Piccio
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Piccio 1860-1870
a cura di M. Cristina Rodeschini
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Piccio 1860-1870 Bergamo, Accademia Carrara 11 marzo – 12 giugno 2022
Una produzione
Sindaco Giorgio Gori
Socio promotore Comune di Bergamo
Direttore M. Cristina Rodeschini
Mostra e catalogo a cura di M. Cristina Rodeschini
Assessore alla Cultura Nadia Ghisalberti
Soci cofondatori Humanitas Gavazzeni Metano Nord Alfaparf Group Confartigianato Imprese Bergamo
Responsabile operativo Gianpietro Bonaldi
Testi di Maria Cristina Brunati Niccolò D’Agati M. Cristina Rodeschini
Dirigente cultura, BGBS23, reti di quartiere, sport ed eventi Massimo Chizzolini
Partner Ares Consiglio di amministrazione Giorgio Gori, presidente Giuseppe Fraizzoli, vicepresidente Vanessa Pesenti Attilio Brambilla Stefano Maroni Piero Moroni Comitato dei garanti Giorgio Gori, presidente Ruggero Barzaghi Giacinto Giambellini Luciana Gattinoni Giovanni Marieni Saredo
Conservazione Paolo Plebani Ufficio prestiti Deborah Bonandrini Amministrazione Laura Luzzana Organizzazione e sviluppo museale Giulia Barcella Comunicazione, marketing e sviluppo museale Paola Azzola La Carrara Educazione Lucia Cecio, responsabile Anna Maria Spreafico Facility management Simone Longaretti
Comitato scientifico Keith Christiansen Roberto Contini Davide Gasparotto Alessandro Morandotti
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Responsabile di produzione Gianpietro Bonaldi Organizzazione Giulia Barcella Amministrazione Laura Luzzana Prestiti Deborah Bonandrini Educazione Lucia Cecio, responsabile Anna Maria Spreafico Comunicazione e progetto grafico Paola Azzola Coordinamento tecnico Simone Longaretti Conservazione e condition report opere in mostra Valeria Galizzi Ufficio stampa Adicorbetta, Milano Social media partner LO Studio, Bergamo Progetto “stage in Carrara” Tania Bevacqua Erica Bertoldi Pietro Bianchi Benedetta Salomone
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Progetto di allestimento Marcella Datei Valentina Nani Allestimento Riva Color, Bergamo Santini Pubblicità, Bergamo Telmotor, Bergamo Accrochage Art Care, Bergamo Assicurazioni Allianz con l’intermediazione di Aon Benfield Italia Trasporti Art Care, Bergamo Sicurezza Fidelitas e Rondaservice, Bergamo
Prestatori Fondazione Bettino Craxi - ETS, Milano Galleria d’Arte Moderna Ricci Oddi, Piacenza Collezione privata Courtesy Gallerie Maspes, Milano Si ringraziano per la collaborazione Ernesto Giuseppe Alfieri Ornella Bramani Stefania Craxi Giusy Doneda Rossella Emilitri Roberta Frigeni Robert L. Invernizzi Marco Leoni Pia Locatelli Renzo Mangili Francesco Luigi Maspes Chiara Perico Lucia Pini Sergio Rebora Carlo Salvioni
Fondazione Legler per la storia economica e sociale di Bergamo, Brembate Parrocchia di San Lorenzo Martire, Redona Parrocchia di San Martino Vescovo, Torre Boldone Si ringraziano inoltre i volontari del progetto “Io Volontario nel mio Museo”
Biblioteca comunale, Brembate Biblioteca comunale, Martinenego Biblioteca comunale, Torre Boldone Centro Studi Valle Imagna, Selino Basso
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In copertina Ritratto di Gina Caccia (La collana verde), 1862 Design Anna Cattaneo Coordinamento redazionale Emma Cavazzini Redazione Domenico Pertocoli Impaginazione Paola Oldani Crediti fotografici Archivio Gallerie Maspes, Milano / Studio Fotografico Perotti, Milano Galleria d’Arte Moderna Ricci Oddi, Piacenza Comune di Milano – all rights reserved – Milano, Palazzo Moriggia / Museo del Risorgimento Comune di Milano – all rights reserved – Galleria d’Arte Moderna, Milano / Umberto Armiraglio Museo delle Storie di Bergamo, Archivio fotografico Sestini, Raccolta Museo del Risorgimento Accademia di Belle Arti Tadini, Lovere, Archivio fotografico Archivio R. Mangili Banca di Piacenza. Archivio fotografico
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Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore © 2022 Fondazione Accademia Carrara, Bergamo © 2022 Skira editore, Milano Tutti i diritti riservati ISBN: 978-88-572-4789-2 Finito di stampare nel mese di febbraio 2022 a cura di Skira editore, Milano Printed in Italy www.skira.net
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Sommario
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Piccio: la Storia, le storie M. Cristina Rodeschini
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“Una questione di pittura”: l’ultimo Piccio alla prova della modernità Niccolò D’Agati
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Riannodando fili di seta alla ricerca di legami dimenticati I Caccia di Torre Boldone e i Tasca di Brembate Maria Cristina Brunati
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Opere a cura di Niccolò D’Agati
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Biografia
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Autori
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Piccio: la Storia, le storie
M. Cristina Rodeschini
Ritratto di Guglielmo Lochis, 1835 Bergamo, Accademia Carrara
Ancora una volta l’Accademia Carrara celebra Giovanni Carnovali, detto Piccio (Montegrino Valtravaglia 1804 - Cremona 1873), pittore tra i più capaci e sperimentali dell’Ottocento lombardo, e non solo, che trascorse buona parte della sua vita professionale a Bergamo, compresa la formazione artistica. Arrivato nella bergamasca da adolescente al seguito del padre, che provvedeva alla manutenzione degli impianti idrici delle proprietà della famiglia Spini ad Albino, per le sue doti, apparse subito evidenti, venne iscritto alla Scuola di Pittura dell’Accademia Carrara. Allievo di Giuseppe Diotti dal 1815 al 1820, vincerà i premi finali dei corsi accademici in più di una occasione. Apprezzato dal maestro che condivise con lui alcune importanti commissioni, spiccò nel genere del ritratto. Guglielmo Lochis, collezionista di alto profilo, lo scelse per la realizzazione del proprio ritratto nel 1835 e la prova resta indimenticabile per la qualità pittorica, la penetrante forza introspettiva che coglie con acume il carattere del personaggio. Scegliamo di indagare con l’approfondimento che ora gli dedichiamo il decennio della piena maturità, compreso tra il 1860 e il 1870, attraverso tre dipinti di sorprendente bellezza e di grande interesse storico: il Ritratto di Gina Caccia (La collana verde), il Paesaggio a Brembate Sotto, il Ritratto di Vittore Tasca. Sono anni di svolta sotto il profilo della storia nazionale: nel 1861 il Paese viene unificato e molto si deve all’impegno garibaldino. La compagine in camicia rossa è nutrita dalle passioni politiche delle giovani generazioni di numerose famiglie bergamasche. I patrioti appartengono a diverse classi sociali, liberi professionisti, proprietari terrieri, semplici cittadini. Le loro famiglie risiedono in città, ma nel caso delle classi più agiate dispongono di residenze nei territori delle immediate vicinanze di Bergamo. La località di Brembate Sotto concentra alcune di queste proprietà che appartengono ai Tasca, ai Caccia, ai Moretti, ai Morlacchi, famiglie che condividono soggiorni estivi e amicizie e che allacciano tra loro legami di parentela. Il Ritratto di Gina Caccia (La collana verde) del 1862 ha ricevuto nel tempo l’elogio della critica più avveduta per la genialità della soluzione adottata nella resa del rapporto tra luce e ombra, per l’atmo9
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sfera colorata che circonda la figura femminile, per la padronanza dell’impaginazione. Questo magnifico olio su tela ha suscitato molte attenzioni dedicate allo stile vibrante, originale e nuovo di Piccio, lasciando in secondo piano la vicenda biografica della persona ritratta. Lo studio che in questo catalogo viene sviluppato non solo ricompone i tratti salienti della vita di Gina Caccia, ma ricolloca nella giusta prospettiva storica la famiglia di appartenenza, e la vicenda del casato getta luce anche sulle relazioni parentali tra nuclei familiari ritratti da Carnovali. È il caso appunto delle famiglie Caccia, Moretti e Tasca. Quanto al Ritratto di Vittore Tasca, datato 1863, la camicia rossa lo identifica come una delle immagini più spettacolari e amate dell’epopea garibaldina. Si tratta di un ritratto a figura intera, ambientato all’aperto, con il taglio e l’immediatezza di un documento fotografico, dal dettagliato corredo militare che tuttavia non elude la profondità del paesaggio, illuminato sullo sfondo dal chiarore del cielo che si compenetra con l’azzurro del mare siciliano. Dà la misura della familiarità del pittore con il committente la dedica che appare sul dipinto in calce a destra: “All’amico V. Tasca uno dei Mille / Piccio f. 1863”. Il colonnello era stato vicecomandante della VIII Compagnia dei Mille che raccoglieva in gran numero i garibaldini bergamaschi. Il paesaggio è un genere nel quale Piccio ha dato prove rare e magistrali. In alcune di esse egli ambienta soggetti religiosi che immerge in una natura lussureggiante, punteggiata da grandi alberi e attraversata da limpidi corsi d’acqua, nei quali il pittore stesso amava immergersi. In altre la natura è protagonista assoluta, come nel Paesaggio a Brembate Sotto del 1868-1869. Scorre al centro del dipinto il fiume Brembo, disegnando morbide anse ambientate in un paesaggio di grande fascino. Sullo sfondo a destra, adagiato sopra un costone roccioso, il borgo di Brembate Sotto, luogo spesso frequentato da Carnovali grazie agli amici che lo ospitavano nelle loro residenze. La felicità delle relazioni con i committenti hanno sempre contato per gli artisti, esercitando spesso un’influenza benefica sui risultati. Rapporti sereni e di grande intesa diedero anche nel caso di Carnovali esiti eccellenti che i tre dipinti esposti testimoniano in tutta evidenza. L’incomprensione della modernità, dell’autorevolezza artistica e dell’originalità della sua ricerca si manifestarono attraverso scelte che non tennero in alcun conto la sorprendente progressione stilistica e la libertà con cui Piccio espresse la propria poetica. Il dipinto individuato da Enrico Scuri, succeduto a Diotti nella guida dell’Accademia Carrara, per dare conto della pittura a Bergamo nella mostra celebrativa dell’unità nazionale svoltasi a Firenze nel 1861, è un’opera di Carnovali di soggetto sacro – L’educazione della Vergine del 1825 –, a dimostrazione di quanto il gusto dell’establishment fosse attardato: non un 10 / Piccio: la Storia, le storie
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dipinto fresco e recente rappresenta Piccio in tutta la sua originalità, ma un’opera degli esordi. L’avversione verso il pittore si manifestò con grande virulenza alla presentazione dell’Agar nel deserto per la cappella del Rosario nella parrocchiale di Alzano Lombardo intitolata a San Martino, commissionata ufficialmente dai fabbricieri nel 1840, ma terminata solo nel 1863, dopo discussioni, rinvii, mancate consegne. Il dipinto venne di fatto rifiutato e acquistato da Daniele Farina, per essere poi donato nel 1970 all’Accademia Carrara dall’Associazione Amici del museo. L’opera risultava distante, nella trattazione del soggetto e nella sperimentale resa pittorica, dal gusto dominante degli altri dipinti della cappella, improntato a un classicismo dal quale l’artista aveva preso il largo. Pasino Locatelli polemizzava apertamente dalle colonne della “Gazzetta di Bergamo” contro il dipinto. Il fedelissimo Giacomo Trecourt, amico fraterno di Piccio sin dai tempi della Scuola di Pittura a Bergamo e professore all’Accademia di Pavia, scendeva in campo in difesa dell’amico con una colta esegesi dell’opera. L’intervento non ebbe tuttavia l’esito sperato e il dipinto venne definitivamente rifiutato da Alzano. Dopo diversi passaggi di proprietà la tela giunse all’Accademia Carrara, che in una sorta di restituzione l’ha depositata ad Alzano perché facesse bella mostra di sé nella cappella del Rosario, a centosessanta anni dalla sua commissione. Alterne vicende e diversi giudizi di valore hanno circondato la pittura di Piccio durante l’intera sua vita artistica. Certo è che gli intenditori d’arte hanno sempre apprezzato senza riserve la qualità pittorica, il carattere sperimentale e la libertà esecutiva che l’artista scelse di coltivare a dispetto di qualsiasi critica, anche feroce.
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“Una questione di pittura”: l’ultimo Piccio alla prova della modernità
Niccolò D’Agati
Paesaggio dai grandi alberi (particolare), 1850 circa
Subito dopo la morte di Piccio, avvenuta nel 1873, la ristampa in Le tre arti, con minime varianti, delle parole di Giuseppe Rovani già raccolte nel quarto volume della sua Storia delle lettere e delle arti in Italia, edita tra il 1855 e il 1858, cristallizzava un Leitmotiv che almeno da vent’anni, sin dall’epoca della sua prima sortita ufficiale nel panorama artistico milanese, aveva segnato il discorso critico attorno al pittore1. Commentando l’eredità della scuola di Giuseppe Diotti, Rovani pennelleggiava un ritratto di Piccio “debitore insolvente e incorreggibile” nei confronti dell’“aspettazione pubblica”2. Ciò che, agli occhi del critico, si poteva concludere sull’artista sul finire degli anni cinquanta era che “la gran base sulla quale si fonda fin qui la molta fama di cui gode non è altro che una prefazione alle sue opere future”. Opere sino a quel momento non giunte a piena maturazione – vi è da evidenziare, tuttavia, la relativa mancanza di visibilità espositiva dei lavori dell’artista, sia per l’abbandono da parte di Piccio dell’agone braidense, sia per l’eccentricità territoriale e collezionistica della sua produzione rispetto al contesto milanese – se la sintesi finale era la constatazione di un percorso artistico infruttuoso: “ma sarà egli per avverare tante belle speranze? Vorrà egli compire tante cose incominciate, e che dispettoso gettò tra gli scarti dello studio? […] perché è troppo difficile oggi a definire se sia incontentabilità la sua, la incontentabilità del genio, o non piuttosto impotenza”. Parole non molto diverse avevano accompagnato l’esordio braidense nel 1838 in occasione della prima partecipazione di Piccio alla mostra dell’Accademia milanese: “forse la bizzarria d’indole gli ha tolto di condurre qualche ampio lavoro, dopo il quale si possa dire non solo che mostra di poter fare, ma che ha fatto”3. La prima sortita milanese di Piccio, che già si era inserito nel contesto artistico e collezionistico locale alla metà del decennio prendendo studio nella città, concretò attorno al pittore la rovaniana “aspettazione pubblica”. Dinanzi ai ritratti, che più di tutti avevano attirato l’attenzione della critica, Piccio, come riferisce Toccagni, guadagnava “una fama, quale appena ottiensi con opere grandi. Il signor Carnevali detto il Piccio è artista sul quale si fondano le più belle speranze”4. Dello stes13
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so parere Bermani che scriveva: “otterrà egli quella gloria che gli vien promessa dall’energica robustezza del suo ingegno”. Fra quelle dei più sinceri estimatori si levava la voce di Temistocle Solera: se per il Ritratto di Manfredo Mariani il giovane librettista evocava riferimenti tizianeschi – “sembra uscito dalla scuola di Tiziano, quando non volessi dire dal pennello medesimo di quel grande artista” –, per la sua Madonna5, che si inseriva nel filone già avviato di variazioni mariane su recuperi cinque-seicenteschi filtrati dalla lezione appianesca, non risparmiava un crescendo verbale che dal “divina” giungeva all’affermazione che “le si prostreremmo dinanzi per adorarla”6. Da un lato, dunque, la critica manifestava un sincero apprezzamento per la qualità dell’opera pittorica di Piccio, ma uno dei dipinti esposti, il Quadro rappresentante un soggetto preso dall’Aminta del Tasso, divideva gli osservatori sul terreno della pittura di ispirazione storico-letteraria di ampio formato, quel genere di soggetto, ormai campo di prova ineludibile considerando gli exempla hayeziani, che rispondeva al concetto di un “ampio lavoro” richiesto da Arrivabene all’esordiente Piccio, del quale, come evidenziava Toccagni, a Milano “non avevamo veduto sin qui opere esposte”. Come noto, il dipinto venne esposto da Piccio con l’annotazione, non rispondente al vero, che si trattasse di un’opera non ancora conclusa7. Paradossalmente la critica, soprattutto quella meno convinta della riuscita del dipinto, nel valutare le mende derivanti da questo stato non ancora perfezionato di finitura evidenziava i caratteri più significativi della maniera personalissima che il nostro artista andava declinando. Lodatissima da Temistocle Solera, che rilevava come “la poca o niuna fusione della tinta in alcune parti, e la finitezza in altre mi fanno supporre che il quadro non sia terminato”8, e apprezzata da Bermani, che la vedeva presaga di “una splendida tela per nobiltà di concetto, bella composizione, forza di colorito, e singolare potenza di disegno”9, la tela fu giudicata negativamente da Cesare Cantù e da Arrivabene. Se per quest’ultimo “complessivamente manca una squisitezza di sentire, un colorire vero ed una intonazione confacente al soggetto” e invitava il pittore a ritornare sull’opera e non “stare contento alla mediocrità”, Cantù vi intravedeva, oltre “a un colorire qua e là manierato, e a qualche menda notevole di disegno”10, una mancanza totale di corrispondenza tra il fatto narrato e l’intonazione emotiva dei personaggi e della scena. Se si distillano i tre punti centrali della critica negativa dei due osservatori milanesi – ovvero la scorrettezza del disegno che esaltava l’autonomia espressiva del segno grafico, la libera differenziazione del trattamento cromatico che tendeva verso una “sgranatura del colore ai fini di un maggiore illusionismo percettivo”11 e la mancanza di rispondenza tra l’intonazione emotiva e narrativa della fonte letteraria con la scena 14 / “Una questione di pittura”: l’ultimo Piccio alla prova della modernità
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Rinvenimento di Aminta tra le braccia di Silvia, 1832-1833 Piacenza, Banca di Piacenza
rappresentata – si evidenziano gli stessi punti sui quali si consumò il dibattito attorno all’Agar nel deserto del 1863, uno dei rarissimi esiti monumentali della pittura di Piccio della piena maturità che riportava nuovamente il discorso all’“aspettazione pubblica” che sin dal 1838 si era condensata sulla sua produzione. Gli oltre vent’anni che separano l’esordio milanese di Piccio e la realizzazione della pala dell’Agar sono quelli che segnano la progressiva affermazione di una identità estetica eccentrica del pittore rispetto alle tendenze dominanti nella cultura artistica lombarda e che passa, prevalentemente, per una produzione di piccolo e medio formato – spaziante dai moltissimi ritratti a composizioni bozzettistiche autonome e concluse nella concezione – destinata al collezionismo privato di un solido côté di amatori, prima legato alla piccola nobiltà di provincia e, successivamente, individuabile in un ceto squisitamente borghese tra Milano e, soprattutto, le aree satelliti tra Bergamo e Cremona12. La città di Bergamo, del resto, aveva rappresentato l’ambiente di coltura fondamentale della formazione artistica di Piccio. Tra l’alunnato con Diotti presso l’Accademia Carrara, la protezione della famiglia Spini e la frequentazione del circuito di notabili legati al patronage degli istituti culturali e artistici della città, si erano poste le basi della 15 / “Una questione di pittura”: l’ultimo Piccio alla prova della modernità
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Agar nel deserto, 1863 Bergamo, Accademia Carrara (in deposito alla Basilica di San Martino ad Alzano Lombardo)
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sua primissima affermazione, comprovata dai numerosi ritratti e dalle commesse pubbliche, che si era estesa ben presto al circuito cremonese e milanese dove si rinsaldavano, anche, i rapporti con gli esponenti della borghesia liberale bergamasca come è per la famiglia Farina, un punto di riferimento centrale, come gli altri clan familiari bergamaschi intrecciati tra loro dei Moretti, dei Caccia e dei Tasca, per la carriera del pittore. Fu proprio Daniele Farina, arrestatosi il fuoco incrociato della critica, a rilevare per sé l’Agar nel deserto a seguito del diniego della parrocchiale di Alzano di accettare la pala. La vicenda di quest’opera, ampiamente nota e riscostruita in virtù della documentazione nei suoi diversi aspetti13, permette – grazie all’ampio dibattito critico che le sorse attorno – di prenderla a punto di riferimento e partenza per una disamina dei tratti distintivi, sia in senso tecnico che tipologico in rapporto alla produzione, che, agli inizi degli anni sessanta, definivano ed erano riconosciuti come propri della ricerca artistica di Piccio. Uno tra i primi sostenitori dell’opera, dalle pagine di “Arte e Artisti”, fu Gabriele Stefani. Agli occhi del commentatore il dipinto si presentava come un capolavoro assoluto: “l’effetto è magico, prerogativa insuperabile del Piccio. Egli abbozza colori su di una tela, e col fiat, crea, dispone, contorna, caratterizza le Opere del suo genio straordinario, il cui risultato è l’aereo, il grandioso e la verità”14. Quel fiat, che dettava la libera estrinsecazione della pittura picciana, si rifrangeva su tutta la pala – dalla composizione all’armonia del colore e del disegno – pervasa dalla vibrante resa emotiva e psicologica della “prima scintilla di un’aureola divina” che segnava la salvezza di Agar e di Ismaele. La potenza espressiva della visione di Piccio veniva ancora ribadita da Stefani in un intervento disilluso a seguito del rifiuto del dipinto: “Povero artista! La tua opera, impasto della metafisica colla psicologia, sintesi del cielo coll’Essere, rivelazione d’un’alta poesia materializzata coll’arte, in questi giorni d’Italia, fu nel pugno di chi bestemmiò: questa non è pittura”15. Il materializzarsi della poesia passava attraverso la decantazione di “una nuova e magica maniera di dipingere, sentita dall’originale suo gusto” i cui elementi essenziali – quelli che apparivano incomprensibili ai fabbricieri di Alzano e a quanti l’avevano definita “non pittura” – erano individuati nell’“aereo e sfumato nell’incarnazione dei colori perché gli fu tipo la sola natura”16, nella verità delle movenze “temperate”, nello “stempro e impasto soave di carne e sangue col palpito di vita”, nell’“aria vaporosa e dorata” del fondo, nel disinvolto trattamento degli accessori. La risonanza di questa “nuova e magica maniera di dipingere”, che trovava nelle opere della maturità di Piccio un punto di ideale traguardo, era quella che, parecchi decenni dopo, avrebbe portato 17 / “Una questione di pittura”: l’ultimo Piccio alla prova della modernità
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Carlo Carrà a scrivere che Piccio “fu il primo da noi a scorgere una questione di pittura là dove le scuole pittoriche del tempo non sapevano vedere che una questione di letteratura”17. In totale conseguenza con l’analisi del cronista ottocentesco per quel che riguardava la magia dell’opera dell’artista, Carrà segnava lo stacco tra l’intellettualismo neoclassico e la pittura del nostro che, “anche nei soggetti tratti dalla storia o dalla mitologia, è volto a ricercare il nucleo centrale dell’emozione psicologica”18. L’ekphrasis del dipinto offerta da Stefani puntava, sostanzialmente, a evidenziare l’ineludibile interconnessione tra il modus pingendi di Piccio e il contenuto emotivo e psicologico della sua opera in una dimensione capace di rendere, tornando ancora a una più tarda lettura carrariana, “più palese e più risoluto un impulso fra l’io e la realtà” che disvelava il “segreto di una pittura che parla ai sensi e allo spirito” in quanto “trasfigurazione del reale”19. Questa capacità di “trasfigurare il reale” in una espressione lirica, affidata essenzialmente al segno e al colore, mantenendo intatto il senso di diretto del vero, è esemplificata dalla ritrattistica. Poco dopo il licenziamento dell’Agar si possono ritrovare in alcuni ritratti, come quello di Gigia Riccardi del 1866 e quello della Signora Tasca, riconducibile al 1863 circa, le caratteristiche di quel connubio di vero e lirismo pittorico che costituisce una delle cifre più affascinanti della ritrattistica di Piccio20. Il Ritratto della nobile signora Tasca, col suo tono d’immediatezza e colloquialità, si inserisce in quel filone di diretta partecipazione al vero, epurato dal corteggio narrativo dettato da certo gusto per il ritratto ambientato della ritrattistica in voga – cui pure Piccio consente in alcuni lavori, ma con esiti di intensa vibrazione psicologica come nel Ritratto di Anastasia Spini –, segnato dal recupero e dalla rimeditazione sui modelli moroniani e tizianeschi. Una capacità di presa del vero che, come ha efficacemente sintetizzato Rossi, si traduce in una trascrizione affidata a “una linguistica di segni continuamente reinventata” in cui non è più la descrizione del dato naturalistico a prevalere, ma la più profonda resa del “senso di uno sguardo, di un sorriso, di un gesto”. Questa immediata prensilità nei confronti del vero si manifesta in tutta la sua intensità nel Ritratto di Clara Carminati tutto condotto, come accade per la Tasca, con una pennellata corsiva, sfrangiata che costruisce i rapporti cromatici e luministici in un equilibratissimo accordo tonale. Una immediatezza che, come tutti gli estimatori di Piccio evidenziavano già negli anni sessanta, non era frutto di lavori licenziati “di fretta”. Discutendo della fattura sprezzata dell’Agar Trecourt puntualizzava come in queste opere trasparissero “più strati di colore, ed il tono è caldo e vigoroso come non si può ottenerlo che mediante molto 18 / “Una questione di pittura”: l’ultimo Piccio alla prova della modernità
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Ritratto di Gigia Riccardi, 1866 Bergamo, Accademia Carrara Ritratto della nobile signora Tasca, 1862-1863 Collezione privata Ritratto di Clara Carminati (Bambina con la bambola), 1864 Collezione privata
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lavoro e tutte le parti vi sono circostanziate e le tinte variate ad ogni minimo dettaglio, e tutte le forme girano con un mirabile rapporto fra loro stesse”21. L’apparente trascuratezza della pittura di Piccio era, quindi, frutto di una ben precisa ricerca linguistica che si traduceva in una sistematica rimessa in discussione del ruolo del disegno e del colore, del loro valore autonomo in termini di espressività, nell’elaborazione di un codice linguistico personale funzionale non alla trascrizione, ma alla ricreazione del dato vero entro una dimensione puramente pittorica. La radicalità di questo posizionamento, nel 1925, dava la patente di “primo pittore moderno della Lombardia”22 a Piccio nella lettura carrariana: “fu il primo ad iniziare quell’operare a tocchi, e a esprimere gli oggetti naturali quali si offrono sotto il cielo aperto, senza crude ombre, avvolti di mezze tinte, addolcendoli in gamme madreperlacee, a comporre tinte miste con tratti intrecciati con sfregamenti, chiazze, macchie, colpeggiando la tela pur col dito; ad applicare insomma quel metodo pittorico sottile e magico a risonanze tonali e chiaroscurali”. Ed è il Ritratto di Gigia Riccardi, per altro verso, a incarnare questo senso magico proprio laddove la pittura concorre a una sublimazione immediata del dato naturalistico. La figura della donna, come rilevato da Rossi, diviene un’icona di bellezza “alla cui fiorente vitalità è sacrificata anche l’esigenza di individuazione psicologica”23 tipica della ritrattistica del pittore. Questa trasfigurazione del dato naturale è tutta affidata al progressivo sfioccarsi della materia pittorica, tutta impregnata di una luce madreperlacea che rileva le forme in dissolvenza e che costituisce il canto fermo su cui si innestano le sottili variazioni e vibrazioni cromatiche e luministiche che culminano nelle iridescenze delle perle. L’ideale punto culminante di questa estetizzazione, che passa attraverso l’assolutizzarsi della materia pittorica e del segno, si ha nella serie delle Flore – e nel controcanto estatico delle Madonne: pure fughe ideali attorno al tema di una bellezza sempiterna, che portano alle estreme conseguenze le predilezioni “arcadiche” dei cromatismi smorzati e in cui decantano tanto le esasperazioni manieristiche del disegno quanto un’assoluta libertà di ductus nella stesura del colore24. I caratteri di questo linguaggio, al 1863, apparivano chiari anche al più schietto oppositore di Piccio nella diatriba che seguì l’esposizione dell’Agar. Per Pasino Locatelli era “certo che nel Piccio v’è sempre un fare così sbrigativo ed originale, che pochi potrebbero sperare di avvicinarlo”, ma, in maniera significativa, deprimeva questa originalità nell’alveo di una produzione di lavori, tra i quali quelli legati alla ritrattistica, “più facili e lucrosi, a cui bastano minori studi e minori cognizioni nel campo dell’arte e un poco fuori dell’arte”25. L’Agar, in sintesi, faceva “l’effetto che fanno i mille bozzetti che tanto si ammira20 / “Una questione di pittura”: l’ultimo Piccio alla prova della modernità
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Flora, 1868 Bergamo, Accademia Carrara
no di sua mano”, e l’articolista individuava così un ulteriore ambito di applicazione della pittura di Piccio che rappresentava un fondamentale terreno di sperimentazione formale proprio nel solco di quella progressiva centralità che lo specifico linguistico assume nella pittura del nostro artista. Rendono conto, rimanendo entro il perimetro cronologico degli anni sessanta attorno all’elaborazione finale dell’Agar, proprio i bozzetti direttamente connessi all’elaborazione dell’opera26. È ancora Carrà, riferendosi proprio ad alcuni dipinti di piccolo formato risalenti a questi anni, tra i quali la più estrema Bagnante del 186927, a definirli conclusivi di una pittura dove “talvolta sembra che gli impasti scoppino improvvisi sotto la passione febbrile dell’artista, talaltra è un balenare di forme espresse con vigore in una gioiosa sensualità, dove la colora21 / “Una questione di pittura”: l’ultimo Piccio alla prova della modernità
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zione fattasi sostanziale nel tono serra gli oggetti e le cose in una materia ricca e omogenea”28. Parole che colgono in maniera esatta quella dimensione integrata nella quale il segno grafico e la materia pittorica si sostanziano in una immediata risultante costruttiva e cromatica, quel tocco, come scrive Caversazzi, “il quale elegge e costruisce nello stesso tempo”. È, per certi aspetti, quell’identità di forma-contenuto nella definizione di una nuova visione della plastica, quell’identità tra intenzione lirica ed espressione pittorica che, pochi anni dopo, avrebbe portato Carlo Dossi a commentare la scultura di Giuseppe Grandi facendo proprio Bagnante, 1869 Milano, Galleria d’Arte Moderna
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riferimento alla coincidenza del segno e dell’espressione: “la mano intellettuale del Grandi, mentre scolpisce, colora”29. Questa connessione appariva chiarissima a Carrà che recuperava il paragone leonardesco: “visione ed esecuzione diventano così una cosa sola […] egli pure come il sommo toscano cerca di fondere realtà e ideale, dare agli atti e agli aspetti degli uomini corposità di forme vibranti nella luce, armonia maturata e composta”30. Se per Locatelli questo linguaggio rimaneva accettabile nell’ambito di definizione più privato di una produzione destinata a un collezionismo e a una fruizione intimista, l’adozione di questo modus operandi nell’opera maggiore non poteva dare altro esito che quello di un embrionale “schizzo con figure grandi al vero”. Le mende all’opera rilevate dall’articolista erano molteplici. Dalla scorrettezza del disegno alla mancanza di rispondenza – nodale per la pittura storica – tra la lettera del testo biblico e i tipi e la scena immaginata da Piccio, dalle tinte troppo arcadiche, massimamente nell’intonazione del paesaggio, della scena che snervavano e illanguidivano la drammaticità del momento rappresentato, alla fattura, appunto, trascurata di alcune parti – come il corpo di Ismaele – rispetto a un grado di finitezza maggiore del viso di Agar. A ergersi a difensore dell’opera del pittore si levò, come noto, l’amico fraterno Giacomo Trecourt31. Al netto di tutte le accuse, e le relative e argomentate risposte del pittore pavese – illuminanti nell’individuazione precisa della modernità tecnica picciana – in merito alle manchevolezze iconografiche e formali, Trecourt sottolineava come la scelta espressiva di Piccio di mantenere “nel quadro l’effetto ottenuto nel bozzetto” fosse del tutto intenzionale32, frutto di una indefessa ricerca sul rapporto tra colore e luce, tra impasti e velature: “i suoi quadri sembreranno abbozzati ed abbatteranno, al confronto, i dipinti più vigorosi: saranno trascurati e presenteranno maggior forma e più dettaglio di quelli più accarezzati e leccati!”. A conferma di questo appunto, in margine al testo, Trecourt portava a emblema di questa pittura un paesaggio di proprietà del bresciano Giuseppe Locatelli, il Panorama dell’Adda con la Sacra Famiglia del 185933. Questo lavoro si poneva in diretta continuità con il Paesaggio dai grandi alberi, riferibile agli inizi degli anni cinquanta, che costituiva la prima e più compiuta incursione di Piccio nel paesaggio puro. Se ampie sono le attestazioni grafiche – che in certo senso rispondono alla leggendaria passione per il vagabondaggio del pittore – di schizzi di paesaggio nei fogli di taccuino, lungo gli anni trenta e quaranta il tema naturale affiora principalmente come controparte di una narrazione, sebbene già pienamente individuato nella sua caratteristica emozionale come si apprezza nell’Aminta. 23 / “Una questione di pittura”: l’ultimo Piccio alla prova della modernità
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Paesaggio dai grandi alberi, 1850 circa Milano, Galleria d’Arte Moderna Mattino sulle Prealpi, 1862-1863 Collezione privata
Gli anni sessanta, nel tema del paesaggio puro, segnano il raggiungimento massimo in capolavori come Mattino sulle Prealpi. La natura vera, il paesaggio affrontato e percepito nella sua verità ottica e luministica nella dimensione pleinairistica, si riflette nell’adesione ottica al principio di una resa atmosferica e di una costruzione tonale dell’affondo che restituisce la naturalezza della visione, trasfigurata però in una dimensione che, proprio tramite il ductus compendiario e differenziato, ora più franto e vibrato, ora più insistito a livello materico, trascende nella lirica evocazione dello spettro emozionale e panico del dato naturalistico secondo quella che Gian Pietro Lucini definisce l’affermazione di “un paesaggio che rappresenti la poesia ideale del vero, sentendosi artista di fronte alla reale sensazione di una crisi di natura”34. Non casualmente, quindi, Trecourt si rivolgeva al paesaggio puro – rarissimo, del resto, nella pittura di Piccio – quale metro di paragone ultimo per definirne la portata: laddove persiste il motivo narrativo, come pure accade nel Panorama dell’Adda o nelle macchiette trasognate che popolano in maniera capricciosa alcune vedute, questo viene letteralmente fagocitato dalla preponderanza del paesaggio naturale e nello stesso tempo ricreato da quel fiat che “crea, dispone, contorna” nel suo assoluto e autonomo valore espressivo. Non era nondimeno significativo, allora, che Trecourt, in ultima difesa, instaurasse, per negarlo nella sostanza, un paragone tra il pittore e i suoi maestri “ideali”, quelli della maniera cinquecentesca filtrata, sin dai primissimi anni, dalla lezione di Appiani. “Mi si potrebbe far osservare che nelle opere del Lotto, del Correggio e di altri sommi, vi sono pure, ed a larga misura tutte queste bellezze e tuttavia non lasciano nemmeno un istante in dubbio sulla loro finitezza. […] è per questo che non ho mai pensato un istante a stabilire un confronto fra gli artisti del XV secolo e quelli d’oggi giorno. Gli uomini furono e saranno sempre gli stessi, ma le circostanze sviluppano più o meno il loro genio”. Non la retorica affermazione del rimpianto di un’età d’oro perduta, ma, in sottotraccia, la rivendicazione dell’autonomia moderna della pittura di Piccio.
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Per la prima versione dell’affondo rovaniano si veda G. Rovani, Storia delle lettere e delle arti in Italia, Sanvito, Milano 1858, vol. IV, p. 547. Il testo venne poi ripreso e ripubblicato, quasi palmarmente, in G. Rovani, Le tre arti considerate in alcuni illustri italiani contemporanei, Treves, Milano 1874, vol. I, p. 169. Per un excursus sulla parabola della fortuna critica di Piccio si vedano: M. Valsecchi, La fortuna critica del Piccio, in Il Piccio e artisti bergamaschi del suo tempo, cat. mostra (Bergamo, Palazzo della Ragione, 14 settembre - 10 novembre 1974), Electa, Milano 1974, pp. 11-26; F. Mazzocca, Il Piccio e la pittura lombarda tra romanticismo e naturalismo: l’eredità di Appiani, in Piccio l’ultimo romantico, a cura di F. Mazzocca e G. Valagussa, cat. mostra (Cremona, Centro Culturale Santa Maria della Pietà, 24 febbraio - 10 giugno 2007), Silvana, Cinisello Balsamo 2007, pp. 17-25, in particolare pp. 23-25; V. Rosa, La riscoperta del Piccio fra Previati e de Chirico: la questione della tecnica, ivi, pp. 81-85; R. Mangili, Piccio. Tutta la pittura e un’antologia grafica, Lubrina, Bergamo 2014, pp. 8194. Sulla vicenda artistica di Piccio, a fronte dell’ingente bibliografia, oltre a quanto già citato, si rimanda a: P. De Vecchi, Giovanni Carnovali detto il Piccio. Formazione ed esordi, in “Quaderni dell’Accademia Carrara”, n. 1, novembre 1973; M. Dalai Emiliani, Giovanni Carnovali detto il Piccio. Tra romanticismo e realtà, in “Quaderni dell’Accademia Carrara”, n. 2, dicembre 1973; F. Rossi, Giovanni Carnovali detto Il Piccio. Ritratto dal vero, in “Quaderni dell’Accademia Carrara”, n. 3, gennaio 1974; P. De Vecchi, Giovanni Carnovali detto Il Piccio. Catalogo ragionato, Motta, Milano 1998. 2 Rovani, op. cit. 1858, p. 547. 3 Della pubblica esposizione di opere di Belle Arti e d’Industria fatta in Milano nel settembre 1838. Cenni di Opprandino Arrivabene, Pirotta, Milano 1838, p. 106. Per le opere esposte: Esposizione delle opere degli artisti e dei dilettanti nelle gallerie dell’I.R. Accademia delle Belle Arti per l’anno 1838, Imperial Regia Stamperia, Milano 1838, p. 16 n. 79 Tre ritratti al vero; p. 59 nn. 536-537 Quadro rappresentante un soggetto preso dall’Aminta del Tasso, Ritratto d’uomo; p. 61 n. 547 Madonna. Tra i ritratti esposti nel 1838 vi era 1
anche il Ritratto di Guglielmo Lochis, oggi conservato alla Carrara, licenziato nel 1835: M. Marubbi, La prima committenza bergamasca del Piccio, in Piccio l’ultimo romantico, cit., pp. 51-57, p. 54; R. Mangili op. cit. 2014, I/53. 4 C.T., Belle Arti. Esposizione nelle sale in Brera (art. V), in “La Fama”, III, n. 118, 1 ottobre 1838, pp. 469-470. 5 Dalla descrizione che ne fornisce Arrivabene come di una “mezza figura, rappresentante la Vergine a mani giunte in atto di orare […] era dipinta in altro modo, dilicato, bensì, ma di minore effetto, e pareva quasi imitazione di un a fresco”, si desume che si trattasse di un lavoro esemplato sul modello delle Madonne in preghiera della fine degli anni venti. Si vedano ad esempio Mangili, op. cit. 2014, I/33-I/34. 6 T. Solera, Esposizione degli oggetti di Belle Arti nell’I.R. Palazzo di Brera. V, in “La Moda”, III, 79, 1 ottobre 1838, pp. 313-315. 7 Come evidenzia Mangili, op. cit. 2014, p. 58, si trattava con buona probabilità di uno “stratagemma” adottato “per tutelarsi dalla parte impreparata di critica e di pubblico”. 8 Solera, op. cit. 1838, p. 315. 9 A. Bermani, Belle Arti. VII. Mostra degli oggetti di Belle Arti nel Palazzo di Brera in Milano, in “Glissons, n’appuyons pas”, V, n. 79, 3 ottobre 1838, pp. 315-316. 10 C. Cantù, Le glorie delle Arti Belle esposte in Milano nell’anno 1838, Pirotta, Milano 1838, pp. 24-26. 11 Mangili, op. cit. 2014, I/43. 12 Si veda la lettura di Rossi, op. cit. 1974, pp. 1-6. Inoltre: De Vecchi, op. cit. 1973; V. Guazzoni, Il Piccio e Cremona, in Piccio l’ultimo romantico cit. 2007, pp. 37-49; Marubbi, op. cit. 2007; Mangili, op. cit. 2014, pp. 26-62, 94-102. 13 Si consideri, come ultima ricognizione e punto di riferimento bibliografico, Mangili, op. cit. 2014, I/223. 14 G. Stefani, Agar nel deserto, in “Arti e Mestieri”, IV, n. 64, 30 giugno 1863. 15 G. Stefani, Il sacrificio del quadro dell’Agar, in “Arti e Mestieri”, IV, n. 78, 18 agosto 1863. 16 Concetti già espressi nel precedente intervento del 30 giugno dove Stefani scriveva: “In questo meraviglioso dipinto sembra aver fatto la carne con l’impasto di vera carne; l’aria, con l’aria; tutto è armonia e intonazione.
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Le pose senza ricercatezza, le pieghe classiche, il colorito vago. Niente vi trovi di affettato in un tema che facilmente avrebbe tratto nel manierato – è la verità sempre che regna”. 17 C. Carrà, Artisti lombardi. Il precursore, in “L’Ambrosiano”, 27 aprile 1925. 18 C. Carrà, Il primo pittore moderno della Lombardia. Vita romantica del Piccio, in “Il Resto del Carlino”, 22 marzo 1938. 19 Carrà, op. cit. 1925. Già Caversazzi, nel 1897, sottolineava la profonda connessione tra il risultato psicologico della ritrattistica di Piccio e il linguaggio pittorico: “Dinanzi ad essi [i ritratti] bisogna riconoscere un tratto che ciò che importa nel pittore non è il soggetto, ma propriamente la tecnica e lo stile, la riproduzione originale e intelligente, la interpretazione delle apparenze naturali. […] ciò non si ottiene colla imitazione esatta delle fattezze; bensì colla rivelazione di quella linea di espressione dominatrice che comunemente chiamiamo – la linea del carattere” (C. Caversazzi, Notizia di Giovanni Carnevali, pittore, in L’arte in Bergamo e l’Accademia Carrara, Istituto Arti Grafiche, Bergamo 1897, pp. 193-240, p. 225). 20 Per le due opere si veda, da ultimo, Mangili, op. cit. 2014, I/215, I/248. 21 G. Trecourt, in “Supplemento al Giornale Arti e Mestieri”, 25 agosto 1863. 22 C. Carrà, La pittura romantica in Lombardia, in “L’Ambrosiano”, 15 ottobre 1930. 23 F. Rossi, in Il Piccio e artisti bergamaschi cit. 1974, p. 114 n. 118. 24 Per la serie delle Flore si vedano in particolare: Rossi, op. cit. 1974, p. 151 n. 125; M. Piatto, in Piccio l’ultimo romantico cit. 2007, p. 217 nn. 128-129; Mangili, op. cit. 2014, I/271-274.
25 P.L., Belle Arti. Agar nel deserto. Quadro ad olio di Gio. Carnevali detto il Piccio per la parrocchiale di Alzano Maggiore, in “Gazzetta di Bergamo”, n. 82, 9 luglio 1863. Per l’ulteriore intervento di Locatelli nella querelle: P.L., Ancora sul quadro dell’Agar. In risposta alla lettera del Sig. Giacomo Trecourt pubblicata sul Giornale Arti e Mestieri n. 70, in “Gazzetta di Bergamo”, n. 88, 23 luglio 1863. 26 Mangili, op. cit. 2014, I/184, I/185, I/218. 27 Scrive Carrà, op. cit. 1938: “Tutto vibra e respira. Il pittore è riuscito a dare l’impronta di una vita fluida, vibrazioni di una liricità evocativa in un crescendo di colori che non ha stonature anche nei punti che rasentano la dissonanza”. 28 C. Carrà, Il viceré lombardo di tutto l’800, in “Giovedì”, 15 novembre 1952. 29 C. Dossi, Tranquillo Cremona e Giuseppe Grandi all’Esposizione di Belle Arti a Brera nell’anno 1873, in “Le Tre Arti”, ottobre 1873. 30 C. Carrà, Ritorno di Piccio, in “Milano Sera”, 7 giugno 1946. 31 Si vedano in ordine: G. Trecourt, Caro Luigi, in “Arti e Mestieri”, IV, n. 70, 21 luglio 1863; G. Trecourt, in “Supplemento al Giornale Arti e Mestieri”, 25 agosto 1863; G. Trecourt, Carissimo amico, in “Arti e Mestieri”, IV, n. 86, 15 settembre 1863. 32 Carrà (op. cit. 1938) scriverà: “chi credesse che questi [i bozzetti] sono effetto di una improvvisazione soltanto momentanea, cadrebbe in errore. I bozzetti di Piccio sono paragonabili a tanti poemetti lirici, dove nulla è concesso al caso”. 33 Mangili, op. cit. 2014, I/195. 34 G.P. Lucini, La pittura lombarda del secolo XIX alla Permanente di Milano, in “Emporium”, XII, n. 68, agosto 1900, pp. 38-105, p. 90.
