La Sicilia i sogni le città. Giuseppe Samonà e la ricerca di architettura, Il Poligrafo

Page 1

Cesare Ajroldi

LA SICILIA I SOGNI LE CITTÀ

GIUSEPPE SAMONÀ E LA RICERCA DI ARCHITETTURA con scritti di Giuseppe Samonà

IL TEMPO E LE OPERE ILPOLIGRAFO



il tempo e le opere saggi e ricerche di architettura collana diretta da Daniele Vitale

2



Cesare Ajroldi

la sicilia i sogni le città giuseppe samonà e la ricerca di architettura con scritti di Giuseppe Samonà introduzione di Daniele Vitale

ILPOLIGRAFO


Il volume è stato realizzato con il contributo di: MIUR, ricerca PRIN 2008 Istituto Gramsci siciliano Assemblea Regionale Siciliana Ordine degli architetti, pianificatori, paesaggisti, conservatori della provincia di Palermo

a mio nipote Cesare e in memoria di Pietro e Letizia Ajroldi

progetto grafico Il Poligrafo casa editrice Laura Rigon copyright Š maggio 2014 Il Poligrafo casa editrice 35121 Padova piazza Eremitani - via Cassan, 34 tel. 049 8360887 - fax 049 8360864 www.poligrafo.it e-mail casaeditrice@poligrafo.it ISBN 978-88-7115-792-4


indice

7

Introduzione Negli occhi punte aguzze di sole Daniele Vitale

15

Racconto di Giuseppe Samonà

19

Gli anni tra le due guerre

45

Il dopoguerra

121

Il Teatro di Sciacca

145

Il Piano Programma per il centro storico di Palermo

163

Conclusioni

scritti di giuseppe samonà 169

Considerazioni critiche sull’architettura contemporanea

177

L’architettura contemporanea nel ventennio razionalista in Europa

189

Dibattito sui rapporti tra architettura e scuola

195

Architecture - Composition architecturale

205

Architettura come valore autonomo

217

Il futuro del Movimento moderno ovvero: dall’«ordine» al canto

225

Introduzione a un discorso sulla morfologia urbana

apparati 235

Progetti e opere di Giuseppe Samonà

245

Bibliografia generale

253

Nota biografica di Cesare Ajroldi

255

Indice delle illustrazioni

259

Referenze fotografiche

261

Indice dei nomi

265

Indice dei luoghi


Progetto per il Teatro di Sciacca, 1978-1979 (con Alberto Samonà) 1. Studio di Giuseppe Samonà per il portale d’ingresso.


introduzione negli occhi punte aguzze di sole Daniele Vitale

Rosario era felice, indicandola al padre, come se avesse temuto di vederla svanire prima del suo arrivo. Che ora il padre fosse lì a guardarla lui pure sembrava gliela rendesse più reale, o comunque più durevole. [...] – Ma che cos’è – domandò. – È Gerusalemme? Aveva negli occhi punte aguzze di sole che gli impedivano di distinguere che faccia facesse suo padre. L’udì in ogni modo rispondergli: – Non so che città sia –. Egli, con questo, non aveva detto che non poteva essere la Città per eccellenza: Gerusalemme o altro che si chiamasse. Sicché Rosario andò avanti a indicarne come conferme d’un prodigio anche i particolari più semplici [...].1 [...] e Rosario poté soggiungere: – forse è la più bella città di tutte le città del mondo. E la gente è contenta nelle città che sono belle. Non ti ricordi che gente contenta c’era nelle belle città che abbiamo girate per la Novena dell’altro Natale? [...] E si capisce che sia contenta. Ha belle strade e belle piazze in cui passeggiare, ha magnifici abbeveratoi per abbeverarvi le bestie, ha belle case per tornarvi la sera, e ha tutto il resto che ha, ed è bella gente.2

