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alessandro romeo:editoriale Quelli di inutile non vanno in ferie. Cioè ci vanno, ma ad agosto. Che poi non saranno vere e proprie ferie perché il sito sarà aggiornato come sempre due volte a settimana, ma insomma non è questo il punto. Il punto è che voi siete in ferie. E avete molto tempo libero. E magari vi state arrostendo al sole. E state pure pensando che tutto sommato una bella rivista in carta bianca può aiutarvi nei vostri melaninici intenti. Ed è lì che vi fottiamo di brutto. Perché ‘sto giro (ablativo assoluto) vi schiaffiamo una copertina a colori della madonna. E ‘sti cazzi (ablativo assoluto plurale) che vi abbronzate! Ma si diceva, appunto, che voi siete in ferie. Ed è per questo – cioè per farvi divertire il triplo – che inutile diventa improvvisamente di dodici pagine. Numero speciale, quindi. Tutto narrativa, con la complicità dell’occhio e del dito indice di Giulio Bassi a intervallare questa valanga di parole con qualche bella foto. Ad aprire le danze un raccontino di Max Collini (sì, quello degli Offlaga, puttanazza!) seguito da Enrico Piscitelli che ci regala l’incipit del suo prossimo romanzo (MANUALE DI FISICA PER GIOVANI SCRITTORI). In terza posizione un racconto dell’uomo che si aggiudicò il premio del più bel racconto della storia di inutile (premio che consiste in amore fortissimo più una pizza che gli offriremo alla prima occasione): l’adorabile Marco Montanaro. A pagina 6 una prodezza di Massimiliano Nuzzolo seguita da un diamante di Lisa Pietrobon. In chiusura un altro memorabile affondo di Alessandro Milanese (il nostro uomo di fiducia), in compagnia di uno svolazzo finale di Matteo Scandolin (il nostro uomo e basta). Che dire d’altro? Beh... come nelle grandi occasioni, l’incasso verrà devoluto in opere di bene, tipo l’acquisto di un toner per la copisteria che si accollerà l’impresa di stamparci tutto questo rosso. Ma si sa che il rosso è il colore dell’amore, e inutile deve tutto all’amore. Anzi, all’ammmore, con tre emme. Perché se lo scriviamo con due emme dobbiamo poi pagare i diritti d’autore a Erri De Luca. Quest’ultima frase era per far apparire il nome Erri De Luca nell’editoriale.
max collini:borghesia Dentro al televisore del servizio all’orientamento scolastico e professionale della Amministrazione Provinciale di Reggio Emilia, ufficio noto al pubblico con il nome di “Polaris”, leggo un dato che mi appare incredibile: la Lega Nord in Lombardia ha preso il 25%. Sono un obiettore di coscienza, mi sono piazzato in questo ufficio grazie al PCI, è il millenovecentonovanta e il mio disco preferito del momento è quello degli Stone Roses. L’obiezione di coscienza è un periodo abbastanza inutile e faticoso per me. Ho poco più di vent’anni, vivo da solo e nel posto dove mi hanno assegnato cerco di stare il più defilato possibile sperando nella protezione dell’assessore per evitare troppi impegni. Di sera in birreria mi guadagno i soldi dell’affitto e me ne vado in giro con una 127 scassata. Sono magro. Se annuso bene l’aria sento l’odore del socialismo in un solo quartiere: il mio. Sta cosa della Lega Nord non mi piace nemmeno un po’. Per quanto mi ingegni per evitare eccessivi sforzi adesso che è estate alcuni operatori sono in ferie, ergo mi hanno imposto qualche corvèe in più. È tempo di orientamento post-diploma, io faccio finta di fare l’università e dicono che ho qualche competenza da mettere a disposizione dei diciannovenni maturati adesso. Luglio inoltrato, giovedì pomeriggio, perfino la caposervizio desiste e oggi marca visita. Polaris è un deserto, finestre abbassate, speriamo che pensino che sia chiuso e che arrivino le cinque molto presto. Resto da solo a tenere aperto al pubblico. Sono tutti in vacanza. Quasi mi addormento sulla bella poltrona della mia scrivania provvisoria quando entra una signora elegante, molto elegante. E molto bella. Mi sento un po’ sgangherato al suo cospetto, sono un tipo un po’ grunge prima del grunge e i miei jeans sdruciti e il ciuffo incolto non le faranno certo una gran impressione. È pur sempre un servizio pubblico, perdio... Fa finta di niente e mi parla della sua figliola che vuole iscriversi a non so che facoltà. “Avete materiale informativo? Depliant? Consigli?” Come no, siamo qui apposta. Borghesi, tutti appesi... Intanto dentro di me penso che se la figlia è come la mamma siamo a posto. La signora della Reggio-bene è gentile, affabile. Mi guarda più rilassata, forse il mio eloquio in italiano quasi corretto la rende meno diffidente. Nella penombra delle quattro del pomeriggio facciamo più o meno amicizia. Mi dà del tu – io del lei ovviamente – e non abbiamo niente da fare nessuno dei due. Passa mezz’ora, parliamo di tutto, anche della Lega Nord. Quasi ho il sospetto che sta tizia elegantissima e firmata voti addirittura a sinistra. Mi sento toccare la gamba sotto la scrivania. Ma dai. Sarò anche un ragazzo carino, ma che la quarantenne ci provi con me è molto improbabile. Oddio, mai dire mai, ma è troppo precisa e abbottonata per poi fare la draga con uno adatto alla figlia molto più che alla mamma. Sono paralizzato, non dico niente, lei non cambia
inutile:
opuscolo letterario
luglio 2008
supplemento al n. 789 di PressItalia.net registrazione al tribunale di Perugia n. 33 del 5 maggio 2006
la redazione {responsabile editoriale} alessandro romeo {caporedattori} ferdinando guadalupi gabriele naia daniele pirozzi {ufficio stampa} viviana capurso {elena borghi arturo fabra virginia paparozzi matteo scandolin} impaginazione e grafica matteo scandolin ha collaborato giulio bassi, max collini, alessandro milanese, marco montanaro, massimiliano nuzzolo, lisa pietrobon, enrico piscitelli foto giulio bassi wild wild web www.rivistainutile.it www.myspace.com/rivistainutile www.birrariviste.it www.offlagadiscopax.it www.flickr.com/photos/jmbo82 milanoromatrani.wordpress.com
inutile è aperto alla collaborazione
di tutti. Siamo interessati a qualsiasi elaborato vogliate proporre: un racconto, una poesia, un articolo, un saggio, recensioni, foto, fumetti. Spedite il vostro materiale all’indirizzo collaborare@rivistainutile.it. Se sull’opuscolo non c’è modo di proporre i vostri pezzi, verranno pubblicati sul nostro sito.
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espressione, continua a parlare come se nulla fosse. Che freddezza. Si vede che è esperta. Il contatto è durato solo un attimo, magari non ha fatto apposta e non se ne è accorta. Pochi secondi e mi sto già riprendendo dalla sorpresa. Mi sento toccare ancora. Stavolta molto più pesantemente di prima. Nessuna donna mi ha mai fatto piedino in vita mia. Ma guarda che situazione. Sono lusingato signora, ma sono iscritto al Partito Comunista e sono troppo giovane per lei, cosa si è messa in testa? Non dico niente di tutto questo in realtà e penso vorticosamente. Non sono preparato, non so cosa dire o fare. La guardo e lei continua a comportarsi come se niente fosse, mi parla del marito, della figlia e non la seguo più. Mi sento male. Imbarazzo pazzesco. Ho paura. Di cosa non so, ma mi sento inadeguato alla situazione. Lei invece non pare avere alcun patema, una cosa normale. Ma come fai? Ma come faccio? Smette. Mi batte il cuore. Non ascolto più il suo fiume di chiacchiere.
Mi sto arrabbiando. Ma come si permette? Mi calmo un secondo, riprendo possesso di me. Al massimo la sbatto fuori dall’ufficio e amen. Cazzi suoi. Ma che gente c’è al mondo. Proprio vero: borghesia decadente e corrotta. Ma vergognati va. Sei vecchia per me oh! Speriamo che finisca qui. E invece di nuovo. Stavolta è un contatto pesante, mi struscia tutta la gamba e non posso più ignorare cosa sta succedendo. Ho un impeto di fastidio e quasi mi alzo dalla sedia indignato, sto per farfugliare qualcosa. Insomma, pietà, basta. Invece di alzarmi allontano la sedia dalla scrivania e guardo sotto. Meno male che non ho detto niente. Arrossisco come uno scolaretto. Sotto la scrivania c’è un orrendo barboncino accovacciato che gioca con la mia gamba. L’assatanata non lo è poi così tanto infine. Si è portata il cane, ma non me ne sono accorto. La signora mi guarda e vede che sono diventato viola. Le dico che il cane non può stare lì e che la prossima volta sarà meglio mandare a Polaris direttamente la figlia, che poi magari ci penserò io a orientarla come si deve. Arrivederci. Appesi. Tutti appesi.
