Rembrandt

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Rembrandt Bergamo, Accademia Carrara 9 luglio – 17 ottobre 2021

Comune di Bergamo

Una produzione

LOGO Sindaco Giorgio Gori Assessore alla Cultura Nadia Ghisalberti Dirigente cultura, BGBS23, reti di quartiere, sport ed eventi Massimo Chizzolini

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Amministrazione Laura Luzzana Organizzazione e sviluppo museale Giulia Barcella Comunicazione, marketing e sviluppo museale Paola Azzola La Carrara Educazione Lucia Cecio, responsabile Anna Maria Spreafico Facility management Simone Longaretti Ufficio stampa Adicorbetta, Milano


Mostra a cura di Paolo Plebani Maria Cristina Rodeschini Catalogo a cura di Paolo Plebani Testi di Taco Dibbits, Marco Mascolo, Paolo Plebani, Maria Cristina Rodeschini, Giulia Salvi

Responsabile di produzione Gianpietro Bonaldi Organizzazione Giulia Barcella Amministrazione Laura Luzzana Prestiti Deborah Bonandrini Educazione Lucia Cecio, responsabile Anna Maria Spreafico Comunicazione Paola Azzola Coordinamento tecnico Simone Longaretti Restauri Leone Algisi Donatella Borsotti Ufficio stampa Adicorbetta, Milano Social media partner LO Studio, Bergamo Progetto “Stage in Carrara” Luca Brignoli Federica Pennisi Giulia Salvi

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Prestatore Rijksmuseum, Amsterdam Si ringraziano il direttore e i conservatori del Rijksmusem di Amsterdam che hanno reso possibile il progetto e inoltre Andrea Capriolo Martina Colombi Ruggero Jucker Si ringraziano anche Associazione Guide Giacomo Carrara e Associazione Amici dell’Accademia Carrara

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L’amore per i libri è sacro come quello per Rembrandt, anzi penso che si completino a vicenda. Vincent van Gogh, giugno 1880 Un solo dipinto, ma tanto penetrante da sbalordire per la sua intensità. Lo sguardo che si soffermi sull’Autoritratto giovanile di Rembrandt del Rijksmuseum di Amsterdam non potrà che rimanere ammaliato da un’immagine tanto seducente. Presentarla a Bergamo, si iscrive in un percorso che l’Accademia Carrara ha intrapreso per richiamare interesse sui protagonisti della pittura europea. Iniziava con Antoon van Dyck nel 2017 e prosegue ora con Rembrandt. A differenza dei suoi primi maestri l’artista non frequentò l’Italia, ma conobbe l’arte di questo paese grazie ad altissimi esempi custoditi ad Amsterdam e alle numerosissime stampe di cui disponeva la sua vasta collezione. Non bisogna dimenticare poi che le incisioni di Rembrandt, territorio espressivo nel quale rimane insuperato maestro, ispirarono gli artisti italiani. Apprezzato da un collezionismo informato ed esigente, era molto considerato negli ambienti italiani. Conosciamo il lusinghiero parere di Guercino che, in una lettera del 1660 al nobile messinese Antonio Ruffo, collezionista di incisioni e dipinti di Rembrandt, manifestava per l’olandese un’incondizionata stima. Non di meno l’enciclopedico sapere di Filippo Baldinucci riconosceva all’artista, a pochi anni dalla sua scomparsa, “un chiaroscuro profondo e di gran forza”. Nella patria della natura morta e del ritratto, generi che nella società olandese del Seicento si affermarono come specializzazioni di grande successo, Rembrandt si distinse per avere spaziato in tutti i campi della rappresentazione artistica e con tale autorevolezza da impedire di essere confinato in un solo recinto tematico. Un’inventiva geniale, guidata da un’incontenibile libertà espressiva e da una ricerca appassionata e personale, lo accompagnò nella profonda esplorazione di esperienze sempre diverse. Rembrandt scrutò la propria immagine per tutta la vita. L’autoritratto divenne il luogo poetico e tecnico nel quale fissare


caratteri linguistici e umani nel loro mutare. È stato giustamente sottolineato, data l’ampiezza del repertorio ricco di più di ottanta esemplari tra grafica e pittura, che la serie degli autoritratti, seguendo il corso di tutta la sua vita, dalla giovinezza alla vecchiaia, traccia una fedele biografia per immagini. Guardarsi allo specchio, pratica necessaria alla loro realizzazione, significava ogni volta soffermarsi sulle trasformazioni del proprio volto, ma ancor più misurarsi con l’intimità del proprio stato d’animo. A soli 19 anni nel 1625 Rembrandt iniziava un’attività indipendente aprendo uno studio a Leida e le sue doti apparvero subito evidenti. Data solo tre anni dopo il sorprendente Autoritratto che possiamo ammirare. Ancor prima di trasferirsi ad Amsterdam, dove avrebbe vissuto un periodo di stellare successo, l’artista disponeva di una personalità già ben formata e dava prova di un’eccezionale precocità. Assistito da un’abilità tecnica prodigiosa che si tradusse in una pittura materica e vibrante, i suoi interessi si concentrarono sulla resa chiaroscurale, sul rapporto luce-ombra, sugli effetti luministici, nelle cui innumerevoli varianti prese forma la sua identità pittorica. L’idea di dare un contesto all’Autoritratto attraverso una scelta di dipinti, incisioni e disegni dalle collezioni dell’Accademia Carrara, si è mossa tra artisti olandesi molto vicini a Rembrandt, per essere stati suoi amici, collaboratori, allievi e personalità italiane tanto sensibili al suo stile da propagarne la fortuna, come accadde a Giovanni Benedetto Castiglione. Seppur rara, come del resto nei musei italiani, la pittura straniera è ben rappresentata in Carrara ed a questo aspetto si è pensato di dare evidenza. La superba qualità e il clima pervaso di mistero del piccolo Autoritratto, in cui cogliere l’assoluto dominio della luce, primizia della maturità di Rembrandt, sono parsi il modo migliore per accendere l’interesse su questo maestro dell’arte europea. Maria Cristina Rodeschini Direttore Accademia Carrara di Bergamo

Taco Dibbits Direttore Rijksmuseum di Amsterdam


In copertina ?? Design Marcello Francone Coordinamento redazionale Emma Cavazzini Redazione Giovanna Rocchi Impaginazione Evelina Laviano Credits © PublicDomain: figg. 1-6, 8-10, 12, © The National Gallery, London: fig. 11

© 2021 ??????? © 2021 Skira editore, Milano Tutti i diritti riservati ISBN: 978-88-572-4457-0 Finito di stampare nel mese di maggio 2021 da Rotomail Italia Spa per conto di Skira editore, Milano Printed in Italy www.skira.net


Sommario

13

Lo specchio di Rembrandt. L’artista e i suoi autoritratti, entro il 1645 circa Marco M. Mascolo

Opere 32

Intorno a Rembrandt, in Accademia Carrara Paolo Plebani

58

Bibliografia


12 / Lo specchio di Rembrandt


Lo specchio di Rembrandt. L’artista e i suoi autoritratti, entro il 1645 circa

Marco M. Mascolo

La piccola tavola al centro di quest’esposizione è uno dei primi autoritratti autonomi di Rembrandt Harmenszoon van Rijn (16061669), un dipinto in cui l’artista presenta il proprio volto al di fuori di un più ampio contesto narrativo (fig. 1)1. Siamo intorno al 1628, quando Rembrandt ha 22 anni e ha già alle spalle una solida formazione: prima nella bottega di Isaac van Swanenburg a Leida – per tre anni (1622-1625 circa) – poi ad Amsterdam nello studio di Pieter Lastman, il più importante pittore di storia del momento. Tornato a Leida all’inizio del 1626, Rembrandt è pronto ad avviare la propria bottega 2, e proprio in questi anni presta le sue fattezze ad alcuni dei personaggi che affollano i primi dipinti di storia: il Martirio di santo Stefano di Lione o la cosiddetta Scena di soggetto storico di Leida3. In entrambi un giovane riccioluto si scorge nel secondo piano: un uso tipico del ritratto “testimoniale”, in cui l’artista si include nella storia come fosse, per l’appunto, un testimone degli eventi narrati e, al contempo, rivolge il proprio sguardo direttamente all’osservatore4. Un escamotage che Rembrandt utilizzerà ancora negli anni trenta, quando si raffigurerà nella Deposizione di Cristo dalla Croce del 1632-1633 (e forse anche nel dipinto germano dell’Innalzamento della Croce del 1633) oggi conservato all’Alte Pinakothek di Monaco di Baviera5. Questi, però, sono già i primi frutti di una fase nuova, segnata dalla piena consapevolezza dei propri mezzi. Sarebbero seguiti altri (numerosi) autoritratti, il cui punto di avvio si può scorgere tutto nella piccola tavola del Rijksmuseum. In queste pagine, dunque, seguiremo un percorso attraverso i ritratti che Rembrandt realizzò di se stesso, provando a ricollocarli sul più ampio sfondo della produzione del pittore dai suoi anni giovanili a Leida sino, grosso modo, al 1640-1645. Nel 1642 cade l’esecuzione del suo capolavoro, la cosiddetta Ronda di Notte 6: opera di immane impegno, essa segnò anche l’avvio di una “crisi creativa” che si protrasse per quasi tutto il decennio e che impresse un orientamento diverso a tutta la produzione dell’artista. Sarebbe tornato a posare di fronte allo specchio solo nel 1652, ma su presupposti ormai quasi del tutto mutati. 13


1. Rembrandt, Autoritratto giovanile, 1628 circa, Amsterdam, Rijksmuseum, inv. SK-A-4691

1. Tracce per un inizio Innanzi tutto, una considerazione quantitativa: nell’arco della propria carriera – dunque dal 1626 al 1669 – Rembrandt ha realizzato un numero enorme di autoritratti, suddivisibili in circa 50 dipinti, 30 incisioni e circa 8 disegni7. Quali sono, dunque, le modalità con cui il pittore si relazionò a questo genere pittorico? E perché così tanti autoritratti? Qual era la loro funzione e a chi erano destinati? A lungo interpretati come una precoce – e quasi inequivocabile – dichiarazione di poetica circa il “sé” del pittore8, solo in tempi recenti sono state avanzate proposte differenti riguardo la genesi e la destinazione degli autoritratti dipinti (e incisi) dall’artista9. Una delle fonti centrali per comprendere in che modo Rembrandt poteva intendere queste opere è Het Schilder-boeck (Il libro della pittura) che Karel van Mander pubblicò ad Haarlem nel 1604 e che, con la seconda edizione del 1618, ebbe grandissima diffusione10. Diviso in sei libri, offrì per la prima volta una sistematizzazione di teorie, concetti e lessico che sino ad allora s’erano diffusi sia nelle botteghe degli artisti che nei circoli dei liefhebbers, cioè degli amatori11. Che tra questi circolasse lo dimostrano alcune annotazioni dallo Schilder-boeck che si ritrovano tra le Res pictoriæ (1620 circa) dell’amatore ed erudito Arnoldus Buchelius (alias Aernout van Buchel)12. La prima sezione del trattato, Den Grondt der Edel Vry Schilder-const (Il fondamento della nobile e liberale arte della pittura), è un poema suddiviso in 14 capitoli in ottave in cui l’autore presenta agli aspiranti pittori i principi e le regole basilari per padroneggiare ogni aspetto dell’arte della pittura13. Il sesto capitolo del poema offre alcune chiavi per avvicinarsi agli autoritratti giovanili di Rembrandt. Interamente dedicato agli “Affecten, passien, begeerlijckheden, en lijdens der Menschen” (Affetti, passioni, desideri e dolori del genere umano), in esso van Mander spiega come riuscire a visualizzare al meglio le passioni dell’animo sul volto dei personaggi da raffigurare; con le sue 73 ottave è una delle sezioni più complesse del poema. L’efficace restituzione in pittura di tutto ciò che rientra negli “affetti” coinvolge, a ben vedere, ogni altro aspetto dell’apprendimento, dalla perspicua resa dei gesti a quella dei panneggi, dalla disposizione delle figure nelle scene alla loro relazione reciproca14. Queste emozioni, scrive infatti van Mander, “non sono così perfettamente e facilmente espresse quanto sono lodate”15. Grande attenzione bisogna riservare proprio ai volti che, con le loro parti (occhi, fronte, sopracciglia, naso ecc.), hanno un ruolo così importante nel rendere convincentemente la “temperatura” emozionale di un dipinto. Un passaggio assai importante è quello in cui van Mander insiste sulla necessità di apprendere a differenziare l’espressione del pianto 14 / Lo specchio di Rembrandt