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Riannodando fili di seta alla ricerca di legami dimenticati I Caccia di Torre Boldone e i Tasca di Brembate
Maria Cristina Brunati
Tondo con il volto di Vittorio Emanuele II a Villa Tasca, Brembate
Caccia e Tasca, la nascita di un sodalizio L’esposizione dei ritratti di Gina Caccia e di Vittore Tasca realizzati da Giovanni Carnovali tra il 1862 e il 1863, all’epoca del soggiorno dell’artista nella casa Tasca di Brembate, offre l’occasione per indagare le vicende familiari dei protagonisti di due tra le più note opere del Piccio, portando alla luce inedite trame parentali, relazioni amicali e convergenze d’interessi. Anche a Bergamo, così come in tutte le principali realtà produttive lombarde1, l’affermazione economica e sociale si avvantaggiava infatti di salde alleanze matrimoniali fondate sull’ancora imprescindibile rispetto del principio dell’endogamia di ceto. Il sodalizio tra le famiglie Caccia e Tasca trae origine dal matrimonio tra Maffio Caccia (+ 1 agosto 1829), figlio di Giulio di Torre Boldone, e Camilla Tasca (1778-1874), figlia di Benedetto di Brembate, al principio del XIX secolo. Gli sposi provenivano entrambi da famiglie di nobile origine2, proprietarie di vasti possedimenti terrieri, che avevano saputo cogliere le opportunità di guadagno connesse al settore serico. A partire dal XVII secolo la produzione della seta aveva infatti assunto un peso crescente nel territorio bergamasco, arrivando a modellarne il paesaggio3, costellato da filari di gelsi “maritati” a piante di vite e piccole filande, inducendo anche famiglie di alto lignaggio a investire in un mercato capace di garantire, seppure tra alterne vicende, un reddito integrativo a quello agricolo. La produzione di materia prima e di semilavorato era anzi diventata preponderante nel corso dell’Ottocento4, tanto che già all’inizio del secolo Giovanni Maironi da Ponte affermava che il setificio doveva essere ormai considerato “a tutta ragione […] il sostegno massimo della nazione bergamasca”5. La diffusione della gelsibachicoltura era peraltro un fenomeno esteso a tutta l’area collinare e dell’alta pianura lombarda, come osservava quasi cinquant’anni più tardi Stefano Jacini, paragonando quella fascia della regione “quasi ad una selva” di gelsi6. Dal matrimonio di Maffio Caccia con Camilla Tasca nacquero sei figli, dei quali un solo maschio, Giulio (1806-1868), destinato a per29
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Stemmi delle famiglie bergamasche, a cura di G. Baracchetti, Bergamo 1994
petuare il nome della famiglia. Delle cinque femmine, la primogenita Alma si ritirò nel convento delle Figlie del Sacro Cuore di Darfo, Teresa sposò l’agrimensore Santo Grassi e si stabilì a Bergamo, Maria si unì a Luigi Bonandrini spostandosi a Casnigo, mentre le più giovani Antonia (1814-1838) e Ottavia (1815-1845), legatissime fra loro, mancarono a pochi anni l’una dall’altra non ancora trentenni. La memoria della loro precoce scomparsa ci viene tramandata attraverso il partecipe racconto di un anonimo sacerdote7, pubblicato pochi mesi dopo la morte di Ottavia, occorsa il 21 luglio 1845 nel monastero domenicano Matris Domini di Bergamo, dove aveva preso i voti il 28 marzo 18428. Lo scritto appare prezioso non solo perché illustra doviziosamente la breve vita di Ottavia, ma anche per i molteplici riferimenti all’ambiente in cui crebbe e alle abitudini della sua famiglia, che comprendevano la villeggiatura in campagna, la conversazione, i giochi, le frequentazioni rispettabili, le letture istruttive, le serate danzanti, l’attenzione a un abbigliamento alla moda e consono al proprio status e, naturalmente, la rigorosa osservanza delle pratiche religiose. “Figlia di nobili genitori, che l’amavano di tenerissimo amore, agiata per paterna dotazione, bella di forme, soave e tutta dolcezza la voce e il gesto, cara alle sorelle e al fratello, alle amiche della sua infanzia, che molte ne avea, nobili, graziose, ricche, e tutte fiore di virtù; la sua compagnia desideravano e con assidue istanze chiedevano alla sua madre le famiglie più ragguardevoli: lei alle conversazioni, alle festevoli adunanze voleano vedere. Quando entrava nelle sale, la decorosa sua giovialità allietava gli animi di tutti: ogni ordine di persone, ogni età commendavano i singolari doni che la faceano amabile. Ed era tanto devota!… 30 / Riannodando fili di seta alla ricerca di legami dimenticati
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amava tanto Iddio!… pregava tanto e con tanto fervore!… ed era un angelo, lo dicono ancora tutti, negli occhi un angelo, e tutti rispettarono sempre quel suo sguardo virginale che impauriva i più arrischiati […] vestiva con graziosa semplicità, arricciavasi i capelli con grazia; ma il passo, il volto, il portamento erano sodi e gravi […] la nostra Ottavia sì ben vestita, sì graziosa nelle compagnie, desiderata tanto, e carezzata, e lodata, era un fiore di cristiana, e […] quelle vesti di moda erano ornamento di un’anima generosamente virtuosa”9. Le sue “nobilissime e carissime virtù” e “il suo fare niente studiato, e il vestire modesto sempre, ma elegante, e di moda fecero credere, e sperare che presto diverrebbe sposa e le si erano proposti varii progetti di collocamento, che poteano essere cari a lei ed alla famiglia”10. Un avvenimento imprevisto e tragico determinò tuttavia un improvviso cambio di rotta nel suo destino: la morte dell’amatissima sorella Antonia, avvenuta il 19 giugno 1838 nella casa di famiglia di Torre Boldone dopo una breve malattia. “E quando Antonia abbandonò la terra, Ottavia abbandonò il mondo ove non trovava più sua sorella e la cercò in Dio”11. Fu infatti qualche tempo dopo la scomparsa di Antonia che Ottavia decise di farsi monaca, non senza incontrare resistenze da parte delle persone a lei più vicine: “Dovette contrariare i progetti della famiglia, resistere senza violenza alle violenze dell’amore di una madre vedova, di un fratello unico, virtuoso, che nella determinazione della sorella vicina ad abbandonarlo per sempre si sentiva vulnerato nell’intimo di quel sentimento religioso, il quale è il carattere della buona famiglia Caccia. ‘E non è pienamente libera di confessarsi e comunicarsi, di far orazione come e quando le piace anche in casa sua? Cos’è questo voltar le spalle a tutti noi, e fuggirci, e chiudersi in un convento, e lasciare mia madre sola?’”12. La famiglia dovette tuttavia piegarsi alla irremovibile volontà della giovane. Il fratello Giulio le chiese però di accondiscendere a un ultimo desiderio dei suoi congiunti, accettando di posare per un ritratto: “La proposta rovesciò l’animo di Ottavia tanto dilicatamente pudico. – Non volle. – Il fratello non recedeva di un passo. Non volle: ‘Ma perché tanto inflessibile?’ le diceva, e la pregava, e le recava mille ragioni. Non volle. Le parea aver diritto di non volere, e non desistette dalla sua fermezza, se non quando […] uno dei nostri Parrochi Urbani […] fece capace anche la nostra Ottavia a capire bene una ragione, la quale non era tutta dell’intelletto, ma interessava il cuore, e che perciò era potentissima a persuadere questa giovane tutta cuore”13. Sebbene di tale ritratto, “dipinto in casa di sua sorella, maritata Grassi”, l’opuscolo non indichi l’autore, il passo appare interessante poiché indicativo dell’adesione della famiglia Caccia, e di Giulio in particolare, alla consuetudine tipicamente aristocratica e poi alto-borghese della ritrattistica14. 31 / Riannodando fili di seta alla ricerca di legami dimenticati
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Giulio Caccia e la sua famiglia Dopo la morte del padre Maffio nel 1829, dal quale aveva ereditato gran parte del patrimonio, Giulio era divenuto la figura di riferimento della famiglia, assumendosi l’onere di provvedere alla promozione del suo clan. Come detto, questo genere di progetti passava anche attraverso un’accorta politica matrimoniale, alla quale lo stesso Giulio si adeguò, scegliendo per sé una sposa quanto mai degna. Il 28 novembre 1832 impalmò nella cattedrale di Bergamo15 Marianna Lupi (circa 1803-1880), figlia del conte Giovanni (1767-1852), proprietario, tra l’altro, di una prestigiosa villa di campagna con annessi fondi rurali, filanda e oratorio privato intitolato alla Beata Vergine a Redona16, poco distante dalla casa e dai beni Caccia di Torre Boldone. Le nozze sancivano l’unione di due ragguardevoli famiglie bergamasche, ponendo anche le basi per la fusione di due cospicui patrimoni, tanto più che, essendo parte della sostanza Lupi soggetta a vincolo di fedecommesso e non avendo il conte Giovanni discendenza in linea maschile, la sua eredità sarebbe passata al maschio primogenito della coppia. Giovanni Lupi e Giulio Caccia condividevano inoltre la medesima attitudine imprenditoriale: il conte Lupi fu infatti tra i fondatori della Società Industriale Bergamasca nel 184717 e si dedicò all’esercizio della bachicoltura e della trattura nella sua tenuta di Redona sino alla fine del 184918, mentre Giulio, quasi in un passaggio di consegne, il 22 novembre di quello stesso anno iscrisse la sua società con filanda in Torre Boldone alla Camera di Commercio19. Nel 1850 Giulio ottenne dalle sorelle superstiti, Alma, Teresa e Maria, la rinuncia in suo favore alle quote dell’eredità paterna, acquisendo quindi nuovi capitali da poter destinare alla propria attività20, nella quale era coinvolta anche la moglie. Tale coinvolgimento dovette farsi ancora più significativo dopo la scomparsa del conte Giovanni nel 1852, quando i beni fedecommissari di Redona passarono a Maffio Caccia, figlio primogenito non ancora ventenne di Giulio e di Marianna, alla quale spettava invece il diritto d’usufrutto. Al 1853 risale infatti un contratto per l’acquisto di bozzoli tra i due coniugi e Isacco Tasca di Brembate, fratello di Vittore e cugino di Giulio per via materna, che conferma ulteriormente l’uso di intrecciare affari e legami affettivi21. D’altro canto le relazioni fra i diversi nuclei familiari non si limitavano certo a questi aspetti, ma si estendevano alla condivisione di spazi, ideali, occasioni di incontro, amicizie e ritrovi esclusivi, come il Casino di Società al quale nel 1857 risultavano iscritti sia Giulio Caccia che i cugini Benedetto e Vittore Tasca, e i cui scopi principali erano “l’utile e piacevole conversare, la lettura di giornali e opere periodiche, i giuochi leciti”22. 32 / Riannodando fili di seta alla ricerca di legami dimenticati
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Ritratto di Antonia Caccia Moretti, 1864 Collezione privata Ritratto di Marianna Lupi Caccia, 1854 Ubicazione ignota
Dal matrimonio di Giulio Caccia e Marianna Lupi, oltre a Maffio (1833-1879), erano nati altri sei figli: nel 1834 Marianna Camilla, nel 1835 Camilla Amalia Maria, nel 1837 Giovanna Maria Luigia, nel 1838 Antonia, nel 1840 Giovanni Girolamo e nel 1842 la più piccola, Luigia (Gina)23. La famiglia era domiciliata a Torre Boldone, nella casa posta in via Maggiore al civico n. 1, condivisa da Giulio con la moglie Marianna e i figli Maffio e Giovanni Girolamo dopo l’uscita dal nucleo di Marianna Camilla, andata in sposa all’avvocato Ponziano Patirani (1818-1891) di Gandino, di Antonia moglie dell’avvocato brembatese Andrea Moretti (1820-1881) e di Luigia che si era invece unita all’ingegnere Francesco Daina (1828-1897) originario di Rota Fuori24. Le nozze delle signorine Caccia portarono nuovo lustro alla famiglia d’origine, contribuendo a rinsaldarne l’immagine pubblica e la forza economica. Il marito di Marianna Camilla, Ponziano Patirani, di schietti sentimenti patriottici, “fu tra i più efficaci promotori dei moti del 1848 e, trovandosi a Brescia dove, come magistrato, risiedeva il padre suo, prese parte attivissima a quelle memorande dieci giornate e vi si distinse”25. In seguito esercitò l’avvocatura e ricoprì cariche pubbliche in qualità di consigliere provinciale e comunale di Bergamo, nonché sindaco di Spinone. “Uomo di tempra antica, aveva pari al carattere l’aspetto: alto, slanciato di persona, coi capelli lunghi e spioventi, rendeva immagine schietta di quella generazione eroica cui dovemmo il patrio Risorgimento”26. Amico di Giuseppe Zanardelli e di Pasquale Stanislao Mancini, fu inoltre promotore del Comizio dei veterani di Bergamo delle campagne del 1848-49, in seno al quale rivestì la carica di presidente. 33 / Riannodando fili di seta alla ricerca di legami dimenticati
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Fervente patriota fu anche lo sposo di Antonia, Andrea Moretti27. Figlio di Pietro e di Maddalena Meazza, era nato a Bergamo il 27 marzo 1820, ma visse lungamente a Brembate nella casa di villeggiatura della famiglia. Coetaneo di Vittore Tasca, coltivò i medesimi ideali, prendendo come lui parte attiva all’insurrezione del 1848. Dopo il fallimento di quei moti emigrò in Piemonte, tenendosi in relazione con gli amici Giovanni Battista Camozzi e Federico Alborghetti con i quali scambiò un intenso carteggio carico di speranze per la liberazione del Lombardo Veneto dalla dominazione austriaca28. Moretti ripassò il confine solo il 20 agosto 1849, approfittando dell’amnistia politica del 12 agosto. Come infatti annunciava all’amico Giovanni Battista Camozzi, che era invece stato escluso dal provvedimento insieme al fratello Gabriele e a Ottavio Tasca29, “ti scrivo da Torino per l’ultima volta, perocché mi son proprio deciso di tornare in Lombardia […] vivrò ritirato in campagna sperando ed aspettando tempi migliori”30. Negli anni seguenti, assecon-
Albero genealogico della famiglia Caccia
Maffio Caccia (m. 01.08.1829)
Alma (n. 10.04.1804)
Maria (m. 24.06.1884)
Maffio Caccia (21.04.1833 05.03.1879)
Luigi Bonandrini
Matilde Lovati (1844 02.05.1875)
Marianna Camilla Caccia (n. 04.10.1834)
Teresa (n. 30.07.1805)
Ponziano Patirani (1818 05.08.1891)
Camilla Tasca (1778 - 23.02.1874)
Santo Grassi
Camilla Amalia Maria Caccia (n. 21.09.1835)
Giovanna Maria Luigia Caccia (08.07.1837 24.06.1842)
Camilla (n. 01.06.1870)
Rosa Maria Ottavia Caccia (17.09.1871 17.10.1876) Maria Evangelina Giuseppina Giulietta Caccia (20.07.1873 08.07.1874)
Evangelina Caccia (n. 24.04.1875)
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dando il volere del padre, si dedicò anche a pubblici uffici, assumendo nel 1850 la carica di segretario della locale Camera di Commercio e più tardi, nel 1857 – anno del matrimonio con Antonia Caccia – quella di presidente della Commissione per la formazione dell’unico prezzo adeguato generale dei bozzoli della provincia. Il settore serico bergamasco, nel quale anche la famiglia Moretti era attiva, stava attraversando in quel momento una fase particolarmente delicata: l’epidemia di pebrina divampata nel 1853 ne aveva svelato tutta la vulnerabilità, spingendo i produttori di materia prima e di semilavorati a cercare soluzioni per la tutela dei reciproci interessi. Fu allora che “i bergamaschi si lanciarono arditamente nelle spedizioni bacologiche più arrischiate e lontane man mano che la zona della pebrina s’andava allargando”31. Tra i protagonisti di questa stagione compare anche il nome di Vittore Tasca, che nel 1859 intraprese un viaggio “nel cuore della Tartaria
Giulio Caccia (31.10.180603.05.1868)
Antonia Maria Carlotta Caccia (29.08.1838 10.12.1901)
Marianna Lupi (1803 - 22.07.1880)