enrico piscitelli:manuale di fisica per giovani scrittori
Bjorn Borg si allenava contro un muretto a secco, pietre, una sull’altra: ogni palla a rimbalzare in un punto caotico dello spazio non prevedibile. Che, insomma, se sei un tennista È la ragione per cui ci giochi, a tennis, il solo momento che abbia davvero senso, alzare QUELLA coppa. Vincere. Wimbledon. Ci sarà un nuovo vincitore, quest’anno; gli americani Connors e McEnroe, il tedesco Bumbum Becker (che l’ha vinto l’anno scorso, a diciotto anni, per la seconda volta di fila): battuti, tutti. Non tocca a loro, non quest’anno. Palleggiano a fondocampo i finalisti. Riscaldamento preliminare: si comincia con dritto e rovescio, poi a rete, a turno; infine si prova il servizio. Palleggiano Pat Cash e Ivan Lendl. Per Lendl, cecoslovacco con passaporto americano, è la seconda finale consecutiva; ha già vinto il Roland Garros – tre volte – e gli US Open – due.
CAMPO CENTRALE DI WIMBLEDON, 6 LUGLIO 1987. Quando Boris Becker è uscito di scena nella prima settimana di Wimbledon, Lendl ha avuto la strada spianata verso la vittoria del torneo. Deve essere considerato il favorito nella finale di domenica contro l’australiano Pat Cash, un ventiduenne emotivo che si troverà a trascinare un carico pesante sul campo centrale. {PETER ALFANO, «New York Times», 5 luglio 1987}
È luglio ed è il 1987. Questo è il campo centrale dell’all england Lawn Tennis and Croquet Club. Questo è Wimbledon, IL torneo, che se sei un tennista e hai passato la vita a giocare, a Singapore, Hong Kong, Sidney, Tokio, Barcellona, Las Vegas; o nei campetti, quelli che la rete esterna è sempre bucata e le palline devi camminare ore per ritrovarle; o contro un muro, per ore a sfidare la tua ombra –
Pat Cash, l’australiano, non ha mai vinto niente. Tutto esaurito, non c’è un buco nel campo centrale; in tribuna autorità – che poi siamo in Inghilterra e si chiama palco reale – ci sono il duca e la duchessa di Kent (è lei che premia i vincitori del torneo); c’è Lady Di, già maritata, già principessa, con splendidi enormi occhiali da sole – montatura bianca. Margaret Thatcher: c’è anche lei; è stata rieletta a giugno, è al terzo mandato consecutivo, molti credono che sia immortale, scampata a tutti i tentativi dell’IRA di scalfire la sua corazza di ferro, demoliti tutti i minatori, che ormai non fanno più un giorno di sciopero. Johnny Carson si è appena seduto – no, lui non è nel palco reale, non è english e non è duca e non è conte, è solo il numero uno della tivì americana, col suo Tonight Show. Intorno, tutti lo guardano e sorridono: già sanno, gli altri, i non famosi, che farà una delle sue memorabili battute. Sui capelli (inguardabili) di Pat Cash – corti avanti lunghi dietro, coperti da una bandana a scacchi [bianco e nero, bianco e nero, bianco e nero]; o su uno dei tanti tic di Ivan Lendl: si asciuga coi due polsini, prima destro poi sinistro; separa le corde (con indice e pollice) della racchetta Adidas; si devasta le ciglia, tentando di strapparsele, una alla volta ecc.
marco montanaro:F E dunque, pensava Ferdamyr osservando il cono lunare frammentarsi in più livelli paralleli e ricurvi sull’acqua torbida e gonfia del fiume, dunque qui si ragiona di felicità. E la felicità sembra essere la risultante dell’infelicità comune di questa terra inesplosa e abitata di rovine. E la soddisfazione personale, anche quella, la risultante della media delle insoddisfazioni comuni. Poteva esserci davvero felicità o soddisfazione nella vita di Ferdamyr?
Lendl deve vincere: sta scritto. Ha fatto costruire un campo in erba nella sua villa in Connecticut; c’ha piantato gli stessi semi che utilizzano i giardinieri dell’all england Lawn Tennis and Croquet Club – proprio gli stessi, nel senso di: presi dagli stessi sacchi, nati dalla stessa identica pianta; ci gioca con Tony Roche, su quell’erba, che due decenni prima l’ha vinto per sette volte IL torneo – quindi: paga Roche solo per poterci giocare contro; sulla stessa identica erba del campo centrale di Wimbledon; di continuo. È un maniaco, un fissato ed è chiaro a tutti cosa tormenta il suo sonno. L’uomo sul seggiolone si chiama Stephen Winyard (Junior), è inglese, ha una giacca verde ed è il giudice arbitro. Chiama la fine del riscaldamento. Tutti fanno silenzio, Margaret Thatcher, Johnny Carson, Lady Di, i ricchi e i potenti. E gli altri, pure. Dopo due settimane di calpestii e strisciamenti l’erba lungo le linee di fondo è sparita; al suo posto c’è un terriccio arido. Pat Cash serve: centrale, forte, tagliato; e fa il primo punto. Per entrambi è l’ultima occasione, l’australiano e il ceco-americano non giocheranno mai più una finale a Wimbledon. Tutti sono ancora convinti che Ivan Lendl vincerà.