15 / Lo specchio di Rembrandt


2. Rembrandt, Autoritratto ridente, 1630, Amsterdam, Rijksmuseum, inv. RP-P-1961-1181 3. Jan Gillisz. van Vliet, Autoritratto di Rembrandt, 1634, Amsterdam, Rijksmuseum, inv. RP-P-OB-61.786

e del riso. “Non sono nel torto”, scrive, “coloro che ci [ai pittori] rimproverano di essere poco abili, nei nostri volti (in onse troengen), a mostrare la differenza tra il pianto e il riso.” Occorre studiare queste espressioni dal naturale (nae ’t leven), poiché ci si accorgerà che “ridendo, la bocca e le guance s’allargano e si tendono, e si alzano, mentre la fronte scende, e tra le due gli occhi sono schiacciati e chiusi a metà, in modo da creare piccole rughe verso le orecchie”16. Come vedremo, questo passo pare chiosare in maniera efficacissima un gruppo di autoritratti incisi realizzati al principio degli anni trenta (B. 316, fig. 2). L’importanza del trattato di van Mander difficilmente potrebbe essere sottovalutata per la formazione di Rembrandt. Sono state soprattutto le ricerche di Ernst van de Wetering a dimostrare come i principi che van Mander espone nel Grondt offrano un utile perimetro interpretativo per cogliere al meglio alcuni degli assunti che soggiacciono alle opere dell’artista17. E ciò è tanto più evidente proprio nel caso degli autoritratti. 2. Volti (allo specchio e non) Nonostante l’Autoritratto di Rembrandt oggi al Rijksmuseum sia riemerso sul mercato solo nel 1959, non era tuttavia del tutto sconosciuto: a tramandarne l’aspetto attraverso i secoli erano stati infatti un dipinto e un’incisione. Nel primo caso si tratta di una copia antica, eseguita a partire dall’autoritratto di cui ci stiamo occupando e a lungo considerata originale18. Dell’incisione, invece, conosciamo l’autore: si tratta di Jan Gillisz. van Vliet, che la firmò nel 1634 (fig. 3)19. Van Vliet aveva 16 / Lo specchio di Rembrandt


4. Rembrandt, Studio allo specchio, 1628-1629 circa, Amsterdam, Rijksmuseum, inv. RP-T-1961-75 5. Rembrandt, Autoritratto, 1629, Amsterdam, Rijksmuseum, inv. RP-POB-723

iniziato a realizzare incisioni a partire da opere di Rembrandt almeno dal 163120, per poi proseguire sino al 1634. Entrambi attivi a Leida nella seconda metà degli anni venti, dovettero presto entrare in contatto tanto che, a lungo, si è ipotizzato un vero e proprio sodalizio artistico tra i due21. Ma è probabile che le cose siano andate diversamente, come argomentato di recente sulla base di una nuova analisi di ciò che effettivamente conosciamo su quest’ipotetico legame22. Una singolare compagnia quella rappresentata dalle incisioni di van Vliet del 1634, poiché, oltre al già ricordato Autoritratto, fanno corpo con la serie anche un volto – quello di Giuda dolente – “estratto” dal capolavoro degli anni giovanili di Rembrandt, cioè Giuda che restituisce i trenta denari23, cui s’aggiungono quattro tronies, cioè “teste” che non rappresentano un soggetto reale, identificabile, ma sono “di fantasia” – in esse non conta la fedeltà fisiognomica tipica del ritratto (conterfeytsel), ma l’allure che il dipinto evoca, sia esso una “testa all’orientale”, “di vecchia” ecc.24 L’inserimento dell’incisione che traduce l’Autoritratto del 1628 nella serie elaborata da van Vliet deve far riflettere sul perché il volto di Rembrandt si trovi in una serie di acqueforti di tronies. Che Rembrandt avesse iniziato molto presto a riprodurre le proprie fattezze riflesse allo specchio stanno a testimoniarlo anche alcune incisioni e almeno due disegni, la cui cronologia è di poco più avanzata rispetto al 1628 dell’Autoritratto del Rijksmuseum25. Il disegno di Amsterdam (Ben. 54, fig. 4) pare essere uno studio del volto in relazione al busto: tanto quest’ultimo è accennato con veloci acquerellature e ritocchi più scuri a rendere i volumi – stessa funzione assolve il tratteggio scuro

17 / Lo specchio di Rembrandt


a destra – così il volto è realizzato con tratti più precisi, a penna e inchiostro marrone. E, come nelle incisioni, anche i fogli di Amsterdam e Londra presentano un’incorniciatura disegnata. Affiancati all’Autoritratto (fig. 1) del 1628 rivelano – al di là dell’effigiato – comuni caratteristiche, come la resa abbreviata e a tratti sommaria di alcuni dettagli del busto, l’attenzione per gli effetti luministico-spaziali della capigliatura, la cura per rendere convincentemente la relazione testa-busto. È come se queste prime opere indicassero altrettante tappe di un percorso. Ma quale? Da tempo gli studi hanno sottolineato la prossimità tra il disegno di Amsterdam e l’acquaforte del 1629, l’Autoritratto a capo scoperto (B. 338, fig. 5), cioè il primo vero e proprio ritratto inciso che Rembrandt eseguì di se stesso26. Poco prima (1628 circa) aveva realizzato due piccoli “esperimenti” ad acquaforte: incisioni poco più grandi di un odierno francobollo27, conservate in tirature limitatissime, come nel caso dell’Autoritratto con i capelli spettinati (B 27), noto in soli tre esemplari 28. Rispetto a questi esempi, l’Autoritratto a capo scoperto segnò l’inizio di una nuova ricerca. Il disegno di Amsterdam (fig. 4) però, come ormai appare chiaro, non costituisce un vero e proprio “studio preparatorio” per la lastra, quanto piuttosto una sorta di variazione sul tema che aiutò l’artista ad approdare alla soluzione poi fissata sul rame. Il più grande tra gli autoritratti giovanili (174 × 155 mm), l’acquaforte del 1629, ha il carattere di un vero e proprio esperimento. In un momento in cui Rembrandt non padroneggiava ancora del tutto la tecnica, complessa e laboriosa, dell’incisione, la realizzazione di una lastra di tale impegno gli pose svariati problemi. Infatti, numerosi difetti coinvolsero la tiratura fissandosi poi sui fogli, primi fra tutti il monogramma (RHL) e la data in controparte. Le doppie linee sul busto, ad esempio, eseguite probabilmente con uno strumento a doppia punta per conferire maggior presenza al segno e creare uno schema chiaroscurale mosso, non assorbirono al meglio l’inchiostro, così da essere ripassate a mano: entrambi gli esemplari noti dell’incisione (cioè gli unici) presentano questa caratteristica 29. Lo sfondo, poi, oltre a sporcature e aloni presenta anche tracce di una precedente composizione probabilmente non perfettamente rimossa dalla lastra30. Che quest’incisione sia nota in soli due esemplari indica che Rembrandt, probabilmente insoddisfatto del risultato, rinunciò a produrla in grande quantità. 3. Funzioni Proviamo a sostare per un momento. Abbiamo visto come, all’altezza del 1628-1629, Rembrandt stesse prestando sempre più attenzione agli autoritratti, sia dipinti che incisi. Fu un momento di grande produt18 / Lo specchio di Rembrandt


tività – basti considerare che tra 1626 e 1628 realizzò più di 15 dipinti – che gli permise di impadronirsi sempre di più, e più a fondo, delle “regole” esposte dal poema di van Mander31. Un contesto, quindi, di sperimentazione. Un dato assai interessante riguarda la serie di autoritratti incisi degli anni immediatamente successivi al dipinto del 1628 e all’incisione del 1629. È un insieme di piccole – o piccolissime – stampe che riproducono il volto di Rembrandt in diverse pose e atteggiamenti: ridente, serio, spaventato o sorpreso. Sono tutte espressioni per le quali l’artista ha ritratto il suo modello più paziente (ed economico), cioè se stesso32. L’Autoritratto con gli occhi spalancati (B. 320) del 1630 o, del medesimo anno, l’Autoritratto ridente (fig. 2) esemplificano molto bene questo gruppo di incisioni. I versi di van Mander che abbiamo ricordato paiono essere il perfetto “commentario” a queste opere. È possibile, allora, intendere anche l’Autoritratto del 1628 attraverso una simile chiave interpretativa? Osservandolo più da vicino, colpiscono la grande libertà esecutiva e, allo stesso tempo, il notevole controllo dei mezzi per raggiungere – soprattutto nella zona del volto – un alto grado di definizione dei particolari, con sottili passaggi tonali laddove la luce cede il passo all’ombra, come ad esempio sulla guancia. Non è casuale che proprio nello stesso momento Rembrandt stesse realizzando il suo capolavoro giovanile, il già ricordato Giuda che restituisce i trenta denari. Firmata e datata 1629, la tavola ha subito una lunga serie di rielaborazioni che ne hanno ridefinito l’aspetto, e che è stato possibile ricostruire anche grazie a quattro disegni che attestano proprio questo lavorio33. Notissimo anche grazie alla testimonianza di Constantijn Huygens, che ne stese un elogio nella propria giovanile autobiografia34, il dipinto costituisce una summa di tutti i motivi dell’attività dei primi anni del pittore: dalla convincente resa delle passioni alla corretta relazione tra i personaggi, dalla loro accorta disposizione spaziale alla regia luministica. Fu pensando ai molti passaggi luministici e chiaroscurali di quest’opera grande e complessa che Rembrandt probabilmente realizzò l’Autoritratto del 1628. Il suo carattere di “studio” si coglie anche dalla già ricordata diversità di trattamento della pittura, lasciata a un grado di finitezza approssimativo in alcuni punti. L’intento, insomma, doveva essere quello di cogliere al meglio l’effetto del digradare della luce e dell’ombra sui volti dei sacerdoti che, nel quadro del 1629, stanno schierati sulla sinistra. Per ottenere questo effetto egli lo studiò sul proprio volto, giungendo a una soluzione che dovette essere soddisfacente se, nello stesso 1629, Rembrandt la replicò in un’opera di dimensioni ancor più piccole ma di medesimo impatto: l’Autoritratto dell’Alte Pinakothek di Monaco. Un’opera che doveva rivestire pienamente il carattere di autoritratto, dati anche la firma e la data35. 19 / Lo specchio di Rembrandt


4. Modelli illustri L’Autoritratto col cappello floscio (B. 7, fig. 6) occupa un posto centrale nel percorso giovanile del pittore. Non solo perché fu realizzato nel 1631, anno di snodo tra l’attività di Rembrandt a Leida e il definitivo trasferimento ad Amsterdam, ma anche perché permette di leggere un generale cambiamento rispetto ai propri autoritratti36. Al massimo grado è possibile cogliere qui il processo di “prova ed errore” attraverso cui l’artista giungeva alle opere finite: a partire dal volto, messo a punto nei primi sei stati, passò poi a studiare il busto con la sua cappa di broccato37. Una volta messa a punto l’immagine, Rembrandt ne eseguì molte tirature e addirittura, attorno al 1633, intervenne nuovamente su due fogli: al volto inciso aggiunse a matita nera il busto, in una posa diversa in ciascun foglio, a studiarne l’orientamento38. Questi due disegni sono la testimonianza migliore del fatto che, non appena trasferitosi ad Amsterdam, Rembrandt stesse cercando in ogni modo di promuovere la propria immagine. Il ritorno sull’incisione del 1631 non fu frutto del caso, ma andò di pari passo con l’elaborazione dell’Autoritratto in abiti borghesi della Burrell Collection, datato 6. Rembrandt, Autoritratto col cappello floscio, 1631, Amsterdam, Rijksmuseum, inv. RP-P-OB-12

20 / Lo specchio di Rembrandt


7. Rembrandt, Autoritratto in abiti borghesi, 1632, Glasgow, The Burrell Collection, inv. 35.600 8. Paulus Pontius, Ritratto di Peter Paul Rubens (dall’Autoritratto di Rubens oggi a Windsor, The Royal Collection), 1630, Amsterdam, Rijksmuseum, inv. RP-P-OB-4595

1632 (fig. 7). È uno dei pochissimi autoritratti dell’artista (di certo il più “finito”) in cui egli si presenti vestito in abiti contemporanei, borghesi appunto39. Arrivato ad Amsterdam sotto l’ala dell’entrepreneur Hendrick van Uylenburgh, Rembrandt aveva bisogno di presentarsi come l’artista migliore cui ricorrere se si volesse un ritratto. Quale migliore soluzione, dunque, se non offrire la propria effigie a testimonianza delle proprie capacità40? Jan Orlers, il borgomastro di Leida che stese la prima biografia del pittore nel 1641, ricorda l’enorme successo che gli arrise in città, tanto che uno dei motivi che lo convinsero a trasferirsi fu la mole delle commissioni41. L’incisione e il dipinto hanno un modello ben preciso e riconoscibile: Rubens. Attraverso le proprie opere Rembrandt scelse di ingaggiare una vera e propria æmulatio – cioè un’“imitazione competitiva”, che offre anche un omaggio al modello imitato – nei confronti del pittore di Anversa. Un’incisione di Paulus Pontius (1630, fig. 8) che traduceva l’Autoritratto di Rubens oggi a Londra (1623) agì sicuramente da innesco per le idee di Rembrandt sulla propria incisione42. La scelta di misurarsi con il più famoso artista del proprio tempo racconta la volontà di Rembrandt di affermarsi quale “equivalente” dell’artista fiammingo. Per valutare quanto questa strategia si sarebbe rivelata adatta, converrà osservare che cosa accadde alla fine del decennio. Nel 1639 e nel 1640 si collocano infatti due vertici tra gli autoritratti dell’artista: rispettivamente l’Autoritratto al davanzale di pietra (B. 21, fig. 9) e 21 / Lo specchio di Rembrandt


