L'Irrequieto - Numero 18 - Febbraio 2016

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L’Irrequieto Rivista Letteraria

Associazione Culturale L’Irrequieto Firenze - Paris Febbraio 2016 www.irrequieto.eu redazione@irrequieto.eu © Giacomo Braccialarghe


DIREZIONE Alessandro Xenos, Donatello Cirone

REDAZIONE Donatello Cirone, Luca Saracino, Luigi Balice, Alessandro Xenos, Elisa Saracino

CONCEZIONE E REALIZZAZIONE GRAFICA Luigi Balice

DISEGNI E LOGO Giacomo Braccialarghe

WEBMASTER Donatello Cirone

INFORMAZIONI E COLLABORAZIONI info@irrequieto.eu / redazione@irrequieto.eu

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In questo numero Myself di Martina Figliomeni La caffetteria di Donatello Cirone I melograni: Il dolore più grande / Ciliegie di Luca Saracino ma/re #8 di Roberto Pireddu Il passaggio in auto (7a parte) di Alessandro Xenos Love is in the air di Elisa Saracino Un mucchio di cazzate di Luigi Balice Santa Monica di Elise Reinke L’arte della fuga di Mara Abbafati Presenze altalenanti di Martina Brizzi I rubinetti aperti di Giuseppe Semeraro Elección di Caroline Lassée Qualcosa è cambiato nelle coppie miste di Alessandro Ghebreigziabiher Belle inconnue/Bella sconosciuta di Willