nel 1943, e poco possiamo ipotizzare sulla sua vera natura, se non basandoci sulle poche foto d’epoca e sulle descrizioni dell’autore: sono state tentate molte ricostruzioni ma non abbiamo abbastanza documenti per sapere cosa davvero contenesse. Avvicinandoci ai nostri


angela vettese

1. Marcel Duchamp, Ruota di bicicletta, 1913

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2. Marcel Duchamp, Fountain, 1917

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angela vettese

3. Marcel Duchamp, Rack Bottle, 1914

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4. Andy Warhol, Brillo boxes, 1970

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angela vettese

5. Diego Velázquez, Las Meninas, 1656, Madrid, Museo Nacional del Prado

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6. Dan Flavin, Varese Corridor, 1976

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la materia del vuoto. presenza di un ’assenza Renato Bocchi

Si ha un bel lavorare l’argilla per fare vasellame, l’utilità del vasellame dipende da ciò che non c’è. Si ha un bell’aprire porte e finestre per fare una casa, l’utilità della casa dipende da ciò che non c’è. Così, traendo partito da ciò che è, si utilizza quello che non c’è. Tao Te Ching, Il libro della Via e della Virtù

Facendo riferimento alla tradizione taoista e zen giapponese, Giorgio Pasqualotto ci ricorda che il “vuoto” (wu) si presenta sempre con una connotazione dialettica. Wu rimanda a una assenza determinata, nel senso di “qualcosa che non c’è”, ovvero a un vuoto determinato, nel senso di “ciò che, in qualcosa, non c’è” [...], segnala cioè sempre la presenza e l’efficacia del vuoto-di-qualcosa.

Il “quadrato nero su fondo bianco” suprematista di Malevich, illustrando in certo modo un concetto similare («forma della sensibilità non oggettiva» – lo chiama Malevich) si può considerare alle origini della ricerca dell’arte contemporanea sullo spazio.

 G. Pasqualotto, Estetica del vuoto. Arte e meditazione nelle culture d’Oriente, Marsilio, Venezia 1992, p. 6.


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Lo spazio “disoccupato” Un cerchio vuoto riluce fra le pietre. Vi si riflette immobile il cielo. Haiku n. 1

È a Malevich che palesemente si richiama il “proposito sperimentale” dello scultore basco Jorge Oteiza, oltre che a una forma archetipica ben più antica: il cromlech neolitico basco. Si chiede Oteiza: Quale è la vera natura del cromlech? [...] È una costruzione puramente metafisica, simbolica e spirituale [...], per cui esso significa la creazione più pura e più alta che sia possibile concepire e determinare in un linguaggio estetico [...] L’uomo, nella nostra tradizione basca, sta al bordo del circolo e fuori da esso [...] e il circolo non risponde tanto a un simbolismo geometrico quanto a una metafisica dell’esistenza.

La scultura di Oteiza, proseguendo la rivoluzione della pittura di Malevich, vuol transitare dalla statua-massa tradizionale alla statua-energia del futuro, dalla statua pesante e chiusa alla statua superleggera e aperta, alla trans-statua.

Per ottenere questo risultato, Oteiza mette in atto un procedimento di “disoccupazione” dello spazio, analogo a quello generato dal circolo neolitico del cromlech. Il vuoto è qualcosa che si ottiene (come succede in Fisica, il vuoto non esiste). È una risposta estetica legata alla fase di “disoccupazione” spaziale. Il vuoto viene a essere la presenza di un’assenza. [...] Lo spazio vuoto come appartamento spirituale, come ricettività (termine che si contrappone a quello di espressività, allo stesso modo in cui il concavo sta al convesso), lo spazio vuoto dunque

 J. Oteiza, Quousque tandem...! Ensayo de interpretación estetica del alma vasca, Txertoa, San Sebastian 1963.  J. Oteiza, Del escultor Oteiza, por el mismo, Cabalgata, Buenos Aires 1947.


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come barriera e neutralizzazione o difesa dall’aggressività esteriore dell’espressività e dei cinetismi, a favore dell’uomo.

Lo spazio vuoto “ricettivo”, come lo definisce Oteiza – che si ottiene alla fine di questo processo di “svuotamento”, di “disoccupazione” – vuole essere dunque uno spazio statico, acquietante e contemplativo, uno spazio-rifugio. Spiega l’autore: Se la scultura attuale tende a immaginare il movimento e a produrlo, confondendosi con la natura o con l’uomo stesso, io cerco invece per la statua una solitudine vuota, un silenzio spaziale aperto, che l’uomo possa occupare spiritualmente. [...] Ho bisogno di rompere la connessione del tempo con lo spazio, ossia di trasformare lo spazio della realtà esteriore in uno spazio di realtà interna, in una spazialità immobile, che vuol dire capace di vivere fuori del tempo.

Concretamente, il procedimento di Oteiza opera scomponendo dei solidi platonici virtuali (il cilindro, il cubo, la sfera) mediante il loro sezionamento attraverso piani bidimensionali, che l’autore denomina non a caso “Unità Malevich”. Mediante tali unità bidimensionali lo spazio vuoto viene “disoccupato”, svuotato e in certo modo immobilizzato, reso visibile nella sua statica “vuotezza”. Il “processo sperimentale” attuato è dunque un processo “dinamico”, certamente apparentato con i procedimenti costruttivisti dell’avanguardia sovietica, che mira tuttavia a un finale “stato di quiete”. Lo spazio vuoto di Oteiza è, in ultima istanza, uno spazio immobile, ottenuto per costruzione (geometrica e astratta) attraverso quel processo che egli chiama esplicitamente di “disoccupazione spaziale”, quasi un procedimento di creazione del vuoto pneumatico. Lo spazio vuoto è – come il cromlech neolitico – una stanza costruita artificialmente e geometricamente, tendente alla staticità contemplativa, metafisica.