Tanto più che pure i suoi amici di sempre, Frantyseck e Frederich, non erano altro che lo specchio dei suoi fallimenti, uno sguardo macabro sui punti oscuri di una vita comunque issata come una bandiera nera su un palo di grovigli di rovi e rampicanti. A chi giovava dunque, pensava Ferdamyr dall’osservatorio privilegiato che era la balaustra del suo appartamento, a chi giovava obbligarsi a guardare indietro verso una vita che più che a una linea retta sembrava ispirarsi alle onde di un sismografo, tanto più quando l’attenzione
cadeva sui picchi più bassi e misteriosi della sua esistenza? Del resto Ferdamyr apprezzava una sola cosa di sé: l’aver fatto sempre i conti con i suoi fallimenti da solo, in proprio, senza che nessuno dovesse puntare il dito oppure obbligarlo a chinare il capo in quell’antro oscuro che sono i rimpianti. Erano tutte davanti ai suoi occhi, queste cadute, come dipinti di Gauguin, sinistri e inspiegabili nonostante il sole e l’esotismo, ed erano fallimenti con cui chiunque avrebbe felicemente fatto a meno di confrontarsi. Il suo impiego al Ministero della Difesa era stato ottenuto per tramite d’uno zio in odor di nomina ed era uno di quei lavori che servono a tirare avanti piuttosto che a ricercare felicità o soddisfazione personale. La sua carriera politica era stata abbandonata senza un
motivo particolare, per lo meno nessuno di quei motivi apparenti che recano sollievo – “non si poteva più andare avanti”, “non vi ero tagliato”, “in fondo volevo altro”. Si trattava semplicemente della noia di trovarsi in disaccordo coi suoi stessi principi, quando Ferdamyr veniva a contatto con gli esponenti del suo partito di destra. Lui, discendente di un repubblichino intenditore d’armi e donne straniere, finiva col trovarsi sempre più al centro rispetto ai suoi compagni di partito, e mai avrebbe potuto sopportare l’idea di trovarsi un giorno a sinistra solo per contraddire qualche vecchia conoscenza. Il bisnonno, morto per Salò, ne sarebbe morto una seconda volta, se possibile. E così era anche per il più sonoro dei suoi fallimenti, che aveva avuto eco persino negli uffici del Ministero. Ferdamyr e sua moglie
Fedora erano stati un esperimento mal riuscito, un’unione inspiegabile che aveva vacillato dal primo giorno fino a crollare come un regno rovesciato col sangue e le baionette. E proprio dalle stanze del Ministero tutto era cominciato, col tradimento di Fedora con l’ufficiale che lavorava al fianco di Ferdamyr. E Ferdamyr, che non era bravo nel chiedere e rendere conto, aveva scelto il silenzio. Il silenzio impone responsabilità, questo era sempre stato il suo pensiero. Ma il silenzio aveva solo avuto l’effetto di mutare il comportamento di Fedora. Che non parlò, né spiegò, né fece riferimento ad alcuna infedeltà, rimanendo muta per un lungo periodo; poi un giorno la donna comprese che rischiava di perder tutto, dall’amore del marito fino all’appartamento nel centro della città, e passò ai fatti. Si mostrò nuda sul letto dopo mesi che il suo corpo non reclamava quello di Ferdamyr e si lasciò prendere. Più e più volte, affinché ogni macchia venisse lavata dall’amore plastico di due corpi alla ricerca di un terreno comune e razionale. Ferdamyr aveva pensato che fosse una cosa buona. E credeva ancora nell’esperimento.
«Mi hai riconquistato mostrandoti per quello che sei, una splendida donna», aveva detto dopo gli amplessi, certo del profilo alto e profondo del suo discorso amoroso, «ma ora vorrei che ti mostrassi per ciò che io vedevo un tempo: non una donna, ma la donna, la donna ch’io amavo». Fedora si trovò a rivedere tutta la sua scala di valori, fino a stimare ben poca cosa le certezze che il marito le assicurava. E andò via, rivestendosi in fretta. E dunque, pensava Ferdamyr quella sera cercando inutilmente una crepa nella piana di marmo ch’era il fiume notturno, dunque la vita d’un uomo è un farsi tirare indietro, un lasciarsi obbligare a credere che la vita stessa sia un’esperienza sempre esposta alla frana e all’incertezza sismica? Val la pena d’inseguire solo la felicità relativa accompagnandosi a gente infelice comunque pronta a condividere almeno un fattore dell’operazione in questione, e cioè la propria, stessa, virale infelicità? Interrogò a lungo il fiume, ma il fiume non rispose.
massimiliano nuzzolo:il maestro e l’allievo
L’allievo, il giovane promettente allievo che lo seguiva ovunque andasse, si fermò un attimo a guardarlo. Posò a terra il pesante secchio d’acqua che portava con sé - riempito per il suo maestro presso la fonte giù a valle - e lo vide là sopra: avvertì quel silenzio e, in punta di piedi, si incamminò faticosamente per la salita senza dire una parola, con la ferma intenzione di non fare alcun rumore.