Così nel racconto che Elio Vittorini conduce per i sentieri dell’amata Sicilia. Per i due pastori che guidano il gregge, figlio e padre, la città che si spalanca dinanzi agli occhi è un’apparizione nel sole: un prodigio o un miracolo, perché lontana dall’asprezza usuale del paesaggio e dei monti. Ogni città è prodigio o miracolo: chiude o ha chiuso dentro di sé l’aspirazione a essere la più bella del mondo: Gerusalemme o altro che si chiamasse. Ogni città, anche la più devastata e abietta, rimanda a un desiderio e a una possibilità, e insieme si fonda su un’esperienza e una memoria remota. Giuseppe Samonà, siciliano lui pure, ha cercato Gerusalemme per una vita e l’ha in alcuni momenti trovata. Ha scoperto le città in cui giungeva e in cui talora viveva come un’apparizione. Le ha viste con occhio non diverso da quello dei pastori di Vittorini, e cioè con la stessa capacità di stupore. Non solo solide nella loro costruzione e nella loro materia, ma fonti di immaginazione e di sogno. Così che la città è diventata il principio e il desiderio della sua architettura. Aveva, Samonà, una vitalità prepotente e una cultura inquieta, ma non ha perduto la spontaneità dello sguardo. Gerusalemme è per eccellenza città sacra e del mito. Sacra non solo perché eletta da religioni diverse e sede prima del loro racconto: sacra anche perché da sempre tende a trasfigurare le pietre in emblemi e a costruirsi su una proiezione alta e non materiale di sé. Di questa proiezione, di questa intersezione tra il concreto e l’idea, il concreto e il desiderio che in esso si annida, vivono i progetti che Samonà ha disegnato nel tempo. Samonà ha forte il

7


daniele vitale senso della dignità dell’architettura, del suo affondare in una esperienza veneranda e lontana; del suo rimanere sospesa tra il mito e la sua traduzione nel rito. Il prezzo che paga è la non continuità, la relativa non coerenza dei progetti, come se contassero, più che il filo che li unisce, le illuminazioni successive nate dai luoghi, dai temi, dalle suggestioni. Si pensi al dispiegarsi vasto della Palazzata di Messina sul mare: «[...] una serie di palazzi imponenti – scriveva Goethe –, che disegnando una falce racchiude e incornicia la rada per un quarto d’ora di cammino»3. Samonà sostituisce al fronte monumentale e senza interruzione degli edifici, distrutti dal terremoto del 1908, una serie di volumi isolati, disposti in una successione solenne; dove il gioco abile delle partiture dei fronti non toglie forza all’anfiteatro dell’architettura, ma è capace di ristabilire in termini nuovi la grande arcata che affaccia sul porto. D’altronde, una sorta di Gerusalemme liberata e celeste è la strana città sospesa nell’aria, che propone il progetto per gli uffici della Camera dei deputati a Roma4, sorretta da esili trampoli e sollevata sugli altri edifici. Vive in uno strano paradosso. Non è un edificio che si inserisca e si aggiunga a ciò che lo circonda, ma un edificio capace di esprimere, malgrado la dimensione limitata, un’idea urbana che in esso si manifesta e rivela. Dirà altrove Samonà che il particolare (l’edificio) non è una semplice dilatazione e precisazione del generale (l’idea urbana), ma finisce per costituirne un’alternativa almeno parziale, perché lo raccoglie e lo riflette per modificarlo e spostarlo. L’idea di un’architettura che si libra nel vuoto, d’altronde, è così lontana dalla solidità muraria dei fabbricati, dei palazzi, delle rovine di Roma; ma così consapevole della compresenza di tempi e di forme nella città; consapevole della sua capacità di assoggettarle e assopirle, di rielaborare l’eterogeneo e di portarlo a unità. Per certi versi rovesciata è la visione su cui si fonda il progetto per l’Università di Cagliari5. Perché il nuovo insediamento è direttamente legato e compenetrato alla terra ed è inciso con respiro di dimensione nel suolo. Samonà è catturato dal fascino dei territori e delle campagne di Sardegna, dalla loro vastità e dal loro abbandono. Rinuncia a edificare «in elevazione», sovrapponendo e alla fine violando. Traccia un solco e lo ordina per via di geometria, in esso immergendo e celando le costruzioni. È la geometria a segnare in primo luogo la terra, così che anche l’architettura si fa geometria e si imprime nel suolo. È un progetto basato per scelta sul limite, sulla misura, sulla rinuncia alla forza affermativa che l’architettura quasi sempre comporta. È un progetto che il suolo fa proprio e assorbe, struttura geologica e urbana ampia, nuova città con impianto schematico a L, che si oppone alla città storica e le sorge accanto. Ancora diverso è il nuovo Teatro di Sciacca6, ultimo progetto della vita, con la sua determinazione ed essenzialità, con la sua opposizione al paesaggio, con il suo manifestarsi inatteso. È basato su un gioco elementare di volumi, prima un tronco di cono, poi un tronco di piramide, e a separarli nel mezzo il parallelepipedo alto e imponente della scena, in cemento a vista e con dietro il profilo del monte. È strana l’intersezione di memorie da cui prende vita: da un lato quella più allontanata dei monumenti di Sicilia e della loro bellezza; quei monumenti, sovente isolati, che con immedesimazione Samonà aveva studiato; la Sicilia con il suo passato, le sue figure, le sue architetture; dall’altro lato la memoria diretta del versante «scultoreo» ed elementarista che aveva attraversato l’architettura moderna, e che Le Corbusier in particolare aveva rappresentato. Ed era un riferimento che spesso tornava. Ed era ad esempio il Le Corbusier del tetto dell’Unité d’habitation, del convento di La Tourette, dell’acropoli di Chandigarh, del suo Parlamento, del suo grande tronco di cono.