9. Rembrandt, Autoritratto al davanzale di pietra, 1639, Amsterdam, Rijksmuseum, inv. RP-P-OB-37 10. Govert Flinck, Autoritratto, 1643, New York, The Leiden Collection, inv. GF-103

l’Autoritratto all’età di 34 anni (fig. 11)43. Le due opere sono legate tra loro da un rapporto di riecheggiamento, di rimando. Entrambe hanno alle spalle modelli illustri, altissimi; con essi Rembrandt ingaggia un serrato corpo a corpo che, come spesso accade, lo conduce a ripensare completamente i punti di partenza. Proprio nell’aprile 1639, infatti, fu venduta all’asta la collezione di Lucas van Uffelen, ricco mercante e collezionista che aveva soggiornato a lungo in Italia. Anche Joachim von Sandrart ne rimase colpito, poiché ricorda spesso opere della raccolta di van Uffelen nelle pagine della Teutsche Academie (1675)44. Lì Rembrandt vide il Ritratto di Baldassarre Castiglione di Raffaello oggi al Louvre: ne resta traccia nel notissimo schizzo conservato all’Albertina (Ben. 451)45. Proprio Sandrart tentò invano di accaparrarsi il dipinto di Raffaello che, per 3500 fiorini, finì nella collezione di Alfonso Lopez, mercante che agiva per conto di Richelieu e Luigi XIII, e che nel 1641 possedeva anche un’opera giovanile di Rembrandt, Balaam e l’asina (1626)46. Sia nel dipinto che, in misura minore, nell’incisione, il legame con il Ritratto di Castiglione del Sanzio è vitale, ma anche un altro modello giocò un ruolo rilevante: il cosiddetto Ritratto di giovane di Tiziano che, all’epoca, si credeva un ritratto di Ludovico Ariosto. Opera famosissima, copiata e ammirata, si trovava anch’essa nella collezione di Lopez47. Non dovette sfuggire a Rembrandt che entrambi i sommi maestri del Cinquecento avevano raffigurato due poeti: il rapporto tra poesia e pittura e, di converso, tra fama e ritratto, diveniva così l’oggetto di una sottile serie di rimandi e allusioni. Rembrandt guardò però anche a un 22 / Lo specchio di Rembrandt


altro modello cui da tempo si era rivolto: Albrecht Dürer. L’Autoritratto di quest’ultimo, del 1498, infatti, presenta delle indubbie consonanze con quello del 1640: la riflessione sulle opere dell’artista tedesco toccò proprio con questo dipinto un apice nel percorso di Rembrandt, che da (almeno) cinque anni guardava alle incisioni di Dürer e le collezionava avidamente alle aste49. Occorre domandarsi quale sia il significato di simili, dichiarate riprese dall’alta tradizione rinascimentale. Tanto più che sia nell’incisione che nel dipinto Rembrandt si presenta abbigliato fuori moda, con vesti cinquecentesche50. Queste, però, non sono vesti italiane, ma piuttosto tedesche: il rimando cioè è ancora una volta a Dürer, a Luca di Leida, a Hieronymus Cock e ai loro (auto)ritratti. Questa capacità di ritessere le fila di diverse tradizioni e sussumerle su se stesso dovette avere un certo successo, a giudicare dagli autoritratti eseguiti dagli allievi di Rembrandt, direttamente ispirati al dipinto di Londra. Basterà ricordare l’esempio di Govert Flinck, che nel 1643,

11. Rembrandt, Autoritratto all’età di 34 anni, 1640, Londra, National Gallery, inv. NG 672

23 / Lo specchio di Rembrandt


12. Rembrandt, Autoritratto, 1659, Washington, The National Gallery of Art, inv. 1937.1.72

quando ormai era un artista indipendente, dipinse uno dei suoi unici due autoritratti (fig. 10) guardando al modello di Rembrandt, di cui era stato allievo circa dieci anni prima51. Il dipinto del 1640 e l’incisione dell’anno precedente hanno quindi uno statuto particolare nell’itinerario dell’artista. Essi costituiscono da molti punti di vista l’ultimo atto del percorso apertosi nel 1631 con l’Autoritratto col cappello floscio (fig. 6) e, allo stesso tempo, inaugurano una nuova fase, nella quale gli autoritratti assumeranno una funzione “dichiarativa” rispetto al mestiere e ai fini del pittore. Ancora a distanza di molti anni, nel 1659, Rembrandt avrebbe dipinto un autoritratto in cui riecheggiavano l’esperienza maturata nella realizzazione dell’Autoritratto all’età di 34 anni e quanto aveva comportato l’incontro e la riflessione con il Ritratto di Baldassarre Ca-

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stiglione di Raffello nel 1639 (fig. 12). Sebbene più semplice nella posa e nell’atteggiamento, il dipinto di Washington sarebbe impensabile senza ciò che era accaduto vent’anni prima. 5. Coda. Lo specchio di Rembrandt Per dipingere i propri autoritratti Rembrandt utilizzava, com’è ovvio, uno specchio52. Sappiamo, perché lo registra l’inventario dei suoi beni steso nel luglio 1656 all’indomani del tracollo finanziario dell’artista, che in casa ve n’erano almeno due53. Fu probabilmente il più grande, quello che forse servì all’artista per realizzare i grandi ritratti degli anni cinquanta54, che si frantumò durante il trasloco del 165855. Ma Rembrandt non cessò certo di autoraffigurarsi. Doveva sicuramente essersi procurato uno specchio simile per dimensioni, poiché negli anni sessanta realizzò ancora dipinti alti più di un metro56, e puntualmente nell’inventario steso dopo la sua morte sono registrati due specchi57. Una vera e propria ossessione quella di Rembrandt per il proprio volto, e per i significati che attraverso quell’immagine riusciva a veicolare, eludendo (come sempre fece) i confini del genere. Un volto che i suoi contemporanei – in modo non dissimile da noi – impararono ben presto a riconoscere. Indicativo è il fatto che nel già ricordato 13. Irving Penn, Francis Bacon, 1962 circa, Chicago, The Art Institute, inv. 1996.213

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inventario del 1656 non vi sia nemmeno un autoritratto; e che sin dagli anni trenta, come attesta l’inventario della collezione di Carlo I steso da Abraham van der Doort, il volto del pittore era ben riconoscibile58. Oltre che alla sua arte, capace di suscitare grandissima ammirazione, è stato anche grazie all’immagine così iconica del suo volto che molti artisti dei secoli successivi sono rimasti così intimamente toccati da Rembrandt e dalla sua produzione, tanto da eleggerlo a modello da studiare e a vero e proprio autore-mito, capace di riassumere in sé tutto il senso dell’essere pittori (fig. 13). La mia viva riconoscenza va al personale dell’Accademia Carrara, nelle persone della direttrice Maria Cristina Rodeschini e del conservatore Paolo Plebani. Oltre a loro, sono grato a Marco Pomini e Patrizia Zambrano.

Per le condizioni del dipinto, le indagini scientifiche e la breve storia collezionistica cfr. il sito del Netherlands Institut voor Kunstgeschiedenis (RKD), https://rkd.nl/ nl/explore/images/record?query=rembrandt+self+portrait&start=50. 2 Sul rapporto di Rembrandt con Lastman imprescindibile è Broos 1975-1976. Cfr. anche van de Wetering 2001 (con utili considerazioni su van Swanenburg, pp. 32-39). La scoperta dell’immatricolazione all’Università di Leida del 1622 nel 2019 (sino ad allora era nota solo quella del 1620, RD 1620/1) ha in parte contribuito a meglio definire il quadro cronologico di questi primissimi anni. Per una sintesi e ulteriore bibliografia cfr. Mascolo 2021, pp. 18-22. 3 Lione, Musée des Beaux-Arts (inv. A2735), firmata e datata “R. f. 1625”; Leida, Museum de Lakenhal (inv. B564), firmata e datata “R[L] 16[2]6”. Sono stati riconosciuti come “autoritratti ambientati” anche la figura che suona l’arpa nell’Allegoria musicale (1626, Amsterdam, Rijksmuseum, inv. SKA-4674) e il personaggio in secondo piano nel piccolo David che presenta a Saul la testa di Golia (1627, Basilea, Kunstmuseum, inv. G 1958.37). Anche nella tela – riscoperta in tempi recentissimi – Lasciate che i bambini vengano a me (1627-1628 circa, collezione privata, su cui cfr. almeno C. Vogelaar in Young Rembrandt 2019, p. 168) è stato iden1

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tificato un autoritratto dell’artista: si tratta della figura in alto, di fianco alla base della colonna. 4 In generale sugli autoritratti nel Rinascimento italiano: Woods-Marsden 1998. L’uso di autoritrarsi in scene storiche era già dell’antichità. Su tutti, il caso di Fidia che si autoraffigurò nell’Amazzonomachia dello scudo dell’Atena Parthènos (scontando un caro prezzo: cfr. almeno Falaschi 2012). 5 Invv. 394 (Innalzamento della Croce) e 395 (Deposizione di Cristo dalla Croce). Nell’incisione (B. 81) del 1633 che riproduce la Deposizione, Rembrandt calcherà molto sui caratteri espressivi del proprio volto. Sui ruoli assunti dal pittore nei dipinti di soggetto biblico cfr. almeno Chapman 1990, pp. 105-127, soprattutto pp. 108-114 per l’Innalzamento della Croce. 6 Sulla Compagnia del Capitano Frans Banninck Cocq e del Luogotenente Willem van Ruytenburch (Amsterdam, Rijksmuseum, inv. SK-C-5), nella sterminata letteratura, cfr. almeno Haverkamp-Begemann 1982; Corpus III, A 146; Dudok van Heel 2009a; Dudok van Heel 2009b; Complete Paintings 2019, p. 673, cat. 265; Mascolo 2021, pp. 117-128. 7 E. van de Wetering in Corpus IV, p. XXV. Il numero è soggetto a oscillazioni che dipendono dalle diverse opinioni degli studiosi.


Soprattutto tra fine XIX e per buona parte del XX secolo fu questa la posizione che prevalse, complice il vero e proprio “mito” legato alla personalità dell’artista (cfr. ad esempio Rosenberg 1948 e, per altri esempi, Corpus IV, p. XXIV e pp. 132-136). 9 Cfr. Corpus IV, dedicato agli autoritratti dal 1642 al 1669 e pubblicato nel 2005 (sulle ragioni di tale scelta cronologica: Corpus IV, p. XXIII), che ha provato a offrire nuove risposte a questi interrogativi. Parte delle acquisizioni degli studiosi coinvolti in quelle ricerche fu anticipata nell’esposizione di Londra e L’Aia del 1999-2000: Rembrandt by himself 1999. 10 Le ricerche condotte da Andrew Pettegree e Arthur der Weduwen hanno stimato che circa il 10% degli inventari di artisti nello Stadsarchief di Amsterdam registra lo Schilder-boeck: Pettegree, Weduwen 2020, p. 264. 11 Su Het Schilder-boeck, in generale, cfr. almeno Waterschoot 1983; Melion 1991. Dati i caratteri dell’opera è assai verosimile pensare che van Mander aspirasse a rivolgersi sia agli artisti che ai liefhebbers. Sui legami tra van Mander e gli eruditi suoi contemporanei, da Ortelius a Lampsonius, cfr. Melion 1991, pp. 129-172. 12 Van de Wetering 2011, p. 8, che cita anche la famosa annotazione di David Beck nel proprio diario (1623) in cui ricorda di avere letto proprio il libro di van Mander. 13 Miedema 1973; Van de Wetering 2011, pp. 6-14; Mascolo 2021, pp. 28-32. 14 “Coloro che conoscono la Natura ci insegnano chiaramente che cosa siano gli Affetti o le passioni dell’uomo. Hanno indicato in modo separato i loro nomi, prima, e soprattutto, l’Amore; poi il desiderio, la gioia, il dolore, la collera; il lutto e la tristezza che cingono d’assedio il cuore; la codardia e la paura, difficile da controllare; e la vanagloria e il disprezzo [che dà luogo] all’invidia. Tutte queste cose sono chiamate Affetti” (Van Mander 1604, VI, 2, ff. 22v-23r). Cfr. anche van de Wetering 2011, pp. 65-70. 15 Van Mander 1604, VI, 4, f. 23r. 16 Van Mander 1604, VI, 36, f. 26r. L’immedesimazione dell’artista in ciò che rappresenta, al fine di renderlo in modo convincente (un principio che discende almeno da Orazio, Ars poetica, 99-104), era particolarmente cara a Rembrandt, che la impartiva ai 8

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suoi allievi attraverso vere e proprie “recite” (eredi, probabilmente, della stessa pratica che si praticava alla Scuola Latina). Cfr. almeno Alpers 1990, pp. 40-69. 17 Van de Wetering 2011. Cfr. anche Mascolo 2021, pp. 28-32. 18 Gemäldegalerie Alte Meister, inv. GK 229. Cfr. ad esempio Bode, Hofstede de Groot 1897-1906, I (1897), n. 11. La tavola è documentata nell’inventario (post 1749) delle collezioni del langravio d’Assia-Kassel Guglielmo VIII. 19 L’incisione riporta la dicitura “RHL inventor”, utilizzando il monogramma che il pittore appose sulle opere nel periodo 16291631. Cfr. Corpus VI, p. 66. 20 A questa data risalgono infatti Lot e le sue figlie (Amsterdam, Rijksmuseum, inv. RPP-OB-33.350); San Girolamo in preghiera (Amsterdam, Rijksmuseum, inv. RP-POB-33.359); Vecchia che legge (la profetessa Anna) (Amsterdam, Rijksmuseum, inv. RP-P-OB-33.365); Il battesimo dell’eunuco (Amsterdam, Rijksmuseum, inv. RP-POB-33.389). 21 Cfr. almeno Rembrandt & van Vliet 1996; White 1999, pp. 15-18 (più dubitativo sulla collaborazione nella prima edizione: White 1969, p. 21, 39); Hinterding 2006, I, pp. 83-92. 22 Jaco Rutgers ha infatti proposto di rivedere l’idea che fra i due vi fosse un “sodalizio”, e ha dimostrato come in realtà non sia possibile stabilire se Rembrandt si sia rivolto all’incisore. “The only thing we can be sure of is that van Vliet made a number of etchings after Rembrandt’s inventions dated between 1631 and 1634, that Rembrandt’s technique as an etcher improved drastically in the course of 1631, and that a number of Rembrandt’s early small prints were reworked by another hand”: Rutgers 2017, la citazione è da pp. 298-299. Inoltre, se per le quattro stampe del 1631 ci può forse essere stata una supervisione del pittore, di certo ciò fu più difficile nel 1634, quando ormai Rembrandt viveva stabilmente ad Amsterdam. 23 Regno Unito, collezione privata. Cfr. almeno Corpus I, A 15; Corpus VI, 23; Complete Paintings 2019, p. 520, cat. 38. Si veda comunque infra per ulteriori considerazioni su quest’opera. 24 Il termine fu introdotto nell’uso della critica da Albert Blankert, su suggerimento di


Joshua Bruyn, nel 1976: cfr. van de Wetering 2005, p. 172. Sulle tronies: van der Veen 1997; Hirschfelder 2001. Sulla possibilità che sia stato grazie a Jan Lievens – il sodale degli anni di Rembrandt a Leida – che queste teste abbiano acquisito lo status di genere commercializzabile: Schnackenburg 2016, pp. 39-40. Sulle sei incisioni di van Vliet e sul loro valore “documentario” rispetto alle opere che traducono in stampa cfr. le considerazioni di van de Wetering in Corpus VI, pp. 41-47. 25 Sui disegni di Londra (Ben. 53, inv. Gg, 2.253) e Amsterdam (Ben. 54, inv. RP-T1961-75): Rembrandt by himself 1999, pp. 108-109; van de Wetering 2005, pp. 148-150; Royalton-Kisch 2012-in corso, s.v. Ben. 53, 54; Young Rembrandt 2019, pp. 96-98. Una sintetica panoramica sui disegni giovanili, nel cui più ampio contesto vanno letti anche i due Autoritratti disegnati, è offerta in van Camp 2019. 26 White 1999, pp. 115-117; H. Goldfarb in Rembrandt creates Rembrandt 1990, p. 85; P. Schatborn in Rembrandt by himself 1999, p. 107; P. Schatborn in Rembrandt the Printmaker 2000, p. 88. 27 Come l’Autoritratto sporto in avanti, in ascolto (B. 9), che misura appena 65 × 52 mm. 28 Vienna, Albertina (inv. DG1926/37); Londra, British Museum (inv. 1848,0911.17); Haarlem, Teylers Museum (inv. KG 03557). 29 Gli unici esemplari sono il foglio di Londra (British Museum, inv. 1848,0911.19) e di Amsterdam (Rijksmuseum, inv. RP-P-OB-723). Non si può avere l’assoluta certezza rispetto a chi e quando ripassò le linee del busto. Forse l’artista stesso, o magari qualcuno dei successivi proprietari dell’incisione. Al di là della contemporaneità o meno di queste ripassature, importa qui sottolineare la non eccelsa riuscita della stampa. 30 In alto a sinistra, appena sotto la firma dell’artista, si intravede uno schizzo che è stato ricondotto a una probabile Cena in Emmaus. Cfr. P. Schatborn in Rembrandt by himself 1999, p. 89, fig. a. 31 Sull’esplorazione delle “regole dell’arte” da parte di Rembrandt cfr. van de Wetering 2011; Mascolo 2021, pp. 19-32. Per una panoramica sintetica sull’evoluzione di questi primi anni: Brown 2019, pp. 37-46. 32 Su questo gruppo di autoritratti incisi che, oltre al già ricordato Autoritratto con gli oc28 / Lo specchio di Rembrandt

chi spalancati (B. 320), include ad esempio anche l’Autoritratto a bocca aperta (B. 13), l’Autoritratto ridente, con cappello (B. 316) o l’Autoritratto col cappello di pelliccia (B. 24), cfr. van de Wetering 2005, pp. 158-171; A. van Camp in Young Rembrandt 2019, pp. 100-103. 33 Si tratta dei fogli Ben. 6v (Rotterdam, Museum Boijmans Van Beuningen, inv. R89); 8r, 8v (New York, collezione privata); 9v (Amsterdam, Rijksmuseum, inv. RP-T1930-54). Sull’elaborazione del dipinto e la relazione con i disegni cfr. Corpus I, A 15; C. Brown in Young Rembrandt 2019, pp. 196-200. 34 Cfr. Ekkart 1991; Mascolo 2021, pp. 33-37. 35 Inv. 11427. Firmato e datato “RHL 1629”. Cfr. almeno Corpus I, A 19; C. Brown in Young Rembrandt 2019, p. 90. 36 Cfr. Rembrandt by himself 1999, pp. 143144; Dickey 2004, pp. 24-27; A. van Camp in Young Rembrandt 2019, pp. 106-108; Mascolo 2021, pp. 44-46. 37 Il grande lavoro sulla lastra e sulle stampe per perfezionare sempre di più il risultato si coglie anche dai numerosi esemplari ritoccati a matita. Cfr. White 1999, pp. 117-120. 38 Londra, British Museum (Ben. 57, inv. 1842, 0806.134), Parigi, Bibliothèque Nationale de France (il foglio non è incluso nel catalogo di Benesch, inv. Cb-13m-rés). Cfr. Hinterding 2006, vol. I, pp. 71-74 e Royalton-Kisch 2012-in corso, s.v. Ben. 57, che ha stabilito la corretta seriazione dei fogli e la loro datazione rispetto alle incisioni. 39 Inv. (35.600). Cfr. Corpus II, A 58; Corpus IV, pp. 199-202; Complete Paintings 2019, pp. 605-606, cat. 150. Per un quadro sintetico di questo momento è molto efficace Chapman 1990, pp. 56-62. Sugli abiti dell’artista è fondamentale de Winkel 2005 (ivi, pp. 45-48, per gli autoritratti in abiti borghesi). 40 Rembrandt è attestato in pianta stabile ad Amsterdam perlomeno dal 1632 (RD 1632/2). Sulla natura del suo sodalizio con Uylenburgh, nell’ampia letteratura disponibile, cfr. almeno van der Veen 2006; Mascolo 2021, pp. 47-49. 41 Orlers 1641, p. 375: “E poiché la sua arte e le sue opere sono state così entusiasticamente accolte dai cittadini di Amsterdam e dato che gli veniva spesso richiesto di eseguire ritratti e altre opere in quella città,


decise di trasferirsi da Leida ad Amsterdam, cosa che fece all’incirca nel 1630”. 42 Londra, Windsor Castle (RCIN 400156). In generale, sul modo in cui Rembrandt guarda a Rubens cfr. almeno Chapman 1990, pp. 62-69; Sluijter 2015, pp. 42-50. 43 Sull’incisione: White 1999, pp. 132-136; Hinterding 2008, I, pp. 59-61. Sul dipinto: Corpus III, A 139; Corpus IV, pp. 245-249; Complete Paintings 2019, pp. 608-609, cat. 157. 44 Sulla collezione cfr. almeno Dickey 2004, pp. 89-92; Sluijter 2015, pp. 76-77; Mascolo 2021, p. 108. 45 Parigi, Musée du Louvre (inv. 611); Vienna, Graphische Sammlung Albertina (inv. 8859). Il disegno, come noto, riporta anche le cifre cui fu venuto il dipinto di Raffaello e il totale complessivo della vendita (59.456 fiorini). 46 Parigi, Musée Cognacq-Jay (inv. 95). Cfr. RD 1641/1; Corpus I, A 2; Complete Paintings 2019, p. 493, cat. 1. Su Lopez cfr. Slive 1953, pp. 33-35. 47 Londra, National Gallery (inv. NG 1944). Lopez possedeva anche un’altra opera di Tiziano, la Flora oggi agli Uffizi (inv. 1462), che Rembrandt certamente conosceva. Cfr. Mascolo 2021, pp. 110-111. 48 Madrid, Museo nacional del Prado (inv. P002179). Su quest’opera e, più in generale, sugli autoritratti di Dürer: Koerner 1993. 49 Per gli acquisti di serie di incisioni düreriane all’asta dei beni di Gommer Spranger: RD 1638/2, e addenda p. 672. Per ulteriori considerazioni: Scallen 1998; Mascolo 2020; Mascolo 2021, pp. 76-78, 97. Il dipinto di Dürer oggi a Madrid fu donato dalla città di Norimberga a Carlo I e portato in Inghilterra da Thomas Howard, conte di Arundel, che, nel suo viaggio nel 1636, si fermò anche all’Aia: si è ipotizzato che Rembrandt abbia potuto vederlo in quell’occasione. Cfr. Manuth 1999, p. 44. 50 Cfr. de Winkel 2005, pp. 60-78. 51 È importante ricordare che le radiografie eseguite sul dipinto hanno rivelato che inizialmente Rembrandt aveva raffigurato la propria mano sinistra (destra per l’osservatore) appoggiata al parapetto, cioè come è raffigurata nel dipinto di Flinck e negli Autoritratti di Ferdinand Bol del 1647 (Toledo, Ohio, Toledo Museum of Art, inv. 1980.1347; Pasadena, collezione privata). 29 / Lo specchio di Rembrandt

Per un’immagine della lastra: Corpus III, p. 377. 52 Sul tema dell’artista allo specchio ha offerto importanti considerazioni Fried 2010. 53 RD 1656/12, n. 72 (Een Spiegel in een ebben lijst) e 126 (Een groote Spiegel). Su questo inventario e sulle circostanze che portarono alla sua stesura: Mascolo 2021, pp. 182-188. 54 Come ad esempio l’Autoritratto in veste dorata della Frick Collection di New York (inv. 1906.1.97), che misura 131 × 102 cm. Sul dipinto, in sintesi: Corpus IV, 14; Complete Paintings 2019, pp. 612-613, cat. 166; Mascolo 2021, pp. 196-197. 55 RD 1658/13. 56 Come, ad esempio, l’Autoritratto con due cerchi della Kenwood House di Londra (inv. 57, 114,3 × 94 cm), realizzato tra il 1665 e il 1669. Cfr. Corpus IV, 26; Complete Paintings 2019, pp. 616-617, cat. 172; Mascolo 2021, pp. 218-220. 57 RD 1669/5, n. 7 (Een spiegel) e n. 50 (Een oude spiegel met een capstock). 58 L’inventario fu steso da van der Doort nel 1639 (RD 1639/11). I tre dipinti attribuiti a Rembrandt, tra cui l’autoritratto, entrarono nelle collezioni reali nel 1633, donati da Robert Kerr, conte di Ancrum. Il dipinto è stato identificato con l’Autoritratto di Liverpool (Walker Art Gallery, inv. 1011), la cui autografia è però dibattuta. Inizialmente accettato come autografo (Corpus I, A 33) è stato poi classificato come opera “di bottega” (Corpus IV, pp. 179-182); C. Brown in Young Rembrandt 2019, p. 93, che considera l’opera autografa. Alcune considerazioni sulla riconoscibilità dei tratti dell’artista da parte dei suoi contemporanei in Manuth 1999, pp. 46-48.



Opere


Intorno a Rembrandt, in Accademia Carrara Paolo Plebani

L’esposizione dell’Autoritratto giovanile di Rembrandt del Rijksmuseum in Accademia Carrara è diventato un invito irrinunciabile a selezionare nel ricco patrimonio del museo un gruppo di opere (dipinti, disegni e stampe) che, per ragioni diverse, sono riconducibili alla figura dell’artista olandese. L’intento non è gareggiare con un ospite così illustre, ma invitare il pubblico a scoprire la straordinaria varietà delle collezioni museali e le tante storie, anche lontane e inaspettate, che le opere consentono di raccontare. La raccolta di pittura olandese seicentesca dell’Accademia Carrara costituisce una eccezione positiva nel più ampio panorama della discontinua presenza dell’arte dei Paesi Bassi nei musei italiani. Non è un caso, inoltre, che le testimonianze più importanti di questa scuola pittorica siano giunte all’istituzione bergamasca da alcune collezioni allestite tra il secondo e il terzo quarto dell’Ottocento e questo a riprova del singolare apprezzamento riservato alla pittura olandese dal secolo borghese, che scaturiva – peraltro – anche dalla moda dilagante della scena di genere la cui storia, proprio in Olanda, aveva avuto origine. La raccolta di Guglielmo Lochis includeva ben 27 dipinti classificati come lavori di scuola olandese e quindici di essi sono giunti in Accademia Carrara nel 1866. Tuttavia, è soprattutto la collezione dello storico dell’arte Giovanni Morelli, dalla quale il museo ha acquisito circa una ventina di dipinti olandesi, tra cui un vero e proprio capolavoro come il Giovane fumatore di Molenaer, a costituire l’episodio più interessante, anche perché Morelli dimostrò un grande interesse per questa scuola pittorica, che studiò approfonditamente nel corso dei suoi viaggi in Germania, Olanda e Inghilterra. Nell’ambito di questa più generale vicenda della fortuna (o sfortuna) della pittura olandese di età barocca in Italia, il caso di Rembrandt, quello dei suoi allievi o collaboratori e in sostanza della pittura rembrandtiana, è per molti aspetti una storia a sé di cui, poco più di un secolo fa, Corrado Ricci tentava di fornire un primo disegno e per la quale oggi possiamo fare affidamento sulle ricerche di Jaco Rutgers.

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L’Accademia Carrara è per molti versi un luogo d’elezione per ripercorrere qualche pagina o qualche episodio di questa storia: è sufficiente sostare nella sala intitolata a Fra’ Galgario per misurare ad esempio quanto il tema del ritratto in costume di cui il Ghislandi fu uno specialista sia debitore anche solo indirettamente al magistero del grande maestro olandese. Su tale fronte e nel contesto di un’occasione particolare come l’esposizione dell’Autoritratto del Rijksmuseum, la scelta è stata di radunare un piccolo, ma significativo drappello di opere provenienti anche dai depositi del museo. Il pendant di Giuseppe Nogari (catt. 5, 6) e la Testa di Bartolomeo Nazari (cat. 7??), conducono nella Venezia della prima metà del Settecento, vale a dire nella città della Penisola che con più sollecitudine rispose al fascino della pittura e della grafica del maestro olandese. Allo stesso genere delle “teste di carattere” al quale appartengono questi dipinti, si possono ricondurre anche i due disegni a penna di Nazari (catt. 8, 9). Le incisioni di Giovanni Benedetto Castiglione (catt. 10-13) riportano invece alla prima metà del Seicento, e a Genova, non a caso ancora una città che aveva strettissimi legami commerciali con le Fiandre e con i Paesi Bassi. Il Grechetto – con questo soprannome è conosciuto l’artista – fu abile incisore, dalla sbrigliata fantasia grafica, e fu tra i primi ad apprezzare le stampe di Rembrandt, riprendendone i soggetti e il luminismo corrusco nelle sue acqueforti, come testimonia la serie di teste virili qui radunate. Inoltre, la sua “traduzione” delle invenzioni rembrandtiane favorì all’inizio del Settecento una rinnovata attenzione tra artisti e mercanti per la grafica e la pittura dell’olandese. Un secondo tema che emerge è quello dei seguaci diretti o indiretti del maestro olandese o, per dirla in altro modo, della bottega di Rembrandt ad Amsterdam: vera e propria frontiera nella quale negli ultimi decenni ci si è dovuti avventurare per affrontare con strumenti adeguati il problema del catalogo dell’olandese e dell’accesa discussione sorta intorno all’autografia di molte opere a lui attribuite. L’Autoritratto di van den Eeckhout (cat. 4), ad esempio, invita a riflettere sulla novità

costituita dalle invenzioni di Rembrandt, capace di imporre nuove modalità di rappresentazione di sé, e quindi anche una nuova immagine dell’artista. Il Ritratto di gentildonna di van Santvoort (cat. 1), su cui Giovanni Morelli leggeva la firma di Rembrandt, non solo testimonia il singolare successo della ritrattistica dell’artista nei primi anni trenta del Seicento, ma rammenta sottilmente come lo studio del pittore olandese, dei suoi seguaci, collaboratori e imitatori costringa a sottoporre a continua verifica la nostra idea di autografia. L’Artigliere (cat. 2), qui attribuito per la prima volta al cosiddetto Maestro del 1633, apre uno spiraglio sul problema dell’arrivo in Italia di opere inequivocabilmente o anche solo genericamente – come in questo caso – di gusto rembrandtiano. Una questione quest’ultima richiamata anche da un altro dipinto dell’Accademia Carrara allestito nel percorso di visita del museo. Il riferimento è al Ritratto di un cavaliere dell’ordine di San Giacomo, acquistato da Guglielmo Lochis come opera di Velázquez, ma che rimane al momento l’unica traccia dell’attività di ritrattista a Bergamo di Eberhard Keilhau, detto Monsù Bernardo, in un momento in cui era ancora vivo il ricordo degli insegnamenti di Rembrandt, la cui bottega ad Amsterdam il pittore danese aveva frequentato. Non era possibile spostare il dipinto dalla sua sede consueta. L’invito, terminata la visita dell’esposizione, è di proseguire la passeggiata nelle sale del museo.

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Dirck Dircksz van Santvoort (Amsterdam, 1609-1680) 1. Ritratto di giovane donna, 1635 olio su tela, 78,3 × 64,2 cm datato in basso a sinistra: “f. 1635” Bergamo, Accademia Carrara inv. n. 58 MR 00113

Il dipinto è acquistato da Giovanni Morelli nel marzo 1870, come riferisce all’amico Austen Henry Layard il 30 novembre: “Tornando l’inverno passato da Napoli a Firenze mi fermai alcuni giorni a Roma e vi andai per la prima volta a visitare la Galleria de’ quadri che sotto il Campana s’era andata formando nel Monte dei Pegni. Vi trovai uno stupendo ritratto della moglie di Rembrandt, fatto da questo grande artista con la firma e l’anno 1635 – dunque un anno dopo il suo matrimonio. Saskia van Ughemtury [sic] vi è rappresentata grande al vero e di faccino buffo senza mani, ed è fra i più bei ritratti che io mi conosca. Questo capo d’opera l’ho ritenuto per me” (Londra, British Library, Mss. Add 38962; ringrazio Ruggero Jucker che mi ha gentilmente fornito una trascrizione della missiva, inclusa nella sua tesi di laurea, Il carteggio Layard – Morelli, relatore Giovanni Agosti, a.a. 2012-2013). Le circostanze dell’acquisto erano già note (Anderson 1999, p. 85, nota 41), ma è significativo che nella lettera si affermi che l’opera presentava la firma di Rembrandt, oggi scomparsa, anche perché questa notizia conferma i sospetti degli studiosi che hanno giudicato l’iscrizione attuale non completa. Nel 1891, dopo la scomparsa di Morelli, il dipinto entrò in Accademia Carrara con la raccolta d’arte del conoscitore. Qualche dubbio sul riferimento a Rembrandt dovette circondare la tela da subito, come racconta Gustavo Frizzoni, che ricordava di essere stato più volte testimone “delle discussioni impegnatesi fra persone competenti dell’arte d’oltralpe intorno a questo quadro, con intima soddisfazione del proprietario che vi prendeva parte”, ma che continuò a difendere l’attribuzione al maestro olandese (Frizzoni 1892a, pp. 67-69; Frizzoni 1892b, p. 230; Frizzoni 1897, p. 92; Frizzoni 1907, p. 70; Frizzoni 1910, p. 326). Corrado Ricci (1912, p. 110, n. 583) non nascose invece le sue perplessità, accompagnando con un punto di domanda il nome di Rembrandt nel catalogo del museo bergamasco da lui riallestito. Con la medesima dicitura la tela era presentata alla “Mostra di capolavori della pittura olandese” allestita alla Galleria Borghese (Mostra 1928 [fornire esteso, grazie], pp.

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81-82, n. 101), ma in una recensione all’esposizione, Willem Martin (1928, pp. 104-105) avanzava un cauto riferimento a Dirck Dircksz van Santvoort. In seguito, sono stati proposti diversi nomi: quello di Paulus Moreelse, ritrattista di valore tra Amsterdam e Utrecht (De Jonge 1938, p. 144, n. 233); di Ferdinand Bol, allievo e collaboratore di Rembrandt (Russoli 1967, p. 76, n. 583); di Michiel van Mierevelt, specialista del ritratto operoso a Delft e all’Aia (Ruffato 1979-1980, pp. 226-232, n. 61). Nel catalogo scientifico della raccolta Morelli, sebbene le candidature di Mierevelt e del suo allievo Moreelse fossero ritenute molto attendibili, l’intestazione riporta la dicitura generica “Scuola olandese della prima metà del secolo XVII” (Zeri, Rossi 1986, pp. 243-244, n. 100). Nel frattempo, Bert W. Meijer (1988, p. 45, nota 2) riprendeva l’ipotesi di Martin e proponeva nuovamente il nome di van Santvoort. Questa idea ha raccolto negli ultimi anni un significativo consenso (Jansen, Meijer, Squellati Brizio 2002, p. 174, n. 720) e a sua conferma si è proposto anche un confronto con il Ritratto di Agatha Geelvinck del Rijksmuseum (F. Bottacin, in Fiamminghi 1990, pp. 46-47). Tuttavia, si è pure notato lo scarto tra il ritratto della Carrara e la produzione un poco convenzionale dell’artista (J. Rutgers, in Fiamminghi e olandesi 2002, pp. 28-30, n. 5): una distanza che si è suggerito di leggere come il risultato dell’attenzione di Santvoort alla ritrattistica del giovane Rembrandt nei primi anni trenta (R. Colace, in Botticelli 2010, pp. 106-107, n. 37). Tale interpretazione sembra condivisibile e rende ragione sia delle affinità della tela con la ritrattistica di Santvoort sia della qualità non comune del dipinto per lo standard di questo pittore. Non si ha ancora un quadro completo del percorso e del catalogo di Santvoort, noto soprattutto per i suoi ritratti di bambini, e non vi sono informazioni precise in merito ai suoi rapporti con Rembrandt, sebbene si sia ipotizzato che egli collaborasse nella prima metà degli anni trenta con il mercante d’arte Hendrick van Uylenburgh, forse proprio sotto la guida di Rembrandt che visse e lavorò con Uylenburgh nello stesso periodo (Sluijter 2015, pp. 293-296). È proprio in questo scenario che si deve collocare la tela della Carrara, dove Santvoort, pur non seguendo Rembrandt nella sua ricerca volta a trasferire nel ritratto le azioni e le passioni della storia, sembra ispirarsi – come mi suggerisce Marco M. Mascolo, che ringrazio – a dipinti quali il Ritratto di giovane del 1633 (Houston, Museum of Arts) o il Ritratto di gentildonna del 1634 (Boston, Museum of Fine Arts), in un tentativo di confronto con lo schietto naturalismo dell’artista, che traduce in forme addolcite e intenerite. Paolo Plebani


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Pittore attivo a Bergamo nel secondo quarto del Seicento (Maestro del 1633) 2. Ritratto di artigliere, 1633 circa olio su tela, 125 × 104 cm Bergamo, Accademia Carrara inv. n. 58 AC 00347

Il dipinto si riconosce nel “Ritratto di soldato canoniere, opera bellissima di Antonio Vandiche” descritta nell’inventario manoscritto dei quadri di Giacomo Carrara redatto da Bartolomeo Borsetti alla morte del conte (Borsetti 1796, ms., c. 90; Giacomo Carrara 1999, p. 299, n. 74). Non si hanno informazioni sulle precedenti vicende collezionistiche della tela e neppure sulle circostanze in cui Carrara entrò in possesso dell’opera. Classificato per lungo tempo come lavoro di scuola fiamminga del Seicento, il dipinto nel secondo dopoguerra è stato riferito da Franco Russoli (1967, p. 77, n. 487) alla scuola di Rembrandt, avanzando con grande cautela il nome di Govert Flinck (Kleve, 1615 – Amsterdam, 1660), allievo e collaboratore ad Amsterdam dell’artista olandese. Tale attribuzione – ripresa in diverse pubblicazioni del museo – è stata in seguito accantonata a favore di un’assegnazione alla scuola olandese seicentesca (D. Banzato in Fiamminghi 1990, pp. 44-45, n. 6; C. Rodeschini, in Accademia Carrara 2015, pp. 170-171, n. 76). Si è infine suggerita la possibilità che a eseguire il dipinto sia stato un altro allievo di Rembrandt: Eberhard Keilhau, noto anche con il nome di Monsù Bernardo, attivo a Bergamo tra il 1654 e il 1655 nelle vesti di ritrattista (Jansen, Meijer, Squellati Brizio 2002, p. 127, n. 628, con bibliografia precedente). Tuttavia nemmeno questa proposta, per quanto intrigante, risulta del tutto convincente. Il catalogo di ritratti di Keilhau accoglie al momento soltanto un dipinto, anch’esso in Accademia Carrara, il Ritratto di un cavaliere dell’ordine di San Giacomo (inv. n. 81 LC 00030; Heimbürger 1988; Heimbürger 2014, pp. 194-195, n. 96). La tela, tuttavia, mostra una condotta pittorica assai diversa, per molti versi anche più esplicitamente rembrandtiana dell’opera in esame che, peraltro, la precede di diversi anni, a giudicare dalla foggia del costume.

In questa sede si propone una lettura diversa del problema attributivo posto dal dipinto, invitando ad accogliere la tela nell’esiguo ma piuttosto compatto catalogo di opere – tutti ritratti – di un artista ancora anonimo, verosimilmente fiammingo od olandese, al quale è stato assegnato il nome di “Maestro del 1633”, perché i dipinti che gli sono riferiti sono quasi tutti eseguiti in questo anno, a Bergamo (F. Frangi, in Il ritratto in Lombardia 2002, pp. 196-199, nn. 76-77; Valagussa 2012). Le mani allungate e callose dell’Artigliere si ritrovano nelle opere certe dell’anonimo artista: nel Ritratto di Chiara Ceni Benvenuti e di Giovanni Battista Benvenuti dell’Accademia Carrara (inv. nn. 58 AC 00097 e 58 AC 00099), ma anche nel Ritratto di Giovanni Battista Bonometti della Casa di Riposo del Gleno a Bergamo, forse il dipinto che per vivacità della presentazione e per scioltezza esecutiva più si avvicina alla tela in esame. Una sorta di sigla d’autore si può inoltre considerare il gesto della mano chiusa a pugno che si appoggia su un fianco, gesto che compare in quasi tutti i dipinti del gruppo e pure nell’Artigliere. Simile in tutti questi lavori è la regia luministica della scena, con tagli diagonali di luce accesi sui personaggi e sulle pareti di fondo, e analogie si rintracciano anche nell’esecuzione vibrante e nella pastosa materia pittorica. D’altra parte, nell’inventario Borsetti rammentato all’inizio, i due ritratti Benvenuti della Carrara erano assegnati proprio a quell’“Antonio Vandiche” al quale era riferito anche l’Artigliere (Borsetti 1796, c. 76; Giacomo Carrara 1999, p. 294, n. 2). Non vanno tuttavia passati sotto silenzio i caratteri che distinguono la tela dalle altre assegnate al Maestro del 1633: l’assenza della fatidica data, la tipologia ritrattistica differente, che ha rammentato in più di uno studioso i personaggi dei ritratti di gruppo olandesi, in particolare quelli raffiguranti compagnie di armati, e la spavalda personalità con cui il protagonista del dipinto è immortalato, mentre impugna il buttafuoco, l’asta munita di una miccia fumante pronta a innescare la carica di lancio del cannone che vediamo sul fondo nell’ombra. Differenze che, probabilmente, trovano una spiegazione in un leggero scarto cronologico tra il dipinto in esame e gli altri lavori conosciuti del Maestro del 1633. Paolo Plebani

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Bottega di Nicolaes Maes (Dordrecht, 1634 – Amsterdam, 1693) 3. Ritratto di gentiluomo, 1655 olio su tavola, 53 × 46 cm firmato e datato in alto a destra: “N. Maes / 1655” Bergamo, Accademia Carrara inv. n. 58 MR 00104

Come diverse opere fiamminghe od olandesi giunte in Accademia Carrara grazie al lascito di Giovanni Morelli, anche questo dipinto fu acquistato dal celebre storico dell’arte presso il Monte di Pietà di Roma per il cugino Giovanni Melli. Alla scomparsa di quest’ultimo nel 1873, la sua collezione d’arte passò per eredità proprio alla persona che aveva contribuito a formarla. Il 28 gennaio 1871 Morelli scrive informando il cugino delle sue ripetute visite alla Galleria del Monte di Pietà, dove aveva scovato “un bel ritratto d’uomo – busto – ch’io ritengo probabilmente di van der Helst; se ne chiede la somma di 500 lire”. All’inizio di febbraio Melli inviava a Roma il denaro per concludere l’acquisto e pochi giorni dopo Morelli lo informava di avere fatto la sua offerta: “il ritratto di gentiluomo, dai capelli lunghi e bruni, ch’io – visto allo scuro – ritenni dapprima pittura di v.d. Helst ma che oggi rivisto al chiaro m’accorsi che non è di lui. Non ne riconobbi l’autore, ma ti so dire che chi fece questo magnifico ritratto doveva essere pittore di prima forza. E cosa degna di v.d. Helst, di V. Dyck e degli altri sommi ritrattisti. Veduto alla luce questo quadro, stimato L. 500, mi crebbe del doppio – ne ho offerto L. 350, ma vi aggiungerò volentieri le altre 150 per averlo. Sono certo che ti piacerà assai. È intatto, ma un po’ sudicio del tempo”. Due giorni dopo, trionfante, Morelli comunicava al cugino di avere perfezionato l’acquisto, ma la vicenda non era conclusa, perché il 19 febbraio scriveva nuovamente a Melli: “questo ritratto, guardato da vicino, mi fece un effetto, che andava continuamente crescendo. Capivo che l’autore apparteneva alla scuola di Rembrandt, e che toccava anzi molto da vicino il grande maestro, ma come ti dissi, non ti sapevo trovare il vero autore. Ma lo porto dunque a casa, e fatto acquisto di un po’ d’acqua di ragia, e bagnatonelo, cosa mi tocca mai vedere. Nientemeno che il nome del pittore e l’anno. E lettolo esclamai: quest’è proprio un terno al lotto. Eccotene il facsimile: ‘W: Mas (cioè Niccolò van Maes) / 1655’”. Morelli era orgoglioso dell’acquisto ed era entusiasta del dipinto, tanto che pochi mesi dopo scriveva

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da Amsterdam sempre al cugino: “un ritratto del Maes che possa stare paragone del tuo, io davvero l’ho ancora da vedere, e dei ritratti del Maes ne avrò veduto almeno sì una dozzina nelle Gallerie di Germania che in quelle di qua! Fagli dunque un saluto da parte mia a codesto paffuto olandese” (Anderson 1999, pp. 99-112, lettere nn. 22-26; pp. 136-139, lettera n. 39). La testimonianza dello storico dell’arte è particolarmente significativa, perché nella letteratura sul dipinto sono state fornite informazioni contraddittorie sulla data presente nell’iscrizione, letta come 1656 da Gustavo Frizzoni (1892a, pp. 69-70), neppure registrata in alcune pubblicazioni museali (Ricci 1912, p. 110, n. 582; Russoli 1967, p. 77, n. 582) e riportata come 1657 a partire da Rossi (1979 p. 276) e da Ruffato (1979-1980, pp. 269-272, n. 74). Tale lettura è stata confermata anche nel catalogo scientifico della raccolta Morelli (Zeri, Rossi 1986, p. 129, n. 109) e nelle pubblicazioni successive, ma la recente pulitura del dipinto effettuata in preparazione all’esposizione consente di tornare all’ipotesi di Morelli, ossia alla data 1655. Inoltre, si è potuto accertare che le dimensioni dell’opera non sono quelle originali, ma che la tavola è stata rifilata, come si era già sospettato rilevando la posizione decentrata della figura (Hofstede de Groot 1907-1928, VI, 1915, p. 557, n. 300). Il retro del supporto presenta infatti lungo il bordo superiore un profilo rastremato, mentre sugli altri tre lati un taglio netto. Riferito per molto tempo sulla base dell’iscrizione a Nicolaes Maes, il dipinto recentemente è stato prima espunto dal catalogo del pittore e giudicato lavoro di un anonimo (Krempel 1999, p. 352, n. C 29), quindi riferito alla cerchia dell’artista originario di Dordrecht (Jansen, Meijer, Squellati Brizio 2002, p. 58, n. 474, con bibliografia precedente; R. Colace, in Botticelli 2010, pp. 110-111, n. 39). Dopo un lungo apprendistato nello studio di Rembrandt ad Amsterdam iniziato nel 1640, alla fine del 1653 Maes ritornava nella sua città natale, dove si affermava come raffinato autore di silenziosi interni domestici e di ritratti realizzati in uno stile genericamente rembrandtiano, che in seguito abbandonerà a favore di formule più eleganti e alla moda (sul pittore: Nicolaes Maes 2019). Al momento iniziale di prudente adesione al naturalismo del maestro olandese appartiene anche il dipinto della Carrara, non riconducibile direttamente a Maes, ma alla mano di un allievo o di un collaboratore che ne frequentava lo studio a Dordrecht e che lavorava seguendo fedelmente lo stile e i modelli del capo bottega. Paolo Plebani


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Gerbrand van den Eeckhout (Amsterdam, 1621-1674)

La più antica menzione del dipinto si rintraccia nel resoconto sulle collezioni cittadine pubblicato nel 1833 dal conte Pietro

n. 249). Tuttavia, Sumowski (1983-1994, II, 1983, p. 750, n. 524), pur confermando il riferimento a van den Eeckhout, ritiene entrambe le iscrizioni apocrife e propone di collocare il dipinto intorno al 1650 circa; mentre Liedtke (in Liedtke, Logan, Orenstein, Dickey 1995, pp. 102, 103 nota 8; Liedtke 2007, p. 724) – che ritiene quest’ultima datazione troppo precoce – avanza qualche dubbio sull’interpretazione dell’immagine come un autoritratto. La vita e il percorso professionale di van den Eeckhout non sono molto documentati. Era figlio di un orafo e il suo primo biografo, Arnold Houbraken, afferma che fu allievo di Rembrandt, ma riguardo alla sua permanenza nella bottega dell’artista non abbiamo notizie precise. Verosimilmente

Moroni nell’almanacco “Bergamo o sia Notizie patrie”. Tra i già numerosi capolavori della raccolta di Guglielmo Lochis, allora ancora agli inizi, è ricordato un “piccolo ritratto di personaggio distinto col nome di Rembrandt” (Moroni 1833, p. 17). Nei successivi cataloghi della quadreria allestita dall’aristocratico bergamasco, la tavoletta è descritta come ritratto di Gerbrand van den Eeckhout eseguito nel 1659 dal suo maestro Rembrandt (Lochis 1834, pp. 73-74, n. XCVI; Lochis 1846, pp. 183-184, n. CCLXXX; Lochis 1858, pp. 182-183, n. CCCXIII). Non si hanno informazioni sulle vicende collezionistiche precedenti, ma, a questo proposito, sul verso del supporto è presente un sigillo in ceralacca con impressa la scritta “Berlin” e le lettere “WR” intrecciate e sormontate da una corona. Il dipinto giunge in Accademia Carrara nel 1866 insieme a una parte consistente della collezione Lochis, divisa tra il Comune di Bergamo e il nipote, nonché unico erede, Carlo Lochis, ma il riferimento al grande maestro olandese aveva i giorni contati. Spetta a Gustavo Frizzoni inquadrare il problema in termini un poco più affidabili: “se il nome di Rembrandt è invocato invano, in base ad una segnatura alquanto malfida, gli si avvicina sensibilmente l’autoritratto di un suo scolaro, Gerbrand van den Eeckhout, che vi segnò il suo nome” (Frizzoni 1907, p. 56). Come autoritratto dell’artista originario di Amsterdam il dipinto è in genere registrato nell’esigua letteratura successiva (Bangel 1914, p. 357; Van Hall 1963, p. 91, n. 582-1; Rossi 1979, p. 275; Ruffato 1979-1980, pp. 273-275, n. 75; Jansen, Meijer, Squellati Brizio 2001, p. 165,

studiò con il grande maestro nella seconda metà degli anni trenta, visto che la prima opera certa è del 1640. Fu impegnato principalmente come pittore di storia e ritrattista, per specializzarsi a partire dagli anni cinquanta anche nella scena di genere. Il suo volto è noto grazie all’incisione che compare nel Groote Schouburgh der Nederlantsche Konstschilders en Schilderessen di Houbraken, pubblicato ad Amsterdam tra il 1718 e il 1721 (II, 1721, tav. F. tra le pp. 102-103), e al bel disegno della collezione Frits Lugt firmato e datato 1647 (Parigi, Fondation Custodia, inv. 854a) che, se è effettivamente un suo autoritratto, lo raffigura all’età di 26 anni (Schatborn 2010, I, p. 166, n. 61). Senza avventurarsi sul terreno scivolosissimo del confronto fisiognomico, a suggerire una lettura del dipinto della Carrara come autoritratto sono soprattutto le dimensioni contenute della tavoletta e i modi della rappresentazione, caratteri che richiamano in maniera esplicita i prototipi di Rembrandt e della sua stretta cerchia. Ad esempio l’Autoritratto di Vienna del 1655 (Kunsthistorisches Museum, inv. n. 9040), un’opera di autografia discussa, ma che presenta il medesimo guardaroba di scena del dipinto in esame – il cappello, l’orecchino, il collo di pelliccia e la vistosa catena d’oro – e una simile regia delle luci sul volto del protagonista. Anche il gesto della mano portata al petto e infilata nel vestito è un’altra invenzione tipicamente alla Rembrandt, come testimonia l’Autoritratto delle collezioni reali inglesi del 1642. Paolo Plebani

4. Autoritratto con orecchino e catena, 1659 olio su tavola, 26 × 20 cm firmato e datato in alto a destra: “G. v. Eeckhout / [1659]” iscrizione apocrifa al centro a destra: “Rembrandt” Bergamo, Accademia Carrara inv. n. 81 LC 00066

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Giuseppe Nogari (Venezia, 1699-1763) 5. Ritratto di vecchia, 1735-1740 circa olio su tela, 60 × 43 cm Bergamo, Accademia Carrara inv. n. 58 AC 00185 6. Ritratto di vecchio, 1735-1740 circa olio su tela, 60 × 43 cm Bergamo, Accademia Carrara inv. n. 58 AC 00191

Risale al 1930 la prima attestazione di questa coppia di opere nelle collezioni dell’Accademia Carrara (Accademia Carrara 1930, pp. 55-56, nn. 1136, 1144). In quell’occasione venne segnalata la loro appartenenza al legato di Cesare Pisoni, giunto in museo nel 1924, notizia di cui non si conservano sicuri riscontri documentari (sul lascito di Cesare Pisoni e la difficoltà, in molti casi, di individuare puntualmente le opere giunte in Museo si veda Nurchis 2014, pp. 259-279, 291-322). Storicamente le due tele sono state attribuite al bergamasco Bartolomeo Nazari (Clusone, 1693 – Milano, 1758), a lungo attivo a Venezia, e datate da Fernando Noris attorno al 1735, “per una certa loro dura severità che le avvicina ai primi ritratti” (Noris 1982, p. 227). Lo studioso è stato il primo ad avanzare l’ipotesi che i due dipinti provengano dalla collezione di Giacomo Carrara, il fondatore della Pinacoteca che ancora oggi porta il suo nome, mettendoli in relazione alle tre “capricciose teste” di Bartolomeo Nazari possedute dal conte bergamasco secondo la testimonianza di Francesco Maria Tassi (1793, II, p. 93). Anche nell’inventario dei quadri del Carrara, stilato alla sua morte nel 1796 dal restauratore Bartolomeo Borsetti, sono elencate sei “teste” dipinte dal Nazari (Borsetti 1796, ms., cc. 6, 28, 62, 66; per la trascrizione del manoscritto si veda Giacomo Carrara 1999, p. 261, n. 44, p. 272, nn. 14-15, p. 286, n. 65, p. 287, n. 87, p. 289, n. 158); tuttavia, solo una di queste è identificabile con certezza (si veda cat. XX). I due dipinti sono espressione della grande influenza esercitata dall’opera pittorica e grafica di Rembrandt su numerosi pittori attivi a Venezia tra il secondo e il terzo quarto del XVIII secolo (Robinson 1967), sia per quanto riguarda le scelte iconografiche, come il riferimento in questo caso ai numerosi ritratti di vecchi eseguiti dal maestro olandese, che per l’utilizzo di un marcato contrasto tra luci e ombre. Il soggetto della prima tela è una donna anziana, raffigurata a mezzo busto su un fondo di colore scuro, il cui volto è