«E io non so perdonarti di essere in ritardo» interruppe Lord Henry, mettendo una mano sulla spalla del giovane e sorridendo. {Oscar Wilde}
Il maestro stava seduto in cima a una rupe proprio in faccia al mare. Scrutava l’orizzonte come un Auspice, quasi fosse capace di prevedere il futuro dai segni della natura, semplicemente osservando le onde che una dopo l’altra tornavano a riva, il cielo algido del nord, il volo basso degli uccelli. Le gambe a penzolare nel vuoto, cullate dal vento, strisciavano sulla parete bianca levigata dall’erosione di secoli e creavano allegri giochi d’ombre.
Fu allora che un gabbiano abbandonò i suoi compagni. Virò nel cielo senz’alcun apparente motivo (solo il maestro avrebbe saputo scorgerlo), scese in picchiata e quasi gli sfiorò il volto. Il giovane, spaventato dall’animale, fece un brusco movimento. Rovesciò l’acqua fresca e scivolò insieme al
secchio sulle pietre acuminate della salita ruzzolando meschinamente a terra per qualche metro. Il maestro rise. Aveva osservato tutta la scena dall’alto. L’allievo si rialzò goffamente e controllò i danni: il secchio giaceva al suolo fracassato, l’acqua ora bagnava quella terra arsa dal sole e le sue ginocchia, rosse di sangue, bruciavano come la lingua d’un diavolo. Il maestro rise ancora. Rumorosamente. La sua risata riecheggiò a lungo sul mare. L’allievo lo guardò. In silenzio. Lo vide là in alto. Imperturbabile, emanava serenità da tutti i pori. L’allievo pensò che certo non poteva serbare rancore a quell’uomo, la sua guida nella conoscenza, il mentore della sua creatività eccetera. Lui l’amava come si ama un padre, un amico, un fratello maggiore ma proprio come questi spesso non riusciva a capire. Che c’era da ridere ora? Lui perdeva sangue e quello rideva. «Sei stato avventato... Ecco cosa succede a correre sui sassi quando appena riesci a camminare da solo. E quel gabbiano poi? Quella tenera creatura marina, che male poteva farti? Invece tu hai avuto paura. Una paura tremenda, disarmante, che ti ha fatto mettere il piede in fallo e rovesciare l’acqua preziosa raccolta a valle e che ora abbiamo perso» ecco cosa avrebbe detto, senza scomporsi, una volta raggiunto in cima alla roccia. E avrebbe continuato: «Nella vita come nell’arte occorre imparare prima di tutto, poi l’esperienza ti garantirà di stare in piedi in maniera stabile e di muovere sicuro i primi passi...». Un sorriso ancora e un’occhiata in assoluto silenzio: i loro occhi si sarebbero incontrati là in alto.
Tra cielo e mare, un momento solo. L’allievo avrebbe abbassato lo sguardo senza il coraggio di affrontarlo. Il maestro si sarebbe librato in qualche digressione storica, avrebbe tenuto una piccola lezione sulla Natura e sulla fisica, sparato nel vento qualche citazione e tutto sarebbe tornato a posto. Tutto identico a prima. Eccettuate le sue povere ginocchia. L’allievo pensò a questo mentre toglieva la maglietta nera: il suo maestro era un uomo straordinario, aveva sempre una frase adatta per ogni situazione. S’asciugò il sangue. Soffiò sulle escoriazioni e pensò a quanto bello sarebbe stato fare un tuffo nel mare, un tuffo rinfrescante, un bagno in mezzo ai profumi di quella ridente località che il sole di mezzogiorno aveva reso insopportabile. Zoppicando raggiunse la cima della roccia pronto a ricevere il dovuto rimprovero. Il maestro stava ancora là, immobile aveva ripreso a scrutare l’orizzonte. L’allievo abbassò gli occhi alle sue ginocchia sbucciate che lo facevano assomigliare a un bambino indifeso. Guardò il maestro assorto in quella posa statuaria, tanto ricca di aponia e atarassia. Guardò nuovamente le sue ginocchia: il sangue colava lungo le gambe formando piccoli fiumi rossi e densi che gli facevano uno strano doloroso solletico. Guardò il maestro, la sua bocca pronta a parlare e a redarguirlo duramente e, con un unico secco gesto, lo spinse giù. E lo fissò mentre precipitava in mare dopo essersi schiantato ripetutamente sulla roccia: rimbalzava come un armadio. Sì, un vecchio armadio di legno massiccio. Massiccio ma non indistruttibile. «Mai stare seduti su un precipizio» disse con la voce ferma che gli usciva dal petto e gli occhi fissi sull’acqua, nel punto esatto in cui il suo maestro si era inabissato. Rise e se ne tornò a casa. Gli era venuta una gran fame.