Andrea Moretti (27.03.1820 13.11.1881)
Ottavia Caccia (28.10.181521.07.1845)
Antonia Caccia (1814 - 19.06.1838)
Giovanni Girolamo Caccia (n. 08.07.1840)
Paolina (n.1850)
Giovanna Luigia Benedetta [Gina] (n. 30.08.1842)
Francesco Daina (1828 - 10.07.1897)
Pietro Moretti (1861 - 25.08.1983)
Elisa (n.23.07.1874)
Teresa Daina
Giulio Moretti
Matilde (n. 02.12.1876) sp. Ernesto Bastogli
Anna Daina
Giudo Moretti
Giulio Daina (1867-1917)
Giovanni Moretti
Luigi Daina (n. 1868)
Vincenzo Daina (1872-1896)
Giovanni Maffio Daina (n. 1878)
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sfidando ogni più grave pericolo” alla ricerca di specie immuni32. L’impresa, promossa da un gruppo di privati cittadini associatisi per sostenerla finanziariamente, non ebbe tuttavia esito positivo, pur avendo avuto il merito di aprire quella via, ripresa nuovamente dopo l’Unità33. Vittore Tasca aveva allora trentotto anni34 ed era figura già ben nota, non solo in ambito locale, per il suo manifesto impegno patriottico. Vittore Tasca, un patriota in famiglia
Albero genealogico parziale della famiglia Tasca
Nato a Bergamo il 7 settembre 1821 nella casa di famiglia di via Pignolo Alta, Vittore era il quarto dei nove figli di Faustino35 e di Giovanna Conti. Compiuti gli studi classici nel liceo cittadino, intraprese poi quelli legali. Fra il 1839 e il 1843 fu all’Università di Pavia, poi in quella di Padova e quindi nuovamente a Pavia, dove si laureò nel luglio 1846. Gli anni universitari furono decisivi per la sua formazione, contribuendo a maturarne le convinzioni antiaustriache, grazie anche alla frequenta-
Teresa Moretti
Benedetto Tasca
Faustino Tasca (1788-1852)
Teresa Marianna Tasca (1818-1879)
Benedetto Tasca (1819-1871)
Giovannina Vitali (1821-1895)
Giovanna Conti (1787-1866)
Camilla Tasca (1778-1874)
Tommaso Vittore Michele Tasca (1820-1830)
Vittore Tasca (1821-1891)
Maddalena Marianna Tasca
Faustino Tasca
Vittorio Tasca
Camillo Tasca
Elisabetta Tasca
Emanuele Tasca
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zione di altri giovani patrioti, primi fra tutti i fratelli bergamaschi Giovanni Battista (1818-1906) e Gabriele (1823-1869) Camozzi e i pavesi Benedetto Cairoli (1825-1889) e Angelo Bassini (1815-1889). Dopo aver preso parte a diverse riunioni clandestine per la preparazione dell’insurrezione del 1848, allo scoppio dei moti a Bergamo e alla conseguente cacciata degli austriaci, partecipò all’organizzazione della Guardia Civica. Si arruolò quindi nel corpo dei bersaglieri piemontesi assumendo il grado di sottotenente. La firma dell’armistizio di Salasco (9 agosto 1848), dopo la sconfitta delle truppe piemontesi guidate da Carlo Alberto a Custoza, sancì però il ritorno degli austriaci in Lombardia, costringendo Vittore all’esilio36. Decise allora di riparare a Lugano insieme ai fratelli Benedetto e Isacco e a Gabriele Camozzi, mentre, come visto, Andrea Moretti sceglieva la via di Torino. In Svizzera Vittore e Gabriele Camozzi ebbero modo di incontrare anche Giuseppe Mazzini, che li incaricò di valutare la possibilità di una nuova azione nella bergamasca. I due passarono quindi il confi-
Giovanni Battista Tasca (1823-ante 1857)
Marianna Camilla Tasca (1824-1831)
Maria Felice Tasca (1826-1895)
Isacco Tasca (1828)
Elisabetta Albani
Tommaso Goffredo Tasca (1831- 1833)
Camilla Maria Tasca
Ettore Tasca
Cesare Tasca
Benita Tasca
Giovanna Tasca
Giovanna (1868-1870)
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ne travestiti da muratori per raggiungere la casa del conte Giuseppe Asperti di Almenno San Salvatore, ma ne ritornarono con la notizia dell’impossibilità di tentare l’impresa per la mancanza di “elementi assolutamente indispensabili alla medesima, quali sono armi, munizioni, denari e, più che tutto, incertezza di forza armata che sostenga il movimento”37. A distanza di qualche tempo si spostò in Piemonte, da dove, dopo brevi soggiorni a Genova e Firenze, tornò nuovamente nella bergamasca dopo la ripresa delle ostilità fra Piemonte e Austria il 20 marzo 1849. La sconfitta di Novara (23 marzo 1849) comportò la fine delle speranze degli insorti, inducendo anche Vittore a riprendere la strada dell’esilio. Come Andrea Moretti, rientrò in famiglia solo dopo l’amnistia, giungendo a Brembate il 20 settembre. Anche per lui il senso di sconforto per la mancata riuscita dell’insurrezione era profondo. Scrivendo a Giovanni Battista Camozzi gli confessava infatti: “Benché abbia provato il massimo piacere nel riabbracciare i miei di casa e molti amici, io mi trovo in tale stato di avvilimento che quasi arrossisco a guardare in faccia persone. Per questo io per molto tempo non mi allontanerò da Brembate”38; e ancora, dopo oltre due mesi dal ritorno a casa: “Per quanto desiderio io avessi di vedere i più cari amici, nel timore di incontrarmi con certi tali, non mi seppi mai risolvere di lasciare questo paese. Solo ieri fattami ragione e dovere faceva di fretta una gita a Boccaleone, a Torre ed alla Ranica. I tuoi di famiglia che tutti ho veduti stanno benissimo. Io conto di restare qui tutto l’inverno, comunque molti mi cerchino persuadere d’andare in città”39. Le frequentazioni erano limitatissime e le giornate si succedevano nell’esercizio dei passatempi preferiti: “Com’io qui me la passi, ti puoi immaginare; benché con quasi tutti del paese abbia in comune le idee, io cerco di starmene solo più che posso; e nel mio piccolo studio passo quasi tutto il giorno, leggendo, suonando, scarabocchiando e sporcando carte”. Nella ristretta cerchia delle persone ammesse nella sua casa, in quelle settimane in cui il disegno e la pittura sembravano essere diventati la sola consolazione, fece la sua comparsa Giovanni Carnovali: “Con Picio [sic] solo, che da giorni si è qui portato per fare ritratti, mi trovo più di frequente e la sua compagnia ch’è del tutto stramba, trovo che ora mi è più omogenea”40. L’interesse per la pratica artistica lo smosse infine a tornare in città per frequentare lo studio del pittore Pietro Ronzoni e a progettare persino un soggiorno a Ginevra per seguire l’insegnamento del paesista François Diday, ma le urgenze economiche connesse alla scomparsa del padre Faustino nel 1852 lo costrinsero a occuparsi, insieme ai fratelli, dell’amministrazione dei possedimenti della famiglia. La recrudescenza dell’epidemia di pebrina, che minacciava di travolgere la principale risorsa economica bergamasca e con essa la solidità economica della famiglia, sembrò riaccenderne la volontà, ponendo38 / Riannodando fili di seta alla ricerca di legami dimenticati
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Vittore Tasca in divisa Bergamo, Museo delle Storie Ritratto di Gina Caccia, 1862 Collezione privata
gli un nuovo eroico obiettivo e inducendolo a partire per il viaggio in Oriente cui si è fatto cenno. La spedizione gli impedì tuttavia, con suo grande rammarico, di prendere parte alla seconda guerra d’Indipendenza. La sua adesione all’iniziativa militare fu però completa, come lascia intendere l’offerta di 4000 franchi fatta al Municipio di Bergamo per il soccorso agli emigrati veneti una volta rientrato in città: “Lodevole Municipio, lontano dall’Europa mentre l’Italia pugnava per la propria liberazione […] spinto dal sentimento di dovere e dal desiderio di contribuire pur io in qualche modo alla grand’opera della redenzione d’Italia, non sapendo per ora far altro di meglio, mi sono determinato di destinare la somma di franchi quattromila (4000) in soccorso della veneta emigrazione, persuaso non esservi forse attualmente causa né più nobile né più patriottica che quella di aprire le nostre braccia a quegli infelici nostri fratelli i quali, perché tra i più generosi, sono ora costretti di fare appello alla nostra assistenza”41. Si adoperò inoltre per il reclutamento di volontari e per la riuscita della sottoscrizione per un milione di fucili, promossa da Giuseppe Garibaldi per raccogliere i fondi necessari ad armare le future azioni. Venuto a conoscenza dei preparativi per la spedizione dei Mille in Sicilia, nella primavera del 1860 partì per raggiungere il generale a Genova. Arruolato nell’VIII Compagnia comandata dall’amico Angelo Bassini, il 5 maggio 1860 si imbarcò a Quarto. Per il valore dimostrato sul campo e la visione strategica ottenne ripetuti riconoscimenti e promozioni fino a raggiungere il grado di maggiore nel I Reggimento, II Brigata, XV Divisione “per Decreto del Generale Dittatore dell’Italia Meridionale” (2 ottobre 1860)42. Nel corso della campagna mantenne sempre i contatti con amici e familiari, ai quali inviava lunghe lettere in cui illustrava l’avanzata nelle regioni meridionali, senza mai dimenticare di indirizzare saluti 39 / Riannodando fili di seta alla ricerca di legami dimenticati
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agli affetti più cari. Così, ad esempio, scrivendo da Palermo a Giovanni Battista Camozzi il 10 giugno 1860: “Dovendoti lasciare, io finisco col pregarti di fare per me tanti e tanti saluti e doveri a tua signora e cognati, a tutti i tuoi parenti, agli amici a cui in particolare mi ricorderai a Battista Agliardi e tutti di sua famiglia, alle due famiglie Piazzoni, ai Caccia, a Beolchi, Rossi, Padovani ecc. etc.”43. Dopo l’incontro di Teano (26 ottobre 1860), in cui Garibaldi consegnò i territori liberati a Vittorio Emanuele II, Vittore Tasca decise di dimettersi da ufficiale dei volontari garibaldini e tornare a Bergamo, dove l’amico Giovanni Battista Camozzi aveva nel frattempo assunto la carica di sindaco. Qui si adoperò per l’istituzione della Società del tiro a segno e fu dapprima vicecomandante e poi comandante della Legione bergamasca della Guardia nazionale, carica che lasciò dopo i fatti di Sarnico (14-15 maggio 1862)44. Continuò tuttavia a interessarsi all’operato di Garibaldi, che nell’estate di quell’anno si stava preparando per la spedizione in Aspromonte, come attesta una lettera indirizzatagli l’8 luglio e conservata nell’Archivio
Albero genealogico della famiglia Daina
Francesco Daina (1828-1897)
Teresa Daina
Ugo Daina
Anna Daina
Francesco Finardi
Enrico Daina (n.m. 31.03.1898)
Antonio Finardi (n.1890)
Ida Daina (n.m. 17.02.1899)
Maria Anna Finardi (n.1892)
Giovanna Luigia Benedetta [Gina] Caccia (n. 1842)
Giulio Daina (1867-1917)
Luigi Daina (n. 1868)
Vincenzo Daina (1872-1896)
Lucia Elisa Finardi (n.1895)
Giulio Vincenzio Finardi (n.1896)
Fulvia Marianna Finardi (n.1899)
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Gamba della Biblioteca Angelo Mai: “Caro signor Colonnello, mi immagino che tutta la merce l’avrà ricevuta. Prego la S.V. di volermi spedire in Genova una cassetta contenente 8 trombe all’indirizzo Giacomo Vivaldi conte di Soceto. Mi dia qualche informazione sulla robba [sic] dovendone ragguagliare il Generale. Mi dica se le armi sono salve”45. Dopo l’Unità, tra arte, impegno civile, nuove unioni e urgenze economiche Il ritorno di Vittore Tasca alla vita civile si era intanto accompagnato al ritorno all’amata dimora di Brembate, dove ripresero anche le frequentazioni con amici e parenti, a cominciare dai Caccia e dai Moretti. Nella casa di campagna ospitò nuovamente il Piccio, che tra il 1862 e il 1863 realizzò, insieme ad altri, i due ritratti fulcro di questa mostra: quello di Gina Caccia e quello a figura intera di Vittore in divisa da garibaldino46. Erano anni ancora ricchi di entusiasmo per l’Unità appena raggiunta e intrisi di speranze per il futuro.
Giovanni Francesco Daina (1795-1833)
Teresa Bellati
Enrico Daina (1829-1888)
Giovanni Maffio Daina (n. 1878)
Oscar Daina (n. 1855)
Riccardo Daina (n. 1861)
Carolina Fleisner (morte 1913)
Ugo Daina (1864-1956)
Teresa Daina
Bianca Emma Daina (n. 1881)
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Nella famiglia Caccia si registrò una nuova e promettente alleanza grazie al matrimonio tra Luigia (Gina) e l’imprenditore serico Francesco Daina il 15 ottobre 1863. Lo sposo, laureato in ingegneria, proveniva da un’agiata famiglia di Rota Fuori, da tempo implicata nel settore tessile. Il nonno paterno, Francesco (1766-1852), pur essendo notaio, nel 1803 risultava vivere “d’industria”47. L’attività fu portata avanti dal padre dell’ingegner Daina, Giovanni Francesco (1795-1833), e poi da lui e da suo fratello Enrico (1829-1888), pure ingegnere e proprietario di una filanda a Rota48. Francesco Daina fu uno dei più importanti semai bergamaschi, attivo anche nell’ambito della trattura49. Con “gli imponenti capitali che ogni anno espone in simili imprese ad esclusivo rischio proprio” riuscì a estendere la sua rete di agenti in Oriente fino al Giappone50. Nelle sue spedizioni, nelle quali spiccavano esponenti della intraprendente comunità evangelica di Bergamo51, coinvolse anche il cognato Maffio Caccia, come testimonia un annuncio pubblicato sulla “Gazzetta del Popolo” del 10 novembre 1864: “Nell’interesse dei diversi committenti mi pregio notificare di aver ricevuto un telegramma da Alessandria d’Egitto, in data 31 ottobre, avvisantemi l’arrivo in quella città della prima spedizione Semente del Giappone fatta per mio conto dal mio commesso G. Stoffel […]. La seconda spedizione sarà accompagnata dal sig. D.G. Grazioli […]. Le altre spedizioni saranno scortate dai miei commessi E. Alpiger e G.B. Biava. Il signor R. Lindau, console generale svizzero al Giappone, residente in Jokoama, capo e direttore dell’operazione d’acquisto […] sarà il solo degli incaricati per questa operazione che non ritorni scortando la semente […]. La semente d’Armenia o Caucaso […] arriverà pure fra pochi giorni scortata dal mio cognato nob. Sig. Maffio Caccia. / Bergamo, 5 novembre 1864 - Francesco Daina”. A tale fervore d’attività non pare fosse al momento interessato l’altro figlio maschio di Giulio Caccia e Marianna Lupi, Giovanni Girolamo, che aveva intrapreso la carriera militare ed era fonte di non poche preoccupazioni per la madre. In un’accorata lettera indirizzata all’amico Gabriele Camozzi la donna infatti lamentava: “Com’Ella ben sa io assumeva sino dallo scorso anno al 25 luglio tutti i debiti di mio figlio da lui rassegnati colla clausola purché fossero gli ultimi. Infatti mercé la di lei cooperazione e quella del sig.r Pietro Riva, io perveniva a saldarne molti con danaro sonante e molti altri con lettere d’obbligazione da pagarsi però entro 9bre p.o v.o. Questo sforzo supremo in epoche cotanto critiche comprometteva non poco i miei interessi; ma considerando che tali debiti dovevano essere gli ultimi di buon grado mi prestava a tal sagrificio. Dopo tal’epoca, ben lungi dal ravvedersi, i debiti andarono succedendosi ed io dovetti scrivere al Colonnello [Tasca?] non trovarmi più in grado di sottopormi a nuovi sagrifici; dovesse quindi appigliarsi a quelle misure di rigore ch’egli credesse opportune. Infatti, dopo cinque mesi di arresti venne mio figlio sospeso dalle sue funzioni e posto in 42 / Riannodando fili di seta alla ricerca di legami dimenticati