8


introduzione Tanti altri sono i progetti di immaginazione urbana e territoriale che potremmo richiamare: quello per la grande area del Crystal Palace a Londra (1945); quello con Luigi Piccinato per il quartiere di San Giuliano a Mestre (1951-1956); quello del Ponte sullo Stretto di Messina, convertito in progetto di «metropoli futura» distribuita sull’una e l’altra sponda (1969); e ancora i grandi edifici che chiudono in sé un’idea assai più ampia della loro dimensione. Un proliferare dunque, nell’architettura di Samonà, di strade, di immagini, di tentativi in direzioni diverse. Non v’erano svolgimento consequenziale e linearità di scelte, ma un fervore di immaginazione e un avanzare per scarti. Gli scarti servivano a inseguire una bellezza che aveva facce molteplici e che ogni volta sfuggiva. «Egli procedeva per certezze assolute, ma continuamente ad ogni certezza ne seguivano altre diverse e magari contraddittorie (contraddittorie tra di loro non entro lui), però tutte – per così dire – modellate nella stessa materia»7. Ma v’è un altro e diverso racconto che ha un peso per noi. Rosario, il ragazzo pastore di Vittorini, crede con entusiasmo spontaneo nella coincidenza tra bellezza della città e bellezza delle persone che in essa dimorano: «[...] incalzò, a braccia spalancate: – Figurati in questa città che è la più bella del mondo la bella gente che vi deve abitare». Come se la bellezza si trasmettesse da una realtà all’altra; come se l’una ne producesse una nuova e parallela, e un incanto le legasse e le portasse a unità. Ma in forme diverse e meno ingenue, è un’illusione che attraversa il tempo e prosegue sino al moderno e sino al presente. Ed è l’illusione che l’architettura possieda un potere di trasfigurazione e di contagio; che debba coinvolgere gli uomini nella propria felicità, per renderli a loro volta felici; che sia motore e presupposto di riscatto, così che da essa si è tenuti ogni volta a partire. L’idea di Rosario è quella, anche se diversamente elaborata, delle utopie e degli utopisti: i quali vedevano nell’insediamento una base decisiva della nuova società, e nell’architettura uno dei motori del progresso. Non i rapporti di produzione e di forza contavano in primo luogo, ma il quadro di armonie che doveva accogliere ed ospitare gli uomini. Samonà muoveva da un’idea almeno in parte diversa. Era un’idea concreta e definita ma alla fine poetica dell’architettura, perché poneva al centro la Forma8. Poneva al centro la città, il territorio, l’architettura, ma in essi vedeva anche il lato dell’arte. Pensava che l’architettura potesse concorrere a riscattare dalle alienazioni gli uomini, ma che per sua natura non potesse assumere ruoli diretti o attivi; che potesse coadiuvare in silenzio, costruendo un quadro e assecondando da dietro o di lato. Distingueva la conoscenza dal progetto, l’analisi dall’immaginazione dell’opera. La creazione artistica è un approfondimento del linguaggio con immagini, che rivelano aspetti sconosciuti della realtà. La creazione artistica è conoscenza dogmatica dell’assoluto come la religione. Il linguaggio dell’arte si muove in una sfera metafisica della conoscenza, che è senza tempo.9 [Cerco] risposte necessarie alle domande decisive nella costruzione degli spazi stanziali per l’uomo oltre la linea del conoscibile, convinto come sono che, sia pur testualmente, l’arte varchi questa linea e trasmetta risposte reificanti alla stanzialità della nostra vita, risposte che oggi sono rare e di cui non sappiamo cogliere il senso profondo.10