lisa pietrobon:quello che non puoi ricordare
Ricordo così tanto di te, di noi, che potrei riempire un libro con le tue storie.
Ricordi? Quand’eravamo ragazzi, a volte, prendevamo la bici, la domenica pomeriggio, e andavamo a infilarci su per ripide stradine di montagna in cerca del posto perfetto da cui guardare il panorama della valle senza trovarlo mai. Ci fermavamo ad un certo punto della nostra biciclettata vinti dal caldo e dalla fatica e tu dicevi “Facciamo una pausa”. Tiravi fuori dalla tasche un pezzo di fumo e con l’accendino davi inizio alla scrematura, poi, con mani sapienti, ribaltavi il tutto in una Smoking Gold farcita con la mista e il filtro che, nel frattempo, io preparavo. Tu mi mostravi ammirato un panorama che non c’era ma che a noi, ugualmente, sembrava bellissimo, vuoi per la stanchezza, vuoi per l’immaginazione che andava a rimpiazzare l’effettiva mancanza di un belvedere, vuoi per l’hascisc che, volenti o nolenti, non tardava a fare il suo effetto e a rapire, a piccole dosi, le nostre menti. Ricordi, vero? Sono certo di sì. Ci sono state milioni di volte in cui il tuo sguardo si soffermava fisso su qualcosa e io ero convinto di leggervi i tuoi pensieri, chiari come in un foglio di carta scritto in stampatello a caratteri grandi. Quelle volte che tu, d’estate, arrivavi sotto casa mia e sghignandoti, mi mostravi l’alone di sudore di sudore sotto l’ascella, testimone di una giornata di fatica, fiero come il guerriero che porta al villaggio gli scalpi dei nemici. Quelle volte eri il migliore. Io ricordo anche di quando ti alzavi e prendevi a cantare dimenandoti nel mezzo dei nostri amici senza metterci molto a contagiarli con la tua dilagante allegria. Trascinavi le persone attorno a te nella spirale psichedelica e affascinante dei tuoi pensieri senza nemmeno immaginare il fascino che esercitavi. Sono sicuro che anche tu te le ricordi queste cose.
Quand’ero più giovane ogni tanto prendevo la bici e venivo a trovarti, sfidando il sole cocente d’agosto o le intemperie invernali, macinando i tre o quattro chilometri che ci separavano. Avevo sempre molta voglia di stare assieme e raccontarti qualcosa anche se non potevi rispondere. Lasciavo la bicicletta fuori dal cancello e mi avviavo verso il tuo posto, mi sedevo lì accanto e tra una sigaretta e l’altra, una birra e l’altra e talvolta anche tra una canna e l’altra, stavo a farti compagnia per qualche ora. Quasi sempre facevo scivolare qualche foglio di carta con scritti alcuni pensieri nel vaso accanto ai fiori e mi sentivo un po’ meglio allontanandomi per tornare a casa. Presa la bici e iniziata la pedalata una canzone mi martellava la testa e rimbalzava da una parte all’altra del cervello, inghiottendomi. Sempre. Ogni volta che me ne andavo da te. So, so you think you can tell Heaven from Hell, blue skies from pain. Can you tell a green field from a cold steel rail? A smile from a veil? Do you think you can tell? And did they get you trade your heroes for ghosts? Hot ashes for trees? Hot air for a cool breeze? Cold comfort for change? And did you exchange a walk on part in the war for a lead role in a cage?How I wish, how I wish you were here. We’re just two lost souls swimming in a fish bowl, year after year, running over the same old ground. What have we found? The same old fears, wish you were here. Questi versi mi martellavano il cervello e mi rendevano faticosa la pedalata. Le lacrime mi toglievano la vista e la lucidità e il respiro si faceva affannoso. È che tu questo non te lo puoi ricordare. Non lo puoi ricordare perché te ne eri già andato. Questo non lo sai. Tu non la conoscevi nemmeno la strada che facevo per venirti a trovare. Non la conoscevi nemmeno la strada per il camposanto.