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aspettativa. Venne pure deliberato dal Ministero di trattenere una parte della sua paga onde impiegarla a pagare i suoi debiti, e nel tempo che mio figlio dimorerà in famiglia, egli si propone di usare anche dell’altra porzione di paga per tale oggetto”52. Più tranquilla appariva invece la situazione in casa dell’altra figlia, Antonia, il cui marito Andrea Moretti aveva avviato una brillante carriera politica. Eletto per la prima volta nel collegio di Treviglio nella settima legislatura, venne riconfermato nell’ottava e poi ancora nella decima. Anche Vittore Tasca aveva scelto la via dell’impegno politico, inizialmente in ambito civico, ricoprendo ripetutamente la carica di consigliere comunale a Bergamo e interessandosi, forte delle sue competenze in ambito artistico, alle vicende dell’Accademia Carrara. Sul finire del 1863 Tasca riprese il comando della Legione bergamasca della Guardia nazionale, mentre nel 1866, allo scoppio della terza guerra d’Indipendenza, rientrò fra le truppe volontarie garibaldine, assumendo il 13 settembre il grado di tenente colonnello, confortato da un personale attestato di fiducia di Garibaldi: “Mio caro Tasca, se fossi stato incaricato della primitiva organizzazione dei corpi volontari, voi certo avreste comandato un reggimento, e sono persuaso che nessuno sarebbe stato meglio comandato del vostro”53. Nuovi percorsi Conclusa la guerra, finì anche l’esperienza militare di Vittore Tasca e si aprì per lui una nuova stagione, vissuta nel culto del Generale e dell’epopea risorgimentale, in una rinnovata dedizione all’impegno politico e nell’esercizio della pittura e del mecenatismo. D’altro canto l’eredità lasciatagli dallo zio paterno don Antonio Tasca, morto il 16 luglio 1865, permise a Vittore e ai suoi fratelli Benedetto, che aveva nel frattempo intrapreso la professione di ingegnere, e Isacco di raggiungere una stabilità economica tale da consentire loro di rinunciare definitivamente all’attività imprenditoriale. Nel 1868, a seguito della divisione del patrimonio comune con i fratelli, Vittore acquisì anche la piena proprietà della casa di Brembate, più tardi trasformata in un vero e proprio cenacolo artistico e monumento patriottico. Il 1868 fu un anno importante anche per i Caccia. Il 3 maggio morì infatti il capofamiglia Giulio54. Nel suo testamento, scritto fin dal 12 agosto 1855, egli aveva scelto di privilegiare il figlio minore Giovanni Girolamo nominandolo suo erede universale, “e ciò in causa del testamento del fu conte Giovanni Lupi [cui] è piaciuto di avere in maggior considerazione il primogenito mio figlio Maffio […] e per nessunissimo altro motivo”. A Giovanni Girolamo imponeva peraltro di pagare con la sostanza lasciatagli 20.000 lire al fratello e altre 5000 lire a ciascuna delle sorelle, mentre, come di costume, destinava alla moglie l’usufrutto 43 / Riannodando fili di seta alla ricerca di legami dimenticati
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del patrimonio “in attestato di riconoscenza di quanto le devo per tante generosità usatemi ed ottimissima compagnia”55. In quello stesso anno, il 3 settembre 1868, Giovanni Girolamo si sposò con la nobile Paolina Rivola alla presenza dei testimoni Giovanni Battista Camozzi e Vittore Tasca56. Dal matrimonio nacquero tre femmine: dopo la primogenita, nata morta, vennero alla luce Elisa nel 1874 e Matilde nel 1876. L’anno dopo il matrimonio di Giovanni Girolamo, il 2 settembre 1869, Maffio sposò Matilde Lovati57. Anche lui ebbe unicamente figlie femmine, due sole delle quali, Camilla ed Evangelina, raggiunsero la maggiore età. L’unione ebbe breve durata per la precoce morte della sposa, avvenuta il 2 maggio 187558, seguita quattro anni dopo da quella dello stesso Maffio nella casa di Torre Boldone il 5 marzo 187959. Il consiglio di famiglia, riunitosi il 4 aprile 1879, deliberò di nominare tutore delle figlie minorenni della coppia lo zio paterno Giovanni Girolamo, mentre l’avvocato Andrea Moretti assumeva l’incarico di protutore60. In tale occasione si decise anche di richiedere una proroga alla redazione dell’inventario per “i molti affari della stagione riferentesi alla preparazione seme bachi ed altre operazioni di campagna” che non consentivano “al tutore nob. Giovanni Caccia di detto luogo [Torre Boldone] e protutore dott. Andrea Moretti di Brembate il convegno per procedere al detto inventario nel termine di legge”. A quella data, dunque, sia i Caccia che i Moretti erano ancora ampiamente coinvolti nell’attività di bachicoltura, come conferma una seconda istanza presentata da Giovanni Girolamo Caccia alla Pretura del III Mandamento di Bergamo per “il ritardato raccolto dei bozzoli”, per cui “non potrebbesi, ora che è maggiormente richiesta la personale sorveglianza, abbandonare quell’azienda senza risentirne pregiudizio”61. Villa Tasca a Brembate
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L’inventario dei beni di Maffio Caccia venne infine compilato il 28 agosto 1879 alla presenza del tutore e del protutore, dei notai Salvatore Locatelli e Angelo Custode di Bergamo nonché del perito Davide Baroni. Dal documento apprendiamo “che il defunto coabitava in detta casa [di Torre Boldone] coll’altra parte della famiglia avvalendosi di quanto offre la casa, per cui i mobili di sua ragione si riducono si può dire al solo necessario […] che l’abbandonato consta di alcuni stabili e crediti di provenienza paterna, di altri stabili vendutigli dalla propria madre, di denaro, di un medagliere costituito da una sua raccolta come dilettante, di alcuni effetti infruttiferi, di alcuni pochi indumenti in biancheria, ecc.”. Tra gli effetti personali ritrovati nella sua stanza c’erano, oltre a denaro contante e titoli di credito, “diversi libri la maggior parte legali […] un orologio d’argento […] un anello d’oro, due spille d’oro” e “due daghe armene cesellate in argento”, probabile ricordo della spedizione del 1864. I beni immobili comprendevano invece il roccolo del Casellone, in comproprietà con il fratello Giovanni Girolamo, alcuni stabili a Gessate e a Bellinzago, paese nel quale Maffio era stato anche consigliere comunale62. “Osservasi dalla tutela di dette minori che il detto Maffio possedeva inoltre in territorio di Redona un pezzo di terra tutto unito e racchiuso da altra proprietà di provenienza conte Lupi, ora di ragione del sig. Caccia Giovanni, tutore [e che] tutte le proprietà stabili di sostanza di detto defunto sono vincolate all’usufrutto della contessa Marianna Caccia sua madre”63, destinato a estinguersi l’anno successivo, alla morte della nobildonna il 22 luglio 188064. I beni di Redona, compresa la villa appartenuta al conte Giovanni Lupi, erano intanto passati a Giovanni Girolamo65. Gli anni ottanta e novanta Malgrado il cospicuo patrimonio accumulato come erede finale della maggior parte delle sostanze di casa Caccia e di casa Lupi, Giovanni Girolamo maturò nel corso degli anni ottanta del XIX secolo una situazione debitoria tale da costringerlo in breve tempo a vendere gran parte dei propri beni. Prestiti e iscrizioni ipotecarie avevano invero cominciato ad accumularsi già prima, quando il fratello Maffio era ancora in vita, ma nell’ultimo ventennio del secolo essi divennero insostenibili. Le alienazioni ebbero inizio fin dal 1880 e si susseguirono poi a ritmo incalzante: nel 1881 cedette all’imprenditore svizzero Samuele Zopfi e a suo genero Giacomo Trümpy una casa adiacente all’abitazione di famiglia di Torre Boldone66. Nel 1884 fu la volta di una casa colonica a Redona, venduta al cavalier Pietro Jacob67. Il 12 febbraio 1886 alienò alle nipoti Camilla ed Evangelina i beni mobili delle case di Torre Boldone e di Redona per pagare un debito verso le stesse di 18.000 lire, riservandosi tuttavia la facoltà di redimere quei beni entro quattro anni. Il giorno prima aveva 45 / Riannodando fili di seta alla ricerca di legami dimenticati
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chiesto e ottenuto dal consiglio di famiglia di essere esonerato dall’incarico di tutore delle due nipoti, che fu assunto dal cognato Ponziano Patirani, coadiuvato dall’avvocato Bartolomeo Terzi in veste di protutore68. La situazione era però ormai precipitata: Giovanni Girolamo Caccia e Paolina Rivola lasciarono Bergamo, conferendo al ragioniere Giacomo Tavecchi “ampia ed illimitata procura […] per liquidare e sistemare il loro patrimonio e per procedere alla vendita degli stabili onde dimettere le molte passività di cui erano aggravati”69. Il 16 aprile 1887 il ragionier Tavecchi passò alla vendita dei beni di Torre Boldone, che furono ceduti in parte ai fratelli Pietro e Giovanni Capelli e in parte alle loro mogli, le sorelle Caterina e Francesca Baroni70. Tre giorni più tardi fu la volta della villa e delle proprietà di Redona, acquistate dal conte Vittorio Mapelli71. Il 21 aprile, infine, il latifondo di Brusaporto di ragione di Paolina Rivola passò nelle mani di Berta De Salis e Margarita Perpetua Maria De Juvalta, madre e figlia, e al minorenne Giovanni Corradino De Juvalta a estinzione dei loro crediti verso i coniugi Caccia72. Giovanni Girolamo Caccia si stabilì con la moglie a Firenze portando con sé, tra i ricordi di famiglia, i ritratti dei genitori realizzati da Piccio73. Assai diversi furono quegli anni per Vittore Tasca. Fu infatti nello stesso periodo che iniziò a prendere corpo la trasformazione della villa di Brembate74, grazie anche al concorso di numerosi artisti amici del colonnello Tasca, che con lui condivisero il progetto di farne un tributo al processo di unificazione nazionale, tra i quali si ricordano i fratelli Alberto e Cesare Maironi, Luigi Varese e Cesare Cavaliè. Del ricco apparato decorativo, che fu in gran parte smontato dopo la morte di Tasca, si ricordano le decorazioni a bassorilievo con episodi risorgimentali già poste lungo le balaustrate, quattro tondi con le effigi di patrioti, le lesene con motivi a panoplie che ancora scandiscono la facciata e due medaglioni con i volti di Vittorio Emanuele II e di Giuseppe Garibaldi. Nel giardino furono collocati un’erma di Benedetto Cairoli, quattro leoni in porfido ispirati alle gesta garibaldine e due monumenti in onore di Garibaldi. Questi ultimi, entrambi opera di Cesare Maironi, vennero descritti con minuzia di particolari in un articolo apparso sulla “Gazzetta Provinciale di Bergamo” il 30 novembre 1889: “Il primo, situato in una specie di piazzale al quale si accede da un’erta che dovrà essere assiepata di piante di garofani rossi, ha la base di puddinga, e si eleva in forma rotonda e a tre angoli in massiccio granito di Baveno. Attorno al plinto si sviluppa la sintesi espressa da tre leoni in bronzo atteggiati con mossa di slanciarsi a terra. Uno ha sotto gli artigli i ceppi infranti della schiavitù e con le fauci spalancate rugge alle genti il grido di libertà. Un altro schiaccia una delle teste dell’aquila bicipite, mentre l’altra sembra volergli beccare le zampe. Il terzo strappa l’emblema del potere temporale rappresentato dalla corona turrita. Al di sopra del plinto, spicca il volo il genio della guerra, egualmente in bronzo. 46 / Riannodando fili di seta alla ricerca di legami dimenticati
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Monumento a Giuseppe Garibaldi nel parco di Villa Tasca a Brembate (foto di Cesare Cavaliè) Lovere, Accademia Tadini Secondo monumento a Giuseppe Garibaldi nella Villa Tasca di Brembate
È alato, ha l’elmo in testa, la spada in pugno e con lo sguardo sembra seguire le fasi di una battaglia. L’apoteosi di Garibaldi è espressa dalla statua dell’eroe, che sovrasta la colonna, nel suo fiero atteggiamento di guerriero e riposante sopra un trofeo di scudi imbracciati da puttini raffiguranti i genii delle armi e della marina […]. “L’altro monumento a Garibaldi […] ci rappresenta lo scoglio di Caprera. In mezzo ad una bellissima vasca, ricca di getti d’acqua, s’innalza la massa rocciosa. L’imitazione della storica isola è perfetta […] sulla sommità dello scoglio s’innalza un obelisco con in cima l’aquila sorreggente la stella dei Mille. All’ombra di quella colonna che segna tante glorie siede Garibaldi, riposandosi dai suoi prediletti lavori agricoli. Anche questo monumento si trova attorniato d’una specie di anfiteatro verdeggiante e acquista gran risalto in mezzo a quell’agreste semplicità”75. In quella casa, tempio dei suoi ricordi più belli, Vittore Tasca morì il 21 aprile 1891 all’età di sessantanove anni. Era da poco tornato da Roma dove aveva partecipato ai lavori parlamentari. Era infatti stato rieletto alla carica di deputato nel 1890, dopo le precedenti esperienze nell’undicesima, tredicesima e sedicesima legislatura. Dopo la sua morte l’immobile passò in eredità ai nipoti Cesare ed Ettore, figli di suo fratello Isacco e della contessa Elisabetta Albani, i quali lo vendettero già nel 1892 al conte Luigi Medolago Albani. Poco dopo l’acquisto il conte Medolago Albani fece rimuovere la maggior parte della statuaria e dei cimeli garibaldini76, offrendo in dono la grande statua dell’eroe dei due mondi al Municipio di Brembate77, ma, per le lungaggini nelle trattative, finì poi per venderla a un libraio di Bergamo78. Dopo una serie di passaggi di proprietà, nel 1976 Villa Tasca e il suo giardino furono acquistati dal Comune di Brembate e sono oggi sede della Biblioteca Civica e parco comunale79. 47 / Riannodando fili di seta alla ricerca di legami dimenticati
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1 Su questi temi si vedano: Imprenditori e cultura. Raccolte d’arte in Lombardia. 18291926, a cura di G. Ginex e S. Rebora, Cinisello Balsamo 1999; e Accoppiamenti giudiziosi: industria, arte e moda in Lombardia. 18301945, a cura di S. Rebora e A. Bernardini, Cinisello Balsamo 2004. 2 Archivio di Stato di Milano, Atti di Governo, Araldica, Parte Moderna, b. 94 e b. 169. 3 G. Della Valentina, L’agricoltura si rinnova. Si impongono gelso e granoturco, in Storia economica e sociale di Bergamo. Il tempo della Serenissima. Settecento, età del cambiamento, Bergamo 2006, pp. 17-74. 4 P. Bolchini, Dalla manifattura rurale all’industria, in Storia economica di Bergamo. Fra Ottocento e Novecento. Il decollo industriale, Bergamo 1997, pp. 13-47; G. Valoti, Caalér: l’allevamento dei bachi da seta in provincia di Bergamo, Bergamo 2016; G. Fumi, Il filo più sottile. L’industria della seta tra “alte fabbriche” e mercati oltremontani: il caso di Bergamo e territorio (secoli XVIII-XIX), Torino 2019. 5 G. Maironi da Ponte, Osservazioni sul dipartimento del Serio, Bergamo 1803, p. 69. 6 S. Jacini, La proprietà fondiaria e le popolazioni agricole in Lombardia. Studi economici, Milano 1854, p. 141. 7 Vita di Suor Alma Maria Caccia dell’Ordine di S. Domenico nel Monastero del Matris Domini in Bergamo scritta da un sacerdote di questa diocesi, Bergamo 1846. 8 Dichiarazione della superiora del monastero, allegata all’istrumento 13 marzo 1850, in Archivio di Stato di Bergamo (ASBg), Atti dei Notai, Zanchi Giovanni Battista, b. 13319. 9 Ibidem, p. 12. 10 Ibidem, pp. 13-14. 11 Ibidem, p. 17. 12 Ibidem, p. 37. 13 Ibidem, pp. 49-50. 14 S. Rebora, Il collezionismo e la committenza, in I pittori bergamaschi dell’Ottocento. La generazione del Novecento, Bergamo 1992, pp. 24-28. 15 L’informazione si ricava dai Registri dei battesimi dell’Archivio della parrocchia di San Lorenzo Martire di Redona, dove furono battezzati quattro figli della coppia. 16 G. Maironi da Ponte, Dizionario odepórico, o sia storico-politico-naturale della Provincia