Ma torniamo alla Sicilia e a quanto Goethe di essa scriveva. «L’Italia, senza la Sicilia, non lascia alcuna immagine nell’anima: qui è la chiave di tutto»11. Ma quanto hanno contato le origini e le radici siciliane di Samonà, nel suo modo di essere intellettuale e insieme architetto? Più di quel che non si sia soliti dire. E quanto ha contato il suo appartenere a una famiglia di antica nobiltà? Anche questo ha avuto un rilievo evidente. Molte famiglie no-

9


daniele vitale bili hanno concorso con peso alle vicende dell’isola. Ma va considerato il fatto che «la nobiltà siciliana non assomiglia a nessun’altra, sia in senso storico che sociologico»12. Non assomiglia perché i titoli nobiliari erano stati, nella storia, più facili da conseguire che altrove; perché la nobiltà era rimasta estranea e quasi astratta dalle dimensioni della vita consueta; perché intrecciata a provenienze e a culture sia spagnole che arabe; perché a lungo sospesa tra campagna e città, e solo tardi pienamente coinvolta nella vita urbana. Sono state un’estraneità e un’astensione che trovavano approdi frequenti nel lavoro intellettuale: come nella famiglia dei Samonà, ricca di cultori di studi e di figure legate ad attività di concetto e intelletto13. Una nobiltà, infine, con un senso alto e introiettato della forma e del decoro. Giuseppe lo aveva portato dalla vita nell’architettura, nella elaborazione e sottigliezza delle sue figure, dei suoi dettagli, dei suoi partiti. La Sicilia come centro e come «chiave di tutto». Ma la storia di Giuseppe Samonà è stata insieme la storia di un allontanamento e di uno spaesamento fortunato, di uno spostamento di situazioni irrigidite che solo un nobile proveniente da una terra chiusa e lontana poteva realizzare. Nel 1936 un barbaro viene a Venezia: Giuseppe Samonà. Un ingegnere, un aristocratico siciliano, un provinciale. Nella lunga epoca di transizione, volgarmente conosciuta come decadenza dell’Impero romano, solo i barbari potettero assicurare la sicurezza, tenere nelle loro mani il grande dominio. Samonà divenne imperatore. Distrusse molto lentamente, ma tenacemente, con la sua intelligenza, le convenzioni ereditate dall’Accademia delle Belle Arti di Venezia, che pure erano regole, tecniche, mestiere. Fece uso, per questo, delle suggestioni che provenivano dal Movimento moderno, il formalismo di Rietveld, ma anche l’America di Frank Lloyd Wright, le profezie di Le Corbusier, senza sposarle. Con il Movimento moderno Samonà giocò d’astuzia, contrapponendo ad esso non un’architettura ma un accumulo di questioni di contenuto [...].14

Samonà era irruente e facondo nella parola. Gli usciva come un fiume, ed era inventiva come quella di un narratore antico che disponeva di una trama ereditata, ma pronto a dilatarla per costruirvi intorno. Allo stesso modo e con lo stesso impeto scriveva. Ma era una parola ricca e intensa quanto sovente confusa15. Tendeva a non parlare dei suoi progetti o lo evitava in modo voluto. Era per un pudore umanamente sentito, ma anche per la coscienza di una dissociazione, di una sfasatura reale. L’intuizione e il grande discorso sui rapporti tra urbanistica e architettura, e sull’inevitabile risolversi dell’urbanistica in architettura, non spiegava i progetti. Tanto meno la riflessione sull’antico e sulle sue profondità, sui suoi contrasti con ciò che il tempo recava in modo violento con sé. Troppo si sono voluti leggere i progetti per corrispondenze con ciò che Samonà soleva esprimere tramite il dono della parola. Troppo poco si è inteso quanto figura e parola siano necessarie l’una all’altra, ma quanto l’una non si risolva nell’altra. Samonà non chiudeva in sé un personaggio soltanto, ma era diviso tra più personaggi. Il pensatore e il filosofo erano altro dall’architetto. L’architetto non poteva che divenir tale per via d’arte, per soggettività di poesia. I nostri sforzi devono concentrarsi tutti sulla possibilità di animare con il linguaggio dell’arte quello impersonale dello spazio urbano della città moderna, cercando l’artisticità nella sua formazione come segno soprastorico necessario alla città del futuro, che conferisca alla trasformazione esistenziale dell’uomo qualcosa che lo salvi dalle alienazioni attuali. Cerco fratelli su questa strada di ricerca poetica linguistica dello spazio architettonico.16