alessandro milanese:stropicciata Stropicci gli occhi, li stropicci più volte, stenti a crederci a quanto sembra. Hai un’espressione strana, corrucciata, stai studiando cosa dire, stai cercando le parole, stai riflettendo sulla situazione. Ti riappoggi alla sedia, lasciandoti andare all’indietro, sospiri. Tue le braccia tese, tue le mani sul tavolo, tengono la foto per i lati corti. La guardi ma non la osservi. Contiamo fino a cento? Non osservi una tua foto, una foto bellissima, scurissima, lo sfondo nero si mixa coi capelli, il bianco del viso illumina nel mezzo, gli occhi danno il senso della profondità. Sorridi al fotografo improvvisato, lo fissi leggermente dal basso, inclinando la testa di pochi gradi, pochi ma efficacissimi gradi. I gradi della perfezione, della verità, i gradi esagerati di questo stanzone che osano chiamare pizzeria. Sei tavoli, un bagno, un bancone, un forno, una coppia lesbica al timone. Decisamente un posto
inusuale per un primo appuntamento, che a giudicare dal tuo silenzio non promette niente di buono. «L’ho rubata mesi fa, nel bar dove ci siam conosciuti, dalla bacheca.» La situazione non sembra migliorare, spingi il corpo in avanti, appoggi i gomiti al legno, alzi gli occhi dalla foto e li infili nei miei in silenzio. Un’aria severa, sembra un interrogatorio a cui rispondo senza omettere niente, voglio vuotare il sacco. «Beh, ho visto le foto di tutti i clienti fissi, ho visto la tua, era troppo bella per lasciarla lì.» La severità apre un varco nell’angolo del labbro. Si apre o cerca di farlo per liberare una risata, che si trasforma solo in una smorfia figlia di un sorriso abortito, figlia di un aperitivo pesante in cui abbiam sì e no aperto bocca. Un paio di bicchieri di Ruché a testa, in mezzo a tanta indecisione, in mezzo a sacchi di vigliaccheria, in mezzo a una discussione che non decollava, che non partiva mai. Perché sapevo bene che prima o poi avrei estratto dal mio cilindro catastrofico
questa istantanea stropicciata. «Lo so, lo so, fa un po’ stalker, un po’ serial killer, ma quando l’ho presa non ci ho pensato, l’ho fatto e basta, chiamalo istinto se vuoi.» Appoggi la foto al bicchiere ancora vuoto, proprio in mezzo a noi. Spingi con gli avambracci, il rumore della sedia che avanza copre quello del bacio, veloce asciutto elementare. Come i primi bacini alla cugina estera, le prime finte dimostrazioni di affetto. La smorfia ha guadagnato centimetri, la mia ha scoperto i denti. «Beh, pensavo la prendessi peggio.» Abbasso lo sguardo compiaciuto, giusto in tempo per la risposta. «Di tutti i coglioni che vogliono scoparmi, sei sicuramente il più patetico.» Le braccia si ritraggono per lasciar spazio alla pizza in arrivo, si immergono nuovamente in un maglione verde militare che perde pelo in abbondanza, ma che fortunatamente scopre una buona parte della spalla sinistra affrescata da un paio di nei. Abbinato a un jeans nato vecchio, scolpito nei fianchi e nel fondo schiena, che termina in anfibi granata, spelati e leggermente decolorati. Come la faccia pallida, bianca come il latte, riscoperta spostando il ciuffo, giusto per riuscire ad addentare la cena. Io, come i grandi del basket, faccio un personalissimo no look, taglio con precisione artigianale una prosciutto crudo e grana mentre guardo da tutt’altra parte. Verso la mano che estrae una forcina, da quel sacco scuro che chiami borsa, per impedire alla cute di far parte del condimento, già scarso di suo. Ma la cosa non ci turba. Come non mi turba un conto senza alcun senso. Pago in fretta e non commento. Tu saluti mentre son già sulla porta.
In strada mi raggiungi, mi spintoni con la spalla mentre camminiamo alla ricerca del mezzo, e in quei cento metri mi chiedo mille volte cosa succederà adesso, cosa dovrei dire, fare, adesso. Adesso. Infili la chiave nella portiera, fai segno di salire, accendi e rapida parti. Sorpassi la mia macchina parcheggiata, esci dal centro e scappi con la nuova statale verso la periferia in cui abiti. I lampioni mi vengono a trovare ogni cinque secondi, illuminando un pezzo di vetro giusto sopra di me, allacciato con cura maniacale. Aspetto che venga il mio destino, un destino periferico, di casa bassa molto bassa, piccola, con la rete metallica verde, una porticina arrugginita fissata con un lucchetto grande da bici. Un vero antifurto del ventunesimo secolo, un vero appartamento del secolo scorso, muri enormi, spessissimi, altissimi. Un salone freddo da far rabbrividire, pochi mobili di legno scuro ereditati da inquilini ormai lontani, nello spazio e nel tempo. Un lavello da cucina, un fornetto striminzito, poster e foto ovunque, giornali, quotidiani, carta straccia, libri, vinili, cd. Un bailame di cose, oggetti, passato. «Vieni, ti faccio vedere una cosa.» Seguo il taglio alla Winona Ryder. Entri in una camera più piccola. Arrivo anch’io e mi metto al tuo fianco, al buio. Sento il tuo respiro al gelo mentre scatta l’interruttore. Luce su una minuscola stanza da letto, una brandina e un comodino sovrastati da una enorme foto. La tua foto, quella foto. Una gigantografia, liscia, perfetta, non stropicciata. Vorrei urlare qualcosa ma mi esplodo dentro. Mi avvicino e fisso da non più di mezzo metro, immobile.