Bergamasca, Bergamo 1820, vol. III, p. 43. La villa è oggi nota come Villa Goisis: cfr. A. Roncelli, Le belle ville bergamasche. Villa Goisis a Redona, in “Giornale di Bergamo”, 21 febbraio 1971; C. Perogalli, M.C. Sandri, V. Zanella, Ville della provincia di Bergamo, Milano 1983, p. 219. 17 Atti relativi alla fondazione della Società Industriale Bergamasca, Bergamo 1847, p. 65. 18 ASBg, Camera di Commercio, Notifica della ditta Lupi conte Giovanni (dicembre 1849), b. 80; A. Locatelli, Guida commerciale, industriale, artistico-statistica di Bergamo e sua provincia, Bergamo 1851, pp. 13 e 17. 19 ASBg, Camera di Commercio, Registro ditte. Notifiche d’iscrizione alla Camera di Commercio (dal n. 1357 al 1813), b. 83. La ditta di Giulio Caccia era iscritta al n. 1540. 20 ASBg, Atti dei Notai, Zanchi Giovanni Battista, Istrumento 13 marzo 1850. 21 M.C. Carlessi, G. Oberti, Vittore Tasca e la sua villa di Brembate, Milano 2004, p. 29. 22 Statuti del Casino di Società nella piana città di Bergamo, Bergamo 1857, pp. 36 e 44. La sede della società era posta in Borgo San Leonardo, in contrada di Prato al n. 1070. 23 Registri dei battesimi dell’Archivio della parrocchia di San Lorenzo Martire di Redona e dell’Archivio della parrocchia di San Martino Vescovo di Torre Boldone. 24 ASBg, Fondo Successioni, Successione di Giulio Caccia, b. 31. 25 Necrologio della direzione, in “Gazzetta Provinciale di Bergamo”, 5 agosto 1891. 26 Ibidem. 27 “La Nuova Strenna Bergamasca”, 1882, 203. 28 Alcune lettere di patrioti bergamaschi, in “Bergomum. Bollettino della Civica Biblioteca”, Bergamo 1930, pp. 181-207. 29 Poeta e patriota, Ottavio Tasca (17951872) apparteneva al ramo dei Tasca di Seriate. 30 Lettera del 18 agosto 1849, ibidem, p. 199. 31 “Annali del Ministero d’Agricoltura, Industria e Commercio. IV Trimestre 1870”, Milano 1870, p. 164. 32 Ibidem. 33 Alla spedizione presero parte anche Ferdinando Meazza, partito con Tasca da Bergamo, e Giuseppe Sartirana di Milano, incontrato da Tasca a Pietroburgo; cfr. Lettera di Vittore Tasca sulla iniziativa delle spedizioni nella grande Bukaria e nel Kokand per im-
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portazione seme-bachi (Bergamo 28 marzo 1869), in “Italia Agricola”, 16 aprile 1869. 34 Su Vittore Tasca si vedano: G.B. Camozzi Vertova, In memoria di Vittore Tasca, in “Gazzetta Provinciale di Bergamo”, 20 aprile 1892; G. Locatelli Milesi, Vittore Tasca: lettura fatta all’Ateneo di Bergamo il 18 giugno 1899, Bergamo 1900; O. Tempini, Vittore Tasca in Bergamo e i Mille, Bergamo 1932, pp. 147-155; P. Raffaelli, Tasca Vittore, in Le 180 biografie dei bergamaschi dei Mille, a cura di A. Agazzi, Bergamo 1960 e il puntuale e documentato studio di Carlessi e Oberti, op. cit. 2004. 35 Faustino era figlio di Benedetto Tasca e di Teresa Moretti nonché fratello di Camilla Tasca. 36 G. Martinola, Gli esuli italiani nel Ticino 1848-1870, Lugano 1994, pp. 150 e 533. 37 Lettera di Vittore Tasca ad Andrea Moretti a Torino da Lugano, 3 novembre 1848, in Biblioteca Civica Angelo Mai (BAM), Archivio Gamba, vol. 33. La missiva contiene un circostanziato racconto della vicenda oltre che degli sfortunati tentativi insurrezionali che ebbero luogo in quei giorni in Valtellina, Valle d’Intelvi e nei pressi di Luino (p. 13). 38 Lettera di Vittore Tasca a Giovanni Battista Camozzi da Brembate, 20 settembre 1849, in BAM, Archivio Gamba, vol. 35. 39 Lettera di Vittore Tasca a Giovanni Battista Camozzi da Brembate, 27 novembre 1849, in BAM, Archivio Gamba, vol. 35. 40 Lettera di Vittore Tasca a Gabriele Camozzi da Brembate, 6 dicembre 1849, in Carlessi, Oberti, op. cit. 2004, p. 71. 41 Lettera di Vittore Tasca al Municipio di Bergamo, 27 settembre 1859, in BAM, Raccolta Risorgimento Italiano, vol. 28. 42 BAM, Raccolta Risorgimento Italiano, vol. 28. 43 BAM, Raccolta Risorgimento Italiano, vol. 28. 44 Per una dettagliata ricostruzione dei fatti di Sarnico, sommossa mazziniana capitanata da Francesco Nullo con l’appoggio di Giuseppe Garibaldi con l’obiettivo di penetrare in Trentino, cfr. “Bergomum”, fasc. II, 1962, pp. 3-67. 45 BAM, Archivio Gamba. 46 Per gli aspetti artistici si rimanda al testo di Niccolò D’Agati in questo volume. 47 R. Invernizzi, Radici valligiane. Ricerca storico-genealogica sulle antiche famiglie dell’al-
ta Valle Imagna, http://franchini.e-monsite. com/medias/files/radici-valligiane.pdf (consultato il 12 febbraio 2022). 48 Enrico Daina morì tragicamente il 23 novembre 1888 sul monte Resegone: cfr. “Gazzetta Provinciale di Bergamo”, 24 novembre 1888. Era sposato con Carolina Fleisner (+ 6 marzo 1913) da cui ebbe Oscar (n. 1855), Riccardo (n. 1861), Ugo (1864-1956) e Bianca Emma Ines (n. 1881). Ugo, di professione medico, sposò la cugina Teresa Daina, figlia degli zii Francesco e Luigia Caccia. Ricoprì ruoli pubblici come presidente dell’Ordine dei Medici di Bergamo e del Circolo Artistico della città. 49 Alla metà degli anni settanta fece costruire un’imponente filanda a Martinengo, edificio tuttora esistente e adibito a Biblioteca Comunale. 50 Il diario di Pompeo Mazzocchi 1829-1915, a cura di C. Zanier, Brescia 2003. 51 S. Honegger, Gli svizzeri di Bergamo, Bergamo 1997. 52 Lettera di Marianna Lupi Caccia a Gabriele Camozzi da Bergamo, 26 settembre 1864, in BAM, Archivio Camozzi Danieli, H.I.L.12. 53 BAM, MMB 797. 54 ASBg, Registri di Stato civile, Registro dei morti di Torre Boldone, 1868. 55 ASBg, Fondo Successioni, Successione di Giulio Caccia cit. 56 ASBg, Registri di Stato civile, Registro dei matrimoni di Bergamo, 1868. La sposa aveva diciotto anni ed era figlia di Antonio Rivola e di Elisabetta Maironi da Ponte. 57 ASBg, Registri di Stato civile, Registro dei matrimoni di Brembate Sotto, 1869. Testimoni del matrimonio furono Giuseppe Moretti, fratello di Andrea e marito di Maria Gritti Morlacchi, e Alessandro Doneda. La sposa, venticinquenne, era nata a Milano, ma domiciliata a Brembate Sotto. I genitori erano Giuseppe, defunto all’epoca del matrimonio, e Maria Alchieri. 58 ASBg, Registri di Stato civile, Registro dei morti di Torre Boldone, 1875. 59 ASBg, Registri di Stato civile, Registro dei morti di Torre Boldone, 1879; necrologio in “Gazzetta Provinciale di Bergamo”, 5 marzo 1879. 60 Il consiglio di famiglia era formato dalla nonna paterna delle minorenni, Marianna Caccia Lupi, da quella materna Rosa Lovati Alchieri e dagli zii Giovanni Caccia, Andrea
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Moretti, Ponziano Patirani e Francesco Daina. ASBg, Atti dei Notai, Notaio Salvatore Locatelli, b. 14343. 61 Ibidem. 62 Guida generale di Milano ed intera provincia. Anno 1873-74, Milano [1874], p. 264. 63 Inventario della sostanza abbandonata dal defunto Maffio Caccia (28 agosto 1879), ASBg, Atti dei Notai, Notaio Salvatore Locatelli, b. 14343. 64 ASBg, Registri di Stato civile, Registro dei morti di Torre Boldone, 1880; necrologio in “Gazzetta Provinciale di Bergamo”, 23 luglio 1880. 65 ASBg, Catasti storici, Ufficio di Bergamo, Libro delle partite di Redona, n. 823, e Volture di Redona. 66 Istrumento 13 ottobre 1881, in ASBg, Atti dei Notai, Notaio Salvatore Locatelli, b. 14346. 67 Istrumento 21 gennaio 1884, in ASBg, Atti dei Notai, Notaio Salvatore Locatelli, b. 14350. 68 Oltre che da Giovanni Caccia, il consiglio di famiglia risultava in quel momento formato dall’avvocato Ponziano Patirani, che aveva assunto l’incarico di protutore dopo la morte di Andrea Moretti, e da Vittore Tasca, Francesco Daina, Bartolomeo Terzi e Giuseppe Moretti in qualità di consulenti. 69 Procura 2 aprile 1886, in Atti del Notaio Salvatore Locatelli, b. 14352. 70 La vendita avvenne con due atti distinti in pari data: cfr. Atti del Notaio Salvatore Locatelli, b. 14353. 71 Istrumento 16 aprile 1887, in ASBg, Atti del Notaio Salvatore Locatelli, b. 14353. Vittorio Mapelli (1859-1929) acquistò i possedimenti di Redona in occasione del suo matrimonio
con Modeste Rochstol (1858-1893). La villa assunse allora il nome di Villa Modesta (oggi nota come Villa Goisis). 72 Istrumento 21 aprile 1887, in ASBg, Atti del Notaio Salvatore Locatelli, b. 14353. 73 I ritratti di Giulio e di Marianna Caccia figurano infatti nel catalogo della Mostra del ritratto italiano dalla fine del sec. XVI all’anno 1861, allestita a Palazzo Vecchio di Firenze tra marzo e luglio del 1911, come proprietà del nobile Giovanni Caccia. 74 G. Oberti, Villa Tasca. La villa di Brembate e il parco romantico, Milano 2003. 75 La villa del colonnello Tasca a Brembate. Monumenti e ricordi patriottici, in “Gazzetta Provinciale di Bergamo”, 30 novembre 1889. 76 Carlessi, Oberti, op. cit. 2004, p. 107. 77 “Corriere della Sera”, 9-10 giugno 1892. 78 Carlessi, Oberti, op. cit. 2004, p. 107. 79 Nel 1896 la casa passò in proprietà alla signora Carolina Invernizzi di Lodi, divenendo nei primi anni del Novecento colonia estiva dell’Istituto d’Educazione Femminile di Lodi diretto dalle Dame Inglesi. Acquisita ufficialmente la proprietà nel 1927, l’Istituto della Beata Vergine delle Dame Inglesi rivendette l’immobile a Enrico Gandossi nel 1935. Quest’ultimo lo cedette a sua volta nel 1941 all’ingegnere Carlo Ricci. Nel 1975 la vedova alienò infine la villa e il parco al Comune di Brembate, mantenendo però l’usufrutto della casa e di una parte del giardino. Alla morte della signora Giulia Colnaghi Ricci, nel 1996, il Comune di Brembate acquisì la piena proprietà dell’immobile, avviando un meticoloso progetto di conservazione e di riuso. Cfr. Carlessi, Oberti, op. cit. 2004, pp. 107-110.
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Opere a cura di Niccolò D’Agati
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Ritratto di Gina Caccia (La collana verde), 1862 olio su tela, 64 × 52 cm firmato e datato dedica in basso a destra: “All’amico V.re Tasca Piccio 1862” Collezione privata, courtesy Gallerie Maspes, Milano
“La Caccia è ritratta quale si offerse al pittore, affacciata alla soglia della villa di Vittore Tasca per vedere chi fosse entrato dal cancello del giardino. Era il Piccio; che subito, allungando il braccio, esclamò: – così! così! – E così la ritrasse”.1 La nota di Caversazzi – come sottolinea Rossi2 – sembra essere un tentativo ex post di fornire una spiegazione plausibile – in accordo con le esasperazioni aneddotiche sul temperamento caratteriale di Piccio – alla spontaneità e all’inedito taglio compositivo del dipinto che rappresenta un unicum nell’intero corpus della produzione dell’artista. Il carattere così istintivo del gesto della donna nel ripararsi gli occhi dal sole e l’apparente spontaneità della composizione trovano in effetti un contraltare nelle note di Giacomo Trecourt in merito ai processi e all’attento studio del vero della pittura del nostro: “principalmente poi esercitava il suo ingegno nello studio della natura, fonte inesausta di ogni bellezza […] ed ove che si trovasse, quando qualche graziosa posa, o bel carattere di testa, o vago paesaggio, o un bizzarro effetto di luce colpisce, lestamente dato di piglio al suo libro, in presti e maestrevoli tratti sel ritraeva: onde quella miriade di testine, di graziose figurette, e di belle vedute, che gli ammiratori del suo genio sono cupidi di raccogliere”3. L’impostazione del dipinto si distacca in maniera notevole dalla tradizionale linea ritrattistica di Piccio che, come sottolineato da Rossi4, è sempre caratterizzata dalla diretta comprensione e capacità dell’artista di restituire “l’immagine figurativa di un modo di vivere e di sentire che si impone, coi suoi meriti e le sue regole e i suoi convinti pregiudizi, come l’espressione della classe effettivamente dominante
dell’800 italiano”, ossia il mondo borghese che, soprattutto dagli anni quaranta, definisce l’ambito principale del collezionismo e del mecenatismo picciano. Sotto questo profilo il Ritratto di Gina Caccia, non a caso altrimenti noto come La collana verde, si inserisce all’interno di un filone che, se nasce o trae origine da un impulso ritrattistico nel dialogo al vero col modello, si definisce come al di fuori di questo standard, come è per la celebre Lavandaia, l’intensissima Giovane donna dai capelli sciolti5 o la variazione sui tipi delle contadine. Del resto il dipinto porta una dedica di Piccio “All’amico V.re Tasca” che suggerisce come sin dall’origine l’opera non venisse concepita come un vero e proprio ritratto, ma come una composizione eccentrica e autonoma sviluppata attorno al motivo del gesto spontaneo del solecchio della giovane donna. Il fulcro narrativo dell’opera ruota tutto attorno alla resa di un effetto luministico essenzialmente affidata a una esaltazione del colore come mezzo costruttivo della forma. Con una pennellata fluida e frantumata Piccio coglie l’apparenza luminosa della figura immersa in una luce che ne sfiocca i contorni, come si apprezza nel trattamento dell’abito che può ricordare la mobilità dell’estrema pittura tizianesca, e che restituisce la vibrazione atmosferica attorno alla figura. Non vi sono ombre nette, tutto è giocato su un tenuissimo accordo tonale in cui i rialzi luministici e gli affondi chiaroscurali non individuano la presenza o la mancanza di luce, ma una variazione della sua intensità e, di conseguenza, del valore del colore. Lo si nota, perfettamente, nel gioco dell’ombra proiettata sul viso della donna: un’ombra intrisa di luce e colorata che restituisce appieno, e in maniera del tutto intuitiva, un preciso fenomeno ottico. Risiede in questa padronanza del colore e nella maestria nel gestire gli accordi dei toni e dei valori luminosi quella qualifica di colorista che Carvesazzi riconosceva come propria di Piccio, il quale “intese per solito la tavolozza non già come un contrasto artificioso di colori complementari che si esaltano l’un l’altro, ma, più finemente, come un avvicinamento ricco e naturale di toni simili e un persistere
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delle qualità dei toni locali attraverso i lumi le ombre e le mezze tinte”6. Un persistere che trova la sua manifestazione più alta proprio nella collana verde – la cui centralità cromatica ha infine dettato la variante di titolazione in La collana verde – del tutto basata su una sottile variazione coloristica in cui gli estremi di luce e ombra non generano un cambio o una perdita di intensità del tono, ma una sua esaltazione, sicché agli squilli delle iridescenze fanno da controcanto gli affondi delle ombre che rimangono verdi. L’identità della modella, che a partire dal 1910 Carvesazzi individua nella “Signorina Gina Caccia, di Bergamo”, potrebbe essere sciolta in quella di Luigia Caccia, figlia di Giulio Caccia e della contessa Marianna Lupi. Si trattava di un ramo della famiglia imparentato con i Tasca, giacché la nonna di Luigia, Camilla, era una zia di Vittore Tasca7. Se i contatti diretti del colonnello con il pittore risalivano al 1849, come documenta la lettera a Gabriele Camozzi8, negli anni cinquanta e sessanta Piccio dedica diversi ritratti ai personaggi della famiglia. Oltre a quelli di Vittore, del fratello Benedetto (Mangili 2014, I/221) e quelli, non ancora identificati, degli altri membri della famiglia (Mangili 2014, I/215-216), rientrano nell’ambito dei rapporti ruotanti attorno alle dimore di Brembate Sotto quelli dei membri delle famiglie Caccia e Moretti imparentate con i Tasca. Il Ritratto della signora Caccia Lupi (Mangili 2014, I/161), datato 1854, identificabile in quello della madre di Luigia Caccia, il Ritratto di Andrea Moretti (Mangili 2014, I/213) e della moglie Antonia Caccia Moretti (Mangili 2014, I/243), sorella di Gina Caccia, e quelli, ancora non rintracciati, di Giulio e Marianna (Mangili 2014, II/194-195).
C. Caversazzi, Giovanni Carnovali. Il Piccio, Istituto Italiano d’Arti Grafiche, Bergamo 1946, p. 54, tav. 98. Per l’opera in esame: C. Caversazzi, Notizia di Giovanni Carnevali, pittore, in L’arte in Bergamo e l’Accademia Carrara, Istituto Arti Grafiche, Bergamo 1897, pp. 193-240, p. 220; F. Rossi in Il Piccio e artisti bergamaschi del suo tempo, cat. mostra (Bergamo, Palazzo della Ragione, 14 settembre - 10 novembre 1974), Electa, Milano 1974, pp. 120-121; M. Piatto in P. De Vecchi, Giovanni Carnovali detto Il Piccio. Catalogo ragionato, Motta, Milano 1998, p. 226 n. 250; R. Mangili, Piccio. Tutta la pittura e un’antologia grafica, Lubrina, Bergamo 2014, I/214; I. Boschetti, Relazione tecnica di restauro del Ritratto di Gina Caccia, in Piccio oltre il suo tempo, a cura di F.L. Maspes, cat. mostra (Milano, 29 maggio - 28 giugno 2015), Milano 2015, pp. 111-115; F. Rossi, ivi, pp. 42-45. 2 Rossi 2015, p. 42. 3 G. Trecourt, in “Supplemento al Giornale Arti e Mestieri”, 25 agosto 1863. 4 F. Rossi, Giovanni Carnovali detto Il Piccio. Ritratto dal vero, in “Quaderni dell’Accademia Carrara”, n. 3, gennaio 1974, p. 2. 5 Mangili, op. cit. 2014, I/201. 6 Carvesazzi, op. cit. 1897, p. 218. 7 Per l’identificazione di Luigia Caccia si veda il contributo in questo volume di Maria Cristina Brunati, che ringrazio per la segnalazione e la condivisione dell’albero genealogico della famiglia Caccia. 8 M.C. Carlessi, G. Oberti, Vittore Tasca e la sua villa di Brembate, Silvana, Cinisello Balsamo 2004, p. 22. 1
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Ritratto di Vittore Tasca da combattente, 1863 olio su tela, 115 × 78,5 cm firmato e datato iscrizione in basso a destra: “All’amico V. Tasca uno dei Mille / Piccio f. 1863” Fondazione Bettino Craxi - ETS
Il dipinto, firmato e datato 1863, documenta il rapporto, sia umano che artistico, che legò la famiglia Tasca a Piccio. Come già rilevato da Rossi, la dinamica dei rapporti tra il pittore e i suoi mecenati, prevalentemente esponenti di un mondo borghese liberale, si inscrive all’interno di una dimensione caratterizzata da “una lunga familiarità con questo ambiente che gli diede sempre amicizia e protezione. […] egli trascorse buona parte della sua vita ospite in case amiche, tranquille e generose”. Il rapporto con i Tasca – e i Caccia – si inserisce proprio entro questi limiti di familiarità e frequentazione, come attesta una lettera di Vittore Tasca a Gabriele Camozzi, dalla sua residenza di Brembate Sotto, risalente al 1849: “Con Picio solo, che da giorni si è qui portato per fare ritratti, mi trovo più di frequente, e la sua compagnia ch’è del tutto stramba, trovo che ora mi è più omogenea”. Nato nel 1821 a Bergamo, Vittore Tasca era un esponente di una famiglia, di discendenza nobiliare, legata ai possedimenti terrieri nella zona di Brembate Sotto e alla produzione di bozzoli da seta. Compiuti gli studi in diritto, negli anni delle rivendicazioni risorgimentali Vittore Tasca prese parte attiva alle azioni contro la dominazione asburgica e nel 1848 lo ritroviamo tra i bersaglieri di Lamarmora durante la prima guerra d’Indipendenza, alla fine della quale seguì il destino di esule sino al 1849, anno dell’amnistia concessa dal governo austriaco. In questo convulso momento Tasca vive da sorvegliato politico, diviso tra la sua dimora di Brembate e Bergamo, e si accosta alla pittura da dilettante, sollecitato anche dai legami con artisti, come documentano, appunto, i primi contatti con Piccio. Gli anni cinquanta trascorrono nella gestione dell’attività familiare, resa più pressante a seguito della morte del padre,
ma, con la ripresa delle azioni patriottiche, il 5 maggio 1860 Tasca salpa da Quarto al seguito di Giuseppe Garibaldi unendosi all’impresa dei Mille. L’effige di questo condottiero sullo sfondo della guerra in Sicilia – Tasca dopo la battaglia di Calatafimi venne nominato capitano comandante dell’VIII Compagnia garibaldina – è quella che ci consegna Piccio in questo raro esempio – in generale nella sua produzione, mentre è un vero e proprio unicum per quel che riguarda la tarda attività dell’artista – di ritrattistica a figura intera. Di Vittore Tasca è noto un ulteriore ritratto di Piccio (Mangili 2014, I/210) realizzato l’anno prima, che si inserisce nel più tipico taglio a mezzobusto e che risponde all’immediatezza e all’intimismo psicologico proprio della ritrattistica picciana. Bisogna risalire agli anni quaranta, e precisamente al 1842, per ritrovare nel più compassato, tanto a livello compositivo quanto nel trattamento pittorico maggiormente fuso, Ritratto di Pietro Spini, e in maniera diversa in quello di sua sorella Anastasia, il grande formato della tela e l’impostazione con la figura ritratta in esterno sullo sfondo di un paesaggio. I vent’anni che separano i due dipinti si riflettono nel radicale mutamento di stesura del colore. La pennellata libera e sciolta, pur nella restituzione precisa della fisionomia di Vittore Tasca e della sua divisa, costruisce l’immagine dell’uomo tramite una pittura di delicati accordi e morbidi passaggi tonali che ricorre a un chiaroscuro poco contrastato in cui le ombre si stemperano nella luce che rileva la plasticità del corpo. Questo trattamento cromatico e luministico ben risponde alla descrizione che, un anno dopo, Trecourt farà del rapporto tra figura ed esterno nel caso dell’Agar affermando che Piccio supera “una delle più grandi difficoltà che l’arte presenti, quella cioè di far rilevare gli oggetti senza la risorsa delle ombre; stante che, in una scena rappresentata nel mezzo di una aperta campagna […] ombre propriamente dette, non vi possano essere, bensì il gioco di una luce prevalente sovra l’altra”. Su questa armonia si intessono, senza stridori, squilli luministici e cromatici più intensi, come il bianco del colletto o i baluginii, affidati a una pittura liquida che sembra letteralmente bagnare di luce gli oggetti, del metallo della
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baionetta o dei riflessi dorati dei bottoni che appuntano la camicia e della catena dell’orologio. Malgrado la scena sia frutto di una totale ricostruzione immaginativa forse coadiuvata da schizzi del luogo direttamente realizzati dal dilettante Tasca, la capacità di Piccio di restituire il senso di verità nel paesaggio si traduce in una totale fusione atmosferica e luminosa della figura con lo sfondo. Questo è segnato, come accade anche per l’inserto della natura morta delle insegne dell’epos garibaldino affastellate al suolo, con un ductus sfrangiato che si sfiocca e descrive in maniera compendiaria il digradare del paesaggio verso il mare, restituendo la vibrazione della luce che sfalda i contorni degli oggetti e le figure, come si apprezza nelle intense macchiette dei commilitoni individuate da una trama di filamenti luminosi che segnano le forme svaporate. Se da un lato il dipinto rievoca, per l’accumulo di dettagli narrativi, quella commistione di descrizione fedele del dato cronachistico propria della pittura dell’epopea risorgimentale con un più disteso slargo nel generismo di matrice induniana – dalla celebre effige di Garibaldi a Capua di Gerolamo del 1861 alle variazioni sulle sentinelle dello stesso – quasi ineludibile in questi anni nelle composizioni sul tema, Piccio, nel risolvere la composizione, sembra riferirsi a un modello ben preciso: il Cola di Rienzo di Federico Faruffini del 1855. L’opera, esposta a Brera nel 1855 e ampiamente riprodotta, era indubbiamente nota al pittore, che proprio in quegli anni era in contatto con il più giovane amico. Il Cola condivide con il Ritratto di
Vittore Tasca tanto il taglio compositivo, basato sul contrapposto tra la figura a sinistra e l’aprirsi a destra dell’affondo in profondità verso il basso del paesaggio, quanto quel senso di subitanea tensione – legata dai movimenti militari extrascenici e sottolineata dall’impulsivo gesto di afferrare il mantello – che si ritrova nella figura del garibaldino e che si concentra nello sguardo fisso e nell’attitudine generale della figura in un passaggio tra la quiete e la tensione così bene sintetizzata nel braccio sospeso a tenere la pipa.
F. Rossi, Giovanni Carnovali detto Il Piccio. Ritratto dal vero, in “Quaderni dell’Accademia Carrara”, n. 3, gennaio 1974, p. 2. Per l’opera in esame: G. Caversazzi, Notizia di Giovanni Carnevali, pittore, in L’arte in Bergamo e l’Accademia Carrara, Istituto Arti Grafiche, Bergamo 1897, pp. 193-240; C. Caversazzi, Giovanni Carnovali. Il Piccio, Istituto Italiano d’Arti Grafiche, Bergamo 1946, p. 120; M. Piatto in P. De Vecchi, Giovanni Carnovali detto Il Piccio. Catalogo ragionato, Motta, Milano 1998, p. 231 n. 257; R. Mangili, Piccio. Tutta la pittura e un’antologia grafica, Lubrina, Bergamo 2014, I/222. 2 M.C. Carlessi, G. Oberti, Vittore Tasca e la sua villa di Brembate, Silvana, Cinisello Balsamo 2004, p. 22. 3 G. Trecourt, in “Supplemento al Giornale Arti e Mestieri”, 25 agosto 1863. 1
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Paesaggio a Brembate Sotto, 1868-1869 olio su tela, 45 × 61 cm Piacenza, Galleria d’Arte Moderna Ricci Oddi
Il Paesaggio a Brembate Sotto rappresenta uno dei vertici della produzione paesaggistica di Piccio1. L’attenzione del pittore per le vedute e i paesaggi “puri” è documentata e verificabile in prima istanza nell’opera grafica: sono diversi gli schizzi, tanto risolti come veloci annotazioni al vero quanto come più articolate vedute di piccolo formato che con un segno a matita morbido restituiscono brani di paesaggio autonomi. Un esempio, rimanendo entro l’area di Brembate Sotto, lo offre uno schizzo, riconducibile alla fine degli anni trenta (Rossi 1974, p. 42), in cui il pittore ritrae il corso del fiume Brembo all’altezza della villa dei Tasca2. La frequentazione di Brembate Sotto era connessa al rapporto di mecenatismo che legava Piccio ai diversi esponenti di una piccola nobiltà, ormai imborghesita nell’identità sociale, che disponeva di possedimenti nell’area: i Tasca, per l’appunto, ma anche i Moretti, i Morlacchi. La storia collezionistica dell’opera, proveniente dalla collezione di Gaetano Goltara Pezzoli, uno dei più importanti mecenati e collezionisti di Piccio, riconduce il dipinto proprio all’ambito delle relazioni bergamasche, come documenta una memoria della nipote di Goltara, Bice, che scriveva al nuovo acquirente dell’opera, Giuseppe Ricci Oddi, nel 1919: “detto artista, vissuto molti anni in casa nostra, era considerato come uno della famiglia e di lui nessun documento è stato rimandato se non la preziosa presenza di molti suoi lavori”3. La tela, in effetti, non era l’unico paesaggio di proprietà dei Goltara: assieme alla veduta di Brembate vi era il pendant del Mattino sulle Prealpi nonché il più visionario Ritrovamento di Mosè in cui l’episodio biblico dava il destro a una libera ricreazione, onirica e venata di orientalismo, del dato naturalistico. Rispetto alla fuga ideale di quest’ultimo lavoro, Paesaggio a Brembate Sotto è un significativo documento della capacità di Piccio di restituire in maniera estremamente veridica il dato naturale di partenza non già e non solo nella sua componente geografica – si tratta di un brano della valle del Brembo verso sud e la confluenza con l’Adda –, ma nelle sue qualità più schiettamente cromatiche e atmosferiche. La tela è percorsa da una pennellata fluida, corsiva, che deposita un colore ora più liquido e che si fa profondo grazie alle sovrapposizioni delle velature, ora più corposo come accade nei rialzi luministici delle bagnature di luce, umide, che definiscono i profili, transitori nella loro smaterializzazione luminosa, dei borghi e i riflessi degli arbusti. L’estrema modernità della pittura di Piccio traspare nella resa delle macchiette che popolano il primo piano: rapide pennellate di colori accesi – il blu, il rosso – che abbozzano inafferrabili forme che vivono e acquistano una loro presenza grazie ai minuti rialzi di luce che costruiscono il volume e che soltanto nella ricomposizione di una visione
generale della tela giungono a piena leggibilità in quanto forme-colore. Con un taglio decisamente scenografico nella concezione della veduta, la tela è costruita sulla base di una fuga diagonale in profondità che, più che al digradare dimensionale degli elementi paesaggistici, è affidata integralmente al gioco della luce: mentre il primo piano a destra è dominato dalla quinta arborea in penombra, sempre luminosa e colorata come accade in Piccio, le anse del fiume, sottolineate dalle iridescenze dell’acqua e tracciate con una pennellata che matericamente ne restituisce il fluire, guidano l’occhio, seguendo una traiettoria diagonale, sulla sinistra verso la fuga in profondità attraverso i mezzi toni della fascia mediana e le tinte illimpidite e intrise di luce in un crescendo che s’avvia con gli alberi dalle chiome ingemmate di riflessi dorati per proseguire nel fondo sino alla totale dispersione negli svaporamenti rosati del profilo del paesaggio con il cielo. L’adesione al dato naturale non significa pertanto riproduzione precisa dell’elemento paesaggistico, ma traduzione immediata, in termini pittorici, della visione e, di conseguenza, di ciò che in termini strutturali la costituisce: la luce e il colore. La pennellata sfioccata ricrea in maniera totalmente sintetica l’effetto ottico della profondità atmosferica, dell’aria umida della valle, e mangia i contorni e fonde ogni elemento con l’altro. Il risultato è quello di una interpretazione del paesaggio che sfocia in una sua reinvenzione lirica, in cui l’elemento dell’evocatività – del colore, della luce, dell’atmosfera – prevale su quello descrittivo nell’individuazione di un genius loci emozionale. La tela, correntemente rimandata all’epoca dei lavori per Vittore Tasca, attorno al 1862-18634 (Rossi 1974, p. 115; Piatto 1998, p. 228), è stata recentemente riassegnata da Mangili ai tardi anni sessanta in linea con la libertà della stesura pittorica.
Per l’opera in esame: F. Rossi in Il Piccio e artisti bergamaschi del suo tempo, cat. mostra (Bergamo, Palazzo della Ragione, 14 settembre - 10 novembre 1974), Electa, Milano 1974, p. 115; M. Piatto in P. De Vecchi, Giovanni Carnovali detto Il Piccio. Catalogo ragionato, Motta, Milano 1998, pp. 228-229; R. Mangili, Piccio. Tutta la pittura e un’antologia grafica, Lubrina, Bergamo 2014, I/280. 2 Rossi, op. cit. 1974, p. 42. 3 Piatto, op. cit. 1998, p. 228. 4 Rossi, op. cit. 1974, p. 115; Piatto, op. cit. 1998, p. 228. 1
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Biografia
Giovanni Carnovali nasce a Montegrino Valtravaglia il 29 settembre 1804. All’età di undici anni, nel 1815, Piccio viene ammesso alla Scuola di Pittura dell’Accademia Carrara e qui avrà come maestro il pittore Giuseppe Diotti. Il giovanissimo artista frequenta i corsi regolari sino al 1820: in questo periodo emerge come uno dei più brillanti allievi della scuola, come attestano i premi accademici ricevuti nel 1818 e nel 1820. La formazione del pittore avviene da un lato seguendo il classico modello di insegnamento accademico, ma dall’altro egli si apre a suggestioni, in parte mediate dalle stesse inclinazioni personali del maestro le quali, partendo da elementi già insiti nei modelli appianeschi, recuperano un ampio ventaglio di linee espressive che spaziano dall’asse classicista che muove da Raffaello al pieno della maniera tra Correggio, Parmigianino e Luini sino al classicismo seicentesco, alle aperture al vero della pittura bergamasca di Giovan Battista Moroni passando per le sperimentazioni lottesche e tizianesche. Malgrado l’anticipato abbandono degli studi in Accademia, le doti del giovane pittore, già rilevate da Diotti stesso, non tardano a guadagnare a Piccio l’attenzione del circuito degli amatori bergamaschi. Risalgono agli anni venti le prime commissioni private, come il perduto ciclo di affreschi nel palazzo dei conti Spini – tra i primi sostenitori del pittore – e la decorazione parietale in casa Zanchi, nonché la prima commessa pubblica, mediata probabilmente da Diotti, con la pala dell’Educazione della Vergine per la parrocchiale di Almenno San Bartolomeo. Parallelamente all’affermazione a Bergamo, sul finire del decennio Piccio inizia a lavorare in territorio cremasco e, tramite il sostegno delle sorelle Malossi – per le quali realizza un ciclo di decorazioni a tempera nella casa di famiglia –, compie un primo viaggio a Roma attorno al 1831. Quello dei viaggi di Piccio, tema spesso estremizzato nell’aneddotica riguardante le sue abilità da camminatore, è un importante tassello nella definizione della sua cultura
figurativa. Se documentati e ricostruibili tramite le annotazioni sui disegni sono gli spostamenti nel Centro Italia – da Roma, visitata più volte lungo gli anni quaranta e cinquanta, a Napoli e Gaeta – rimane ancora insoluto il problema dei tempi, dei modi e degli esiti del suo viaggio parigino che sembrerebbe potersi collocare nella seconda metà degli anni quaranta. Parallelamente agli spostamenti, il terzo e il quarto decennio del secolo segnano, oltre che l’avvio di una – sia pure diradata e limitata negli anni – partecipazione alle rassegne espositive locali della Carrara, l’esordio a Milano con la partecipazione all’Esposizione braidense del 1838. L’affermazione di Piccio è, in questi anni, sostanzialmente legata alla sua attività di ritrattista – in buona parte abbandonata tra gli anni quaranta e cinquanta – che gli guadagna una fama che si riflette in alcune importanti commesse pubbliche bergamasche, come l’allogazione nel 1847 della Madonna del Rosario per la parrocchiale di Adrara San Martino e, nel 1840, della Pala di Agar nel deserto per la parrocchiale di Alzano. Se, dal punto di vista del sostegno del collezionismo privato, l’opera di Piccio trova a metà secolo e per tutti gli anni sessanta un ampio riscontro nell’ambiente della borghesia liberale lombarda, come attestano i contatti saldi e costanti e i legami di patronage con importanti famiglie del territorio quali i Farina, i Caccia, i Moretti, i Goltara o i Tasca, la fortuna della sua produzione di piccolo e medio formato – nei bozzetti a tema storico-letterario, nelle sofisticate immagini devozionali, nella rara ma significativa produzione paesaggistica e nella ritrattistica, caratterizzata da una pittura che punta a una inedita libertà di tocco e dall’abbandono sempre più insistito del “finito” accademico – non trova un riscontro altrettanto soddisfacente nelle opere di ampio formato, come ben documenta la complessa vicenda dell’Agar. L’artista muore, annegato nel Po a Cremona, il 5 luglio 1873.
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Autori
Maria Cristina Brunati, laureata in Storia presso l’Università degli Studi di Milano, ha conseguito il diploma in Archivistica, paleografia e diplomatica presso l’Archivio di Stato di Milano. Si occupa di riordino, inventariazione e valorizzazione di archivi storici. I suoi ambiti di studio riguardano principalmente la ricostruzione di profili biografici e di storie familiari, di temi di storia sociale e dell’assistenza milanese tra Otto e Novecento. Autrice di articoli pubblicati in riviste, libri e cataloghi di mostre, ha inoltre curato il volume Ritratto di una contessa. Lydia Caprara Morando Attendolo Bolognini, Roma 2020.
Niccolò D’Agati, storico dell’arte, ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia dell’arte presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia con una tesi dedicata alla storia della Famiglia Artistica di Milano. Nei suoi studi si è occupato principalmente della storia della pittura e della scultura del secondo Ottocento lombardo, con particolare attenzione agli sviluppi del divisionismo e ai contesti espositivi. Inoltre ha dedicato studi specifici alla stagione futurista, specialmente a Umberto Boccioni e Carlo Carrà.
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