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illuminato da una fonte luminosa laterale. La donna, che con la mano destra impugna saldamente un bastone, rivolge lo sguardo direttamente verso l’osservatore. Il dipinto in pendant rappresenta, invece, un uomo anziano, anch’esso ritratto a mezzo busto su un fondo scuro, dal quale emerge il volto assorto dell’uomo che poggia la mano su un libro, parzialmente illuminato dalla luce. Tale iconografia ha suggerito a Franco Russoli (1967, p. 74, n. 1144) di identificare nella figura la rappresentazione di un filosofo, soggetto scelto di consueto per la realizzazione di teste di carattere come questa: un genere che ebbe grande fortuna nel corso Settecento e nel quale si cimentarono e si specializzarono numerosi artisti. Tra loro si distinse il veneziano Giuseppe Nogari, alla cui produzione Mauro Natale avvicinò il Ritratto di vecchia (Natale 1979, p. 95, nota 4), seguito poco dopo da Mauro Lucco, di cui si conserva nel dossier sul dipinto in Accademia Carrara una comunicazione scritta risalente al 1984, secondo cui le due tele “sono quadri tipicissimi di Giuseppe Nogari”. Dell’artista si conoscono diverse opere documentate raffiguranti figure a mezzo busto, variamente corredate da oggetti d’uso quotidiano, una produzione che ci restituisce da un lato l’evolversi del suo stile pittorico, dall’altro lato la grande fortuna dell’artista che esportò le proprie opere in alcune delle maggiori capitali europee (è ancora valido il profilo dell’artista delineato in Pallucchini 1995). La coppia di dipinti presa in esame si inserisce efficacemente nella produzione di Nogari della seconda metà degli anni trenta, prima che il pittore lasci Venezia per Torino tra il 1740 e il 1742 circa, dove è chiamato a lavorare per Carlo Emanuele III di Savoia alla decorazione di una delle sale di Palazzo Reale (sulle pareti del Gabinetto delle Miniature sono ancora allestiti i diciotto vetri dipinti da Nogari con teste di carattere “all’olandese”: cfr. Griseri 1963, p. 88, tav. 104). Le due figure possono essere confrontate con le quattro teste di carattere acquistate a Venezia dal conte Carl Gustav Tessin nel 1736 e ora conservate al Nationalmuseum di Stoccolma. In particolare, il Ritratto di vecchio può essere accostato alla raffigurazione di Uomo anziano con libro (inv. n. NM 112, 55 × 44 cm), per il taglio compositivo e il dettaglio del libro nell’angolo inferiore sinistro delle due tele. Significativo è anche il giudizio espresso dal Tessin in merito alla produzione di Giuseppe Nogari di quel periodo: “veramente ammirevole, scrupoloso, imita la Natura come un fiammingo” (per la citazione si veda Pallucchini 1995, p. 571). Nel corso degli anni trenta il pittore realizzò una serie di ritratti a mezzo busto che ripropose con minime varianti iconografiche nei decenni successivi. Esemplare in tal senso è il dipinto raffigurante una Vecchia con lo scaldino, conservato ora alla Gemäldgalerie di


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Dresda (inv. Gal.-Nr. 592, 59 × 43 cm; secondo Pallucchini da riconoscere tra le opere acquistate da Augusto III di Sassonia nel 1743, cfr. Pallucchini 1995, p. 574): l’impostazione compositiva è la medesima del Ritratto di vecchia conservato in Accademia Carrara, il copricapo indossato dalle due donne è sovrapponibile e anche le misure della tela sono praticamente identiche. Del dipinto di Dresda esiste una replica autografa appartenente alla collezione reale inglese (inv. RCIN 403975, 64,2 × 50,5 cm), datata al 1745 circa, commissione diretta del console inglese a Venezia Joseph Smith. Rispetto alle due opere in esame, il dipinto inglese è caratterizzato da una pittura più chiara e delicata, efficacemente descritta dal suo

Nazari, il pittore a cui storicamente è attribuita la coppia di opere in esame. Ed è significativo che tra i “quadri moderni” acquistati da Francesco Algarotti nel 1743 per la Galleria dell’elettore di Sassonia Augusto III a Dresda figurino opere di entrambi gli artisti. Così le descriveva lo stesso Algarotti a Pierre-Jean Mariette nella nota lettera datata 13 febbraio 1751: “due teste del Sig. Bortolo Nazari, un vecchio e una vecchia: amendue nel gusto della famosa vecchia di Taners [Balthasar Denner, Amburgo, 1685 – Rostock, 1749] che è nella Galleria di Vienna. Del qual Taners sommamente esatto, e infelice nella somma dell’opera, soleva dire non so chi, che e’ faceva per le pulci le migliori mappe del mondo. La qual cosa non si potrebbe già dire delle teste del Nazari, che nulla

più autorevole biografo, Pietro Guarienti, che nelle sue aggiunte all’Abecedario pittorico dell’Orlandi di Nogari scriveva: “celebre Pittor Veneziano, fu alla scuola di Antonio Balestra, in cui, finché vi stette, non diede mai contrassegni di quella egregia maniera, tenera, pastosa e vaga e naturale che da sé si formò dipoi” (Orlandi, Guarienti 1753, p. 235). Sempre Guarienti ci restituisce la notizia del contesto in cui nacque una delle prime serie di teste di carattere dipinte da Giuseppe Nogari, proseguendo nel suo racconto della vita del pittore: “ma arrivato in quel tempo a Venezia il Signor Marchese Ottavio Casnedi intendissimo dell’arte, ed avendo osservato nel Nogari un certo spirito e grazia nel fare le mezze figure, gli diede commissione di farne parecchie […]” (ibidem). Nogari non fu l’unico artista a dedicarsi con grande successo a questo particolare genere pittorico; in quegli stessi anni a Venezia è da segnalare anche la presenza di Bartolomeo

vi perde la massa totale non ostante la estrema finitezza delle parti. / Due mezze figure di un fare morbidissimo perso di contorni, e tutte lavorate di mezze tinte del Signor Giuseppe Nogari pittore naturalista, il quale sopra ogni altra Scuola cerca quella di Fiandra. L’una delle due mezze figure rappresenta un Filosofo, e l’altra un Avaro [si tratta di due opere conservate ora nella Gemäldgalerie di Dresda insieme alla già citata Vecchia con lo scaldino, inv. Gal.–Nr. 590 e 589]” (pubblicata già in Algarotti 1757, I, pp. 329-330). In merito alla comune produzione di teste di carattere, è da segnalare che la riflessione dei due pittori sui medesimi modelli rembrandtiani può avere dato luogo nel corso del tempo a incertezze attributive, particolarmente per quanto riguarda le opere degli anni trenta in cui la pittura di Nogari non è ancora caratterizzata dalle tinte chiare e delicate degli anni successivi. Giulia Salvi

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Bartolomeo Nazari (Clusone, 1693 – Milano, 1758)

Il dipinto, proveniente dalla collezione del conte Giacomo Carrara, fa parte del nucleo fondativo di opere della Pinacoteca. La prima attestazione documentaria risale al 1793, quando Francesco Maria Tassi descrisse la tela in casa

Nazari si dedicò con successo alla realizzazione di piccole teste di carattere, genere che ebbe grande fortuna nella Venezia del Settecento e a cui il pittore si accostava sempre di buon grado, come ebbe egli stesso a riferire in una lettera indirizzata al conte Giacomo Carrara: “se fosse per fare qualcosa di mio capriccio o qualche mezza figura di vecchio e di giovane senza essere costretto a copiare o a star soggetto alla somiglianza, quello lo farei” (Bottari, 1764, IV, p. 75). Si tratta di una produzione legata alla grande influenza che ebbe l’opera pittorica e grafica di Rembrandt in Europa; in Italia, in particolare, il centro di maggiore diffusione fu Venezia, dove gli artisti avevano l’occasione di vedere dal vivo dipinti e stampe del maestro olandese nella raccolta del

del gentiluomo bergamasco, annoverandola tra le opere del pittore clusonese Bartolomeo Nazari. Esaminando la sua ricca e variegata produzione di “leggiadrissime teste fatte a capriccio di bellissime giovinette” e “altre capricciose teste di vecchi barbuti con turbanti e berrettoni in capo, tocchi con grandissima forza e finimento”, il Tassi segnalava al lettore che “si può vedere qui in Bergamo tra le pitture del Co. Giacomo Carrara una di queste teste, dipinta con tanta forza sull’elegante e singolar maniera del Rembrandt, che per tale è stata sempre tenuta da quanti dilettanti e professori l’hanno veduta. Essa rappresenta un uomo sbarbato di mezza età, con capriccioso berrettone in capo, dal quale gli viene con variato sbattimento ombreggiata la metà del volto, e tal accidente è così bene espresso, che non si può vedere cosa più viva e reale” (Tassi 1793, II, pp. 92-93; il dipinto è stato riconosciuto anche nell’inventario della raccolta di Giacomo Carrara redatto poco dopo la sua morte: Borsetti 1796, ms., c. 62; per la trascrizione si veda Giacomo Carrara 1999, p. 286 n. 65). Il bergamasco Bartolomeo Nazari, giunto a Venezia nel 1717 dopo un primo periodo di formazione nella terra d’origine, fu uno tra i più ricercati ritrattisti dell’epoca; con il suo pennello non solo immortalò artisti ed esponenti di spicco del mondo politico ed ecclesiastico della città lagunare, ma riuscì anche a ottenere diverse commissioni da parte dell’aristocrazia inglese (per un profilo completo dell’artista si veda Noris 1982 e, per aggiornamenti, Fisogni 2013). Parallelamente,

console inglese Joseph Smith e in quella del veneziano Anton Maria Zanetti, per citarne alcune (Robinson 1967). Come abbiamo avuto modo di notare nella dettagliata descrizione del Ritratto d’uomo tramandataci da Francesco Maria Tassi, la derivazione rembrandtiana della tela bergamasca è sempre stata di chiara lettura. Oltre alla presenza di alcuni accessori ricorrenti negli autoritratti e nelle mezze figure maschili eseguite dall’olandese, quali il collo di pelliccia o il cappello a falde, ciò che più avvicina la raffigurazione di quest’uomo, ritratto a mezzo busto, alla produzione di Rembrandt è la resa luministica. Dal fondo scuro della tela e tra le variazioni di tonalità marroni dell’abbigliamento, emerge il volto dell’effigiato, parzialmente illuminato dalla luce che mette in evidenza un sorriso appena accennato. Lo sguardo dell’uomo, indirizzato verso l’osservatore, si trova invece completamente in ombra. Il dipinto è stato datato da Fernando Noris attorno al 1735 (Noris 1982, p. 227, con la scarsa bibliografia precedente), per una “certa severità” che lo avvicina ai primi ritratti realizzati dal pittore. Solo qualche anno prima, nel 1733, era stata commissionata a Nazari una serie di sei teste di carattere dal maresciallo Johann Matthias von der Schulenburg (Noris 1982, p. 201, tre delle quali sono riprodotte a p. 245, figg. 1-3; il pagamento è trascritto in Binion 1990, p. 142), a oggi le prime opere documentate dell’artista in questo particolare genere pittorico. Giulia Salvi

7. Ritratto d’uomo, 1735 circa olio su tela, 44 × 34 cm Bergamo, Accademia Carrara inv. n. 58 AC 00158

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Bartolomeo Nazari (Clusone, 1693 – Milano, 1758) 8. Busto di uomo con elmo, busto di donna con turbante, testa di donna chinata, 1735-1745 circa penna, inchiostro bruno acquerellato su carta bianca, 252 × 373 mm firmato in basso a sinistra: “Bortolo Nazzari Fece” Bergamo, Accademia Carrara inv. DIS 00180 9. Teste di carattere (quattro teste d’uomo), 1735-1745 circa penna, inchiostro bruno acquerellato e tracce di matita rossa su carta bianca, 170 × 277 mm Bergamo, Accademia Carrara inv. DIS 00181

I due disegni facevano parte della ricca raccolta grafica del conte Giacomo Carrara, montata dal gentiluomo in parallelo alla collezione di dipinti, tanto che spesso, soprattutto per quanto riguarda gli autori a lui contemporanei, diversi artisti sono documentati in entrambe le raccolte (sulla collezione di disegni del fondatore dell’Accademia Carrara si veda Rodeschini 1999). È questo il caso del bergamasco Bartolomeo Nazari di cui si conserva in museo un piccolo nucleo di disegni raffiguranti variazioni sul tema delle teste di carattere e studi di teste che sono stati restituiti all’artista da Carlo Ludovico Ragghianti (Antichi disegni 1963, p. 33, nn. 272-278). Sul fronte della produzione pittorica sappiamo, invece, che nella Galleria del gentiluomo bergamasco erano allestite ben nove “teste” dipinte dal clusonese (per una di esse si veda cat. x), oltre al ritratto del conte Giacomo Carrara e del pittore Francesco Polazzo (Borsetti 1796, ms., cc. 6, 28, 62, 66, 72; per la trascrizione: Giacomo Carrara 1999, p. 261, nn. 36, 44, p. 272, nn. 14-15, p. 286, n. 65, p. 287, n. 87, p. 289, n. 158, p. 292, n. 76). I due fogli in esame sono da ricondurre alla notevole produzione di teste di carattere a cui Bartolomeo Nazari si dedicò con grande successo dopo il suo trasferimento a Venezia, di cui oggi rimangono poco meno di una decina di esemplari certi. L’attività del pittore in questo campo fu certamente molto più vasta, stando alle parole del suo