Cercava fratelli per trovare ciò che è difficile dire, o ciò che non è dato dire per intero. Non so quanti ne abbia trovati. L’omaggio e il rispetto, e la distanza che li accompagna, allontanavano la possibilità di lavorare con lui «da fratelli». Troppo Samonà era circondato dalla reverenza e dalla sogge-

10


introduzione zione degli architetti e dei giovani che operavano in parallelo o insieme a lui, e tra essi vi erano anche i migliori, anche i più autonomi. Ragionava e scriveva continuamente, Samonà, sul rapporto tra urbanistica e architettura. Voleva riscattare l’urbanistica dal suo astratto compilare e compitare, per ridarle immediatezza, forza di risposta, presenza nel mondo. Voleva farlo contaminandola con mondi di figure ed esperienze di architettura. Eppure il suo lavoro può essere visto al rovescio, guardando all’«altra faccia della luna»: e cioè come fervore di proposte capace di dilatare l’architettura, per portarla a nuova misura con i territori e le città. L’architettura è chiamata a risolvere problemi e a prestare umani servizi. Ma è anche modo degli uomini di conquistare un loro potere rispetto al reale: modo di imprimere in esso forme corali, che appartengono a una dimensione e a una memoria remota, ma non sempre spiegabile.

1 ELIO VITTORINI, Le città del mondo, Einaudi, Torino 19693, pp. 9-10 (scritto nel 19521955 e pubblicato postumo). La città che «appare» a Rosario è quella di Scicli, nella Sicilia sudorientale, nei pressi di Modica e in provincia di Ragusa. 2 Ivi, p. 13. 3 JOHANN WOLFGANG VON GOETHE, Italiänische Reise, in Goethes Werke, a cura di Sophie von Sachsen e Julius Wahle, Weimar, voll. 30 (1903), 31 (1904), ed. it., Viaggio in Italia, trad. di Emilio Castellani, Mondadori, Milano 19997, p. 335 («I Meridiani»). 4 Giuseppe e Alberto Samonà, progetto presentato al «Concorso nazionale per un progetto di massima del nuovo palazzo per uffici della Camera dei deputati», Roma, 1966-1967. 5 Giuseppe Samonà, progetto presentato al concorso per la nuova sede dell’Università degli studi di Cagliari, con Alberto Samonà, Cesare Ajroldi, Cristiana Bedoni, M. Alberto Chiorino, Mariella Di Falco, Carlo Doglio, Gaetana Farfaglio, Francesco Frattini, Rejana Lucci, Livia Toccafondi, Egle Renata Trincanato, 1972, secondo classificato. 6 Alberto e Giuseppe Samonà, Teatro popolare di Sciacca; il progetto è del 1974-1976, la costruzione inizia nel 1974. 7 IGNAZIO GARDELLA, Ricordo di Samonà, in Studi in onore di Giuseppe Samonà, Officina, Roma 1988, 2, Progetti, p. 94. 8 GIUSEPPE SAMONÀ, Sul futuro dell’architettura. Risposta a un questionario, «Casabella» 474-475, 1981, p. 103. 9 GIUSEPPE SAMONÀ, Conferenza alla «Casa della cultura Italiana» di Parigi, dattiloscritto, Parigi 1981, p. 2, cit. in LEONARDO URBANI, Una occasione editoriale, felice, per Giuseppe Samonà, in Studi in onore di Giuseppe Samonà, cit., 1, Saggi, t. II, p. 470. Queste osservazioni Samonà le fa in modo così esplicito solo in testi meno ufficiali e nel tratto finale della vita. 10 GIUSEPPE SAMONÀ, Conferenza alla «Casa della cultura Italiana» di Parigi..., cit., p. 470. 11 JOHANN WOLFGANG VON GOETHE, Italiänische Reise, cit., ed. it. Viaggio in Italia, trad. di Emilio Castellani, cit., p. 280. Il testo tedesco è: «Italien ohne Sizilien macht gar kein Bild in der Seele: hier ist erst der Schlüssel zu allem». La frase illumina sul peso che ha avuto l’esperienza siciliana nel viaggio di Goethe. 12 LEONARDO SCIASCIA, La Sicile come métaphore. Conversations en italien avec Marcelle Padovani, Éditions Stock, Parigi 1979, ed. it. La Sicilia come metafora. Intervista di Marcelle Padovani, Mondadori, Milano 1979, p. 47. 13 I Samonà sono un casato aristocratico siciliano molto antico, proveniente in origine dalla Turchia o da un’area compresa fra Iran e Siria. Il cognome, di origine bizantina e latiniz-