J. Oteiza citato in C. Catalan, Oteiza. El genio indomenable, Ibercaja, Zaragoza 2001, p. 26.  J. Oteiza, Hacia un arte receptivo (1959), in Espacialato. Oteiza, catalogo Sala Garcia Castañon, Pamplona 2000, pp. 123-124.


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Si tratta – mi pare di poter dire – di un’esperienza che, di nuovo richiamando l’estetica zen, si avvicina – per l’utilizzazione di un processo di svuotamento – a quella della meditazione trascendentale. Non a caso, secondo le parole di Oteiza: La grande invenzione nella scultura e in tutta la ricerca artistica, come obiettivo spirituale, non è il movimento ma la quiete concepita come silenzio-totem.

La ricerca di questo «silenzio spaziale aperto» – come altrove Oteiza lo chiama – si ripete nell’esperienza di progetto architettonico che egli compie prima con Saenz de Oìza nel concorso per una cappella di Santiago e poi col catalano Roberto Puig nel concorso del 1959 per un memoriale allo statista José Batlle y Ordoñez a Montevideo. Quest’ultimo progetto si compone di tre pezzi “facili”: un prisma, una trave volante e una piastra. Egli scrive nella relazione del progetto: Pretendiamo che non ci sia un centro di gravitazione ma piuttosto un campo di gravitazione, uno chiuso dall’architettura e l’altro aperto e definito dalla piattaforma, che è una piastra orizzontale flottante e oscura [...] con una sensazione vuota, orizzontale e recettiva [...] quasi una stele funeraria che sottolinea il silenzio di un luogo di raccoglimento e meditazione.

È estremamente interessante vedere come – nel modello dell’ultima versione del progetto – Oteiza pretenda di rappresentare uno spazio virtuale cubico sopra la piattaforma di pietra nera, a dimostrazione tangibile del suo intento di dimostrare come il vuoto spaziale sia la vera materia prima del progetto e pertanto il modo più preciso di percepire lo spazio sacro del memoriale, proiettato come il cromlech verso una dimensione cosmica. Potremmo accostarlo, per certi versi, alla ricerca di volumi virtuali di luce di alcune prime opere di James Turrell o a quella 

J. Oteiza citato in M. Pelay Orozco, Oteiza, su vida, su obra, su pensamiento, su palabra, La Gran Enciclopedia Vasca, Bilbao 1978, p. 194.  J. Oteiza (1956) citato in F. Moral Andrés, J. Oteiza. Arquitectura desocupada. De Orio a Montevideo, UPNA, Pamplona 2011, p. 87.


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altrettanto cosmica sviluppata più tardi nei suoi Skyspace e nel suo lavoro megalitico al Roden Crater. Il tema della grande piattaforma vuota torna nel 1986 nell’ultima prova architettonica di Oteiza con l’architetto Daniel Fullaondo: il concorso per un cimitero mitico basco a San Sebastian, sviluppato – secondo le sue stesse parole – in forma di «pista di decollo aeroportuale, disoccupata». Ma un simile procedimento di “disoccupazione dello spazio” può in qualche modo essere rintracciato anche in altre opere di architettura contemporanea. Penso a certi spazi scoperchiati e orientati in maniera privilegiata verso il cielo dei progetti di Alberto Campo Baeza, dai vuoti patii delle sue case unifamiliari alla cassa di vetro degli uffici della Giunta di Castilla y Leon a Zamora, fino ad alcuni suoi recenti edifici-piastra, come la casa a Zahara. Penso egualmente a certi spazi dilatati, di nuovo nella dimensione orizzontale della piattaforma, progettati da Souto de Moura, come nel lungomare di Matosinhos o nella casa a Moledo, o ancora a taluni autentici “svuotamenti”, con cui lo stesso autore opera la riconfigurazione di edifici preesistenti, come nel monastero di Santa Maria de Bouro o più ancora nel Museo dei Trasporti alla dogana di Porto. 2.

Lo spazio “congelato” Fra i miei occhi e il tuo volto una parete di luce. L’inverno ha congelato nell’aria fiocchi di neve. Haiku n. 2

Tornando all’opera di Jorge Oteiza, vorrei introdurre ora una seconda interpretazione dello spazio vuoto che è fornita da un capitolo meno conosciuto del suo “proposito sperimentale”: mi riferisco alla sua ricerca attorno all’ipotesi di pared-luz, ossia di una superficie vuota nella quale si muovono diversi elementi bidimensionali e flottanti, composta dalla sovrapposizione di ve-


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1. Jorge Oteiza, Caja vacia, 1958 (da Oteiza, ed. by C. Catalan, IberCaja, Zaragoza 2001)

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2. Jorge Oteiza e Roberto Puig, Modello del progetto di concorso per un memoriale a José Batlle y Ordoñez a Montevideo, 1957 (da F. Moral Andrés, Oteiza. Arquitectura desocupada, UPNA, Pamplona 2010)

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3. Eduardo Souto de Moura, Casa a Moledo, Portogallo, 1991-1997 (da «2G», 5, 1998)

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la materia del vuoto. presenza di un’assenza

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4. Jorge Oteiza, Maquetas en vidrio para el estudio de la pared-luz, 1956 (da Oteiza: mito y modernidad, ed. by M. Rowell, T. Badiola, FMGB Museo Guggenheim, Bilbao 2004)


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ISBN ----

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