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maggior biografo, il bergamasco Francesco Maria Tassi: “molto esercitossi il Nazari nel fare singolare studio sopra teste di giovani e di vecchi prese dal naturale, ornate poi a capriccio con bizzarre acconciature, finite sul gusto fiammingo, con carnagioni tanto vere, e con tanto rilievo e spirito, che sembrano vive; ed in questa sorta di pitture è divenuto singolarissimo” (Tassi 1793, II, pp. 84-85). Come è stato già messo in evidenza dalla critica, il modello di riferimento per la realizzazione delle sue “teste a capriccio”, sia per quanto riguarda il motivo iconografico che per la resa luministica dei volti è da ricercare nelle opere di Rembrandt, di cui erano largamente diffuse nella città lagunare soprattutto le incisioni, ma anche un ristretto numero di dipinti di grande valore che influenzarono molti degli artisti attivi a Venezia nel corso del XVIII secolo (su questo tema si veda il fondamentale saggio di F.W. Robinson 1967). Il richiamo alle figure del maestro olandese è evidente anche nei due fogli in esame. Sul primo sono raffigurati tre mezzi busti, i più interessanti sono l’uomo con l’elmo e la donna rappresentata di profilo con in capo un turbante piumato. Il richiamo a Rembrandt è individuabile non solo nella scelta dei copricapi, tipici del suo repertorio, ma anche nella resa della barba della figura maschile con segni rapidi e minuti, e in quella delle ombre, mediante l’utilizzo di un fitto tratteggio, in più punti acquerellato, con un chiaro richiamo alla ricerca luministica dell’olandese. Il profilo di donna con turbante è stato recentemente messo in relazione anche con la produzione incisoria del genovese Giovanni Benedetto Castiglione (F. Baccanelli in Fra’ Galgario 2008, p. 150, con bibliografia precedente). Lo schizzo di donna chinata, invece, è probabilmente uno studio per una composizione più ampia. Per quanto riguarda l’altro disegno, raffigurante quattro teste virili, di cui una appena accennata, la figura più significativa e ricca di suggestioni rembrandtiane, per la scelta e l’impostazione del personaggio, è quella del giovane uomo con baffi, presentato con lo sguardo rivolto verso l’osservatore e in testa un singolare copricapo. La tecnica usata nel delineare le figure è la stessa del disegno precedente, anche se in questo caso nella bella figura dell’uomo con baffi si scorgono in più punti delle tracce di matita rossa che lasciano supporre un disegno di preparazione. Non è chiaro il motivo per il quale i due fogli siano stati schedati in molteplici occasioni come l’uno il


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verso dell’altro (cfr. Disegni 1962, p. 42, n. 98; Antichi disegni 1963, p. 33, n. 272; Disegni lombardi settecenteschi 1975, s.p.; A. Dorigato in I grandi disegni 1985, scheda n. 66), vista la differenza nelle misure e la mancanza sul retro di segni indicativi di un incollaggio reciproco. Il foglio raffigurante Busto di uomo con elmo, busto di donna con turbante, testa di donna chinata, firmato “Bortolo Nazzari Fece”, costituisce un punto fermo nella rara produzione grafica del pittore e ha permesso di restituirgli anche l’altra opera in esame. Sul retro di quest’ultima si legge un’antica iscrizione a penna che recita “G.B. Tiepolo”, accanto alla quale un’altra mano, più tarda, ha aggiunto a matita “o Nazari?”. I due disegni, insieme ad altri cinque della piccola

sembrerebbe suggerire che questo specifico foglio sia stato acquistato dal gentiluomo bergamasco prima dell’avvio dei rapporti con Nazari, da cui, evidentemente, avrebbe potuto procurarsi o ricevere in dono disegni di sicura paternità. La consuetudine del Carrara con la produzione artistica di Nazari e il suo ruolo di committente e collezionista sono ben documentati, infatti, nel caso dell’attività incisoria del clusonese, come ci testimonia una interessante lettera del 7 maggio 1745 in cui Nazari scriveva: “dall’ultimo foglio gentilissimo di V. S. Ill.ma sento esserle gradito il ritrattino di Francesco Maria Molza inciso in acqua forte più per la maniera, che per la somiglianza. Io non ho mancato di darli un’altra rivista, e ritoccatina; ma chi vuole conservare un

serie conservata in Accademia Carrara, sono stati datati da Francesco Baccanelli agli anni centrali della carriera del pittore, tra il 1745 e il 1750 circa, per le forti analogie con alcuni personaggi raffigurati anche nelle opere pittoriche e nelle incisioni dell’artista (F. Baccanelli in Fra’ Galgario 2008, p. 148; ibidem, i disegni sono riprodotti alle pp. 146, 149-151, 153, 161). Tra questi è compreso anche il Busto di giovinetto con cappello piumato (inv. DIS 01675) che è stato invece avvicinato da Fernando Noris al “tipo di luminosità rembrandtiana [che] è tipico della prima maniera” del pittore (Noris 1982, p. 238; l’ipotesi di collocare l’esecuzione di questo disegno e dell’esemplare firmato in esame negli anni trenta del Settecento è sostenuta anche in Dimitrio 1999, p. 110, nota 5). Lo stretto rapporto di amicizia tra il conte Giacomo Carrara e il pittore, iniziato probabilmente dopo il soggiorno a Bergamo di Bartolomeo nel 1736 e proseguito sino alla morte dell’artista nel 1758 (in merito si veda Dimitrio 2001, pp. 187-194), consente di ipotizzare che almeno una parte del nucleo di disegni nazariani siano un’acquisizione diretta del gentiluomo bergamasco, forse da mettere in relazione con il passaggio di una lettera del 1748 indirizzata da Nazari a Giacomo Carrara, in cui il pittore chiedeva di concedergli “l’onore di poterle presentare una delle mie dipinte teste, o di quelle fatte a capriccio” (Bottari 1764, IV, p. 79). Tuttavia, l’iscrizione “G.B. Tiepolo” sul verso del disegno raffigurante quattro teste d’uomo, vergata forse da Giacomo Carrara stesso (ringrazio Paolo Plebani per la segnalazione),

poco di buona macchia, bisogna assolutamente allontanarsi alquanto dal primo disegno. Per altro la sagoma è la medesima, e non mi pare tanto necessaria l’ultima somiglianza di tal disegno; che se avessi voluto stare a puntino attento, non sarebbe assolutamente ben riuscito, ed ho avuto in considerazione non essere tanto necessaria l’ultima somiglianza di un ritratto, che è molto lontano da’ nostri tempi; anzi in tale incontro basterebbe fare una testa tutta d’arbitrio di un vecchio fatto a gusto del pittore, che in tal caso sarebbe ancora riuscita meglio, e più pittoresca, bastando solo farli quel tale abito, e sagoma con barba, o senza, secondo che dovesse esser il ritratto. Quando poi fosse ritratto di persona vivente, allora sì che converrebbe l’assoluta somiglianza, ovvero che fosse stato riconosciuto prima di morire” (Bottari 1764, IV, pp. 73-74). Dell’incisione si conserva in museo un esemplare, insieme ad altre tre stampe (in più impressioni) sempre di mano dell’artista bergamasco, tutte già di proprietà del Carrara, che sul verso di una di esse ha lasciato una succinta quanto eloquente descrizione della sua attività: “Bortolo Nazari Bergamasco Nativo di Clusone. Pittor ritrattista e di teste a capriccio, intagliatore all’acqua forte fece la presente carta et molte altre ancora segnate come si vede col suo nome B.N.f.” (per la citazione e le stampe conservate in Accademia Carrara si veda Kowalczyk 2002, pp. 356-357). Giulia Salvi

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Giovanni Benedetto Castiglione, detto il Grechetto (Genova, 1609 – Mantova, 1664) 10. Testa di vecchio volto a sinistra e Testa di giovane con il capo reclinato, 1645-1650 acquaforte, 205 x 265 mm (foglio), 110 × 80 mm (lastra) in alto a sinistra, monogramma “GB” seguito dalla firma “CASTILIONE/ GENOVESE” in alto a sinistra, monogramma “GB” seguito dalla firma “CASTILONE [sic]” Bergamo, Accademia Carrara inv. STP 00236 11. Testa di giovane volto a destra, con il capo reclinato e Testa di giovane volto a destra di tre quarti, 1645-1650 acquaforte, 205 x 267 mm (foglio), 110 × 80 mm (lastra) in alto a destra, monogramma “GB” seguito dalla firma “CASTILIONE/ GENOVESE” in alto a destra, monogramma “GB” seguito dalla firma “CASTLIONVS [sic]/ GEONVESE [sic]” Bergamo, Accademia Carrara inv. STP 02125 12. Testa d’uomo nascosta da un cartiglio e Testa di vecchio con turbante volto a destra, 1645-1650 acquaforte, 205 x 265 mm (foglio), 110 × 80 mm (lastra) in alto a destra, monogramma “GB” seguito dalla firma “CASTILIONE/ GENOVESE” Bergamo, Accademia Carrara inv. STP 02126 13. Testa di vecchia volta a sinistra, 1645-1650 acquaforte, 205 x 135 mm (foglio), 106 × 80 mm (lastra) in alto a sinistra, monogramma “GB” seguito dalla firma “CASTILIONE/ GENOIVSE” Bergamo, Accademia Carrara inv. STP 02127

I quattro fogli appartenevano molto probabilmente al notevole fondo di incisioni del conte Giacomo Carrara, da lui costituito sin dagli anni della formazione giovanile come strumento di studio, fino ad assumere in breve tempo un vero e proprio interesse collezionistico, a cui nel corso degli anni settanta del Settecento si sommò un’esigenza didattica, legata all’illuminato progetto di fondare una Scuola di pittura (sulla collezione di stampe del Carrara si vedano Buonincontri 1999 e Civai Bassi 1999). In particolare, le piccole stampe in esame sono da includere in quel gruppo di “incisioni di invenzione o di libera interpretazione dei modelli (…) [eseguite dai] maestri della grande stagione acquafortistica del XVII secolo” rappresentato nella raccolta del gentiluomo bergamasco da esemplari di grande qualità; tra di essi figurano una decina di fogli del genovese Giovanni Benedetto Castiglione, raffiguranti caratterizzati da temi diversi, dagli studi di teste alle scene sacre e profane (Buonincontri 1999, pp. 406-409). Il Grechetto, com’è noto, oltre a essere stato un talentuoso pittore e disegnatore, fu anche un incisore molto apprezzato. Così scriveva di lui Raffaele Soprani, il maggiore biografo degli artisti genovesi: “Tra le molte doti, che possedeva questo insigne Artefice, una molto a lui familiare, ed a’ Professori in sin ad ora da noi descritti poco usitata, fu quella dello incidere egregiamente in rame all’acquaforte sul gusto di Rembrandt. Egli in questo genere tanto valse; che forse in ciò mai altri non seppe meglio imitare quell’esperto Fiammingo. Molte sono le stampe, tratte da’ rami del nostro Castiglione, e donate al pubblico in varj tempi; fra le quali (…) alcune stimatissime teste” (Soprani 1768, I, pp. 312-313). Giovanni Benedetto Castiglione si dedicò largamente all’attività incisoria, in particolare tra il 1630 e il 1655: di questo periodo si conoscono 63 stampe che ebbero una diffusione molto vasta, con tirature anche nei secoli successivi (per un’analisi completa del corpus di incisioni si rinvia al primo catalogo ragionato delle stampe del Grechetto: Bartsch 1821, XXI, pp. 7-24 e Bellini 1982, alla cui

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catalogazione ci si è attenuti per la titolazione delle opere). I sette esemplari di Teste in esame fanno parte della fortunata serie denominata delle “piccole teste all’orientale” o dei “piccoli ritratti” incisa dal Castiglione tra il 1645 e il 1650, iniziata dall’artista quando ancora si trovava a Genova e conclusa durante il suo secondo soggiorno romano (Bellini 1982, p. 106, pp. 114-121, nn. 28-42, pp. 123-125, nn. 33-34, pp. 128-129, n. 37; la datazione alla fine degli anni quaranta è confermata anche dalla critica recente, si veda Castiglione 2013, pp. 87-91, figg. 41-49). La serie completa, composta da sedici stampe, è da accostare a quella quasi contemporanea delle “grandi teste all’orientale”, o “grandi ritratti”. Entrambe denunciano la conoscenza della produzione di piccole teste all’orientale, realizzate a Leida da Jan Lievens (Leida, 1607 – Amsterdam, 1674) e Rembrandt nella seconda metà degli anni venti (in merito all’origine dell’iconografia si veda Mascolo 2021, p. 25), invenzioni da cui sicuramente Castiglione prese ispirazione, ma reinventando i modelli in una maniera del tutto personale. Come è stato già messo in evidenza dalla critica, particolarmente stretto è il legame con l’opera di Rembrandt, di cui Castiglione deve avere avuto modo di vedere le stampe. Oltre al tema dell’indagine del volto umano, ciò che accomuna il Grechetto al maestro olandese è la modalità d’incisione; entrambi incidevano ricercando forti contrasti di chiaroscuro mediante “un tratteggio libero e graffiato e un buon uso del bianco della carta”, caratterizzato da trame molto fitte (Rutgers 2002, pp. 329-332). Ciò che accomuna i personaggi incisi dal Castiglione è una sottesa atmosfera di esotismo e mistero, particolarmente evidente nella Testa d’uomo nascosta da un cartiglio (l’unico esemplare della serie in cui mancano monogramma e nome dell’artista), in cui del volto dell’uomo si vede solo una piccolissima porzione e l’ingombrante turbante che porta sul capo; la gran parte dell’incisione è dominata da un anonimo cartiglio retto con una mano dal nostro sfuggente personaggio. Giulia Salvi

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