11


daniele vitale zato in Samonas, significherebbe «originario dell’isola di Samos». Si hanno notizie di un loro insediamento prima in Italia e poi in Sicilia dal XII e XIII secolo. Ebbero nel corso dei secoli ruoli di rango e di rilievo. A fine Ottocento si imparentarono con i Monroy, famiglia aristocratica di provenienza spagnola, attraverso il matrimonio tra Don Carmelo Samonà e la Principessa Adele Monroy di Pandolfina e Formosa. I Monroy, originari della provincia spagnola dell’Estremadura, avevano possedimenti vastissimi e titoli nobiliari di peso sia in Spagna che nel Regno di Sicilia. I coniugi Samonà ebbero sei figli, tra i quali Giuseppe nato nel 1898 e morto nel 1983. Oltre a Giuseppe, sia i fratelli, sia i figli, sia esponenti di altri rami della famiglia, occuparono posizioni sociali importanti e furono intellettuali, politici, letterati, artisti, professori. I figli di Giuseppe furono Alberto, architetto che ebbe occasione di lavorare molto spesso con il padre, e Carmelo, scrittore e ispanista. 14 LUCIANO SEMERANI, Why not?, in Studi in onore di Giuseppe Samonà, cit., 1, Saggi, t. II, p. 381. 15 Ho trattato di questi temi in un mio scritto: DANIELE VITALE, Giuseppe Samonà tra architettura e parola, in Giuseppe Samonà e la scuola di architettura a Venezia, a cura di Giovanni Marras e Marco Pogacˇnik, Università IUAV di Venezia, AP Archivio Progetti, Il Poligrafo, Padova 2006, pp. 233-248. 16 GIUSEPPE SAMONÀ, Sul futuro dell’architettura. Risposta a un questionario, cit., p. 103.

12


la sicilia i sogni le cittĂ


2. Giuseppe e Alberto SamonĂ a Gibilmanna, 1976 (foto Livia Toccafondi).


racconto di giuseppe samonà

Ho visto per la prima volta Giuseppe Samonà a Trieste, al Congresso di Urbanistica del 1965, dove ero riuscito a organizzare la partecipazione di un piccolo gruppo di studenti di una Facoltà periferica e ancora in parte provinciale. Ma la vera conoscenza risale al 1972, quando, su invito del figlio Alberto, di cui ero assistente, partecipai al concorso per la nuova Università di Cagliari. Giuseppe era figlio di Carmelo, che si occupava di psichiatria e di questioni «paranormali», e di Adele Monroy, di famiglia nobile, che possedeva una villa progettata da Venanzio Marvuglia1 all’inizio della «piana dei Colli» di Palermo. Questa condizione gli pesava, tanto da nascondere il fatto che lo portassero a scuola in carrozza. D’altra parte, credo che i non buoni rapporti con Basile2, e il fatto che la madre regalò in pratica la villa ai Salesiani, furono le ragioni principali della sua partenza da Palermo. Era un uomo di acutissima intelligenza, con occhi azzurri mobilissimi, affascinante parlatore e capace di cogliere ogni occasione per approfondire questioni nuove, o viste sotto nuove angolazioni. Era capace di intuizioni rapidissime: dopo il sopralluogo a Cagliari per il concorso dell’Università, circa quindici giorni prima della chiusura del progetto, decise di ribaltare la sezione-tipo che fino allora si era studiata, e riuscì a farlo, malgrado le proteste di tutti, che pensavamo fosse impossibile finire in tempo. Era anche infaticabile, e durante i lavori del Piano Programma per Palermo era sempre davanti a tutto il gruppo dei collaboratori durante le visite al centro storico. In quei giorni era molto spesso in città ed entrava sempre con Egle Trincanato nelle stanze di lavoro dicendo, con la sua inconfondibile voce: «Eccoci qua!», il che determinava subito un’atmosfera di impegno intenso. Teneva moltissimo a questa esperienza, e ciò gli faceva superare qualsiasi problema, soprattutto con l’amministrazione, che appariva poco interessata al lavoro, e creava infinite difficoltà. V’era in questo una profonda differenza da Giancarlo De Carlo, che aveva capito l’aria che tirava e cercava in continuazione di ricevere garanzie. Per questa dedizione al lavoro era intransigente, e dunque capace di grandi tensioni, ma era anche molto affettuoso, e credo ricambiasse l’affetto di noi che eravamo suoi collaboratori al Piano. Ricordo in particolare una sera a pranzo a casa mia, che passò in uno stato di grande agitazione per la difficile nascita del primogenito di uno dei collaboratori, agitazione che si calmò al momento della notizia che tutto era andato nel migliore dei modi.