Anche quando cominci, con lentezza insopportabile, a togliermi questa finta camicia di Calvin Klein comprata in un saldo invernale. Un colore non bene identificato, tipo marrone acerbo. Anche quando cominci, leggera, a baciarmi le spalle chiazzate da buffi peli chiari, a mordermi il collo con cattiveria e ruffianeria, degna di una donna scura.
Degna della regina delle donne scure. Degna di te, che mi sbottoni con cura, scivoli una mano nei pantaloni, i miei. I tuoi, gli occhi diametro diecicentimetri in fronte a me, che mi sento piccolo. Solamente piccolo, decisamente piccolo, esclusivamente piccolo, davanti a tutto questo.
matteo scandolin:primo discorso su venezia
«Probabilmente voleva sapere se poteva provarci con te, o se avrei rotto i coglioni.» Alzo le spalle. Lei scrolla appena i capelli. «Non credo. Gli è passata molto tempo fa.» «Non gli è mai passata.» «Guardalo qua,» dice. «Quando aveva ancora i capelli lunghi,» e sorride. Erano giorni che non sorrideva. «Te lo ricordi, qui?» Mi porge la foto. Lei, io, Carlo e un altro paio di nostri amici di cui adesso non ricordo i nomi, ma che dovevano essere piuttosto importanti, a giudicare dalla maniera in cui stavamo tutti abbracciati. Giulia aveva i capelli neri, all’epoca, è vero, quasi me n’ero dimenticato. Aveva la maglietta giallo paglia che le piaceva tanto. Uno sguardo diverso. Mi alzo, non le restituisco la foto. Vado alla finestra e vedo i tizi della Vesta, pantaloni verdi e pile viola che sistemano le passerelle. E la sirena suonare di nuovo. «Togliti la giacca,» dice. Ma neanche mi guarda. Io invece guardo la foto. E non so perché, ma sento la voce di Carlo dire “depauperare”. Non credo l’abbia mai detta quella parola, quantomeno non di fronte a me. Però è come se lo sentissi dire, “depauperare”. Forte e chiaro. «Amore? Secondo te eravamo più felici?» Mi volto a guardarla, lei e la sua domanda. Vedo i suoi capelli castani e le sue spalle. «Può essere,» dico.
Guarda le vecchie foto da cinque minuti ormai. Volevamo andare a prendere un caffè giù in pasticceria, ma la sirena ha suonato incazzata: siamo tornati in salotto, senza sapere bene cosa fare. Le domeniche con l’acqua alta sono ben più odiose di un, chessò, giovedì con l’acqua alta. La prima cosa che mi ha detto, dopo qualche minuto di silenzio, è stata «Togliti la giacca.» Io avevo annuito ma non mi ero alzato dalla poltrona. Guardavo fuori dalla finestra, m’immaginavo l’acqua salita fino al nostro secondo piano, invaderci la casa e ghiacciarci i capelli. Giulia aveva aperto un cassetto e s’era messa a frugare. Aveva buttato il cappotto su una sedia, e s’era distesa sul tappeto a spulciarle, una per una. Quattro pacchi da più d’un centinaio di foto. Hai voglia, pensavo. Avevo i piedi esattamente dietro la sua schiena, e le vidi vibrare i capelli quando mi disse, «Amore, togliti la giacca. Creperai dal caldo.» Ho grugnito per un attimo, senza smettere di immaginarmi l’acqua risalire la calle e bussare ai vetri. «Ho sentito Carlo, due settimane fa,» dice adesso Giulia. «Ha telefonato.» «Come ha telefonato?» «Sì, voleva sapere come ce la passavamo, se stavamo ancora insieme. Se scrivi ancora poesie la notte.» Non si volta a guardarmi.
m ax co l l i n i e n r i co p i sc i te l l i m arco mo n t a n a ro m as s im il i a n o n u z z o l o li sa p i e t ro b o n ales s and ro m i l a n e se
inutile fa cultura