15


cesare ajroldi

La Palazzata di Messina prima del terremoto 4, 5. Vedute dal mare. Progetto di concorso per la Palazzata di Messina, 1931 Camillo Autore, Raffaele Leone, Giuseppe SamonĂ , Guido Viola 6. Prospettiva generale. 7. Veduta prospettica di un tratto della nuova Palazzata. 8. Prospetto del Banco di Sicilia (realizzato). 9. Planimetria generale.

26


gli anni tra le due guerre

27


cesare ajroldi

28


gli anni tra le due guerre

Progetti di concorso per le chiese di Messina, 1932 10-13. Chiesa in località Paradiso, prospettiva dell’interno e pianta, vedute prospettiche dell’esterno. 14, 15. Chiesa di Milazzo, veduta prospettica dell’esterno e pianta.

29


cesare ajroldi

Progetto di concorso per il Piano regolatore generale di Messina, 1960, I premio (con Antonio Bonafede, Roberto Calandra, Napoleone Cutrufelli, Giuseppe De Cola e Alberto Samonà) 131. Veduta a volo d’uccello, con un ponte sospeso a tre campate sullo stretto. 132. Planimetria di piano della città di Messina (Archivio IUAV). Progetto presentato al «Concorso internazionale di idee per un collegamento stabile viario e ferroviario tra la Sicilia e il continente», 1969; II premio ex aequo con altri cinque progetti; soluzione con ponte sospeso a quattro campate (con gli architetti Maria Angelini, Alessandro Orlandi, Alberto Samonà, Livia Toccafondi; collaboratori gli ingegneri Giulio Pizzetti, M. Alberto Chiorino, Luigi Masella, Giorgio Berriolo, Giorgio Spirito e l’architetto Rosalba Gentile) 133. Veduta del plastico. 134. Disegno con veduta a volo d’uccello.

96


il dopoguerra

97


cesare ajroldi

132


il teatro di sciacca

Teatro di Sciacca, primo progetto consegnato, 1975 (con Alberto SamonĂ ) 201, 202. Prospettive. Teatro di Sciacca, progetto definitivo, 1979 (con Alberto SamonĂ ) 203. Pianta.

133


cesare ajroldi

134


il teatro di sciacca

Teatro di Sciacca, progetto definitivo, 1979 (con Alberto SamonĂ ) 204, 205. Prospetto e sua variante (Archivio IUAV). 206. Sezione. 207, 208. Prospetti con ombre (Archivio IUAV).

135


cesare ajroldi

Teatro di Sciacca, progetto definitivo, 1979 (con Alberto Samonà ) 209, 210. Vedute dell’edificio costruito. 211. Sezione. 212, 213. Prospettive interne. 214. Prospettiva. 215. Schizzi.

136


il teatro di sciacca

137


cesare ajroldi

138


il teatro di sciacca

Teatro di Sciacca, progetto definitivo, 1979 (con Alberto Samonà) 216-218. Vedute dell’edificio come era subito dopo la costruzione. Teatro di Sciacca, situazione attuale (dalla tesi di dottorato di Sabina Branciamore). 219. Veduta dell’edificio da via Agatocle.

139


a 30,00

ISBN 978-88-7115-792-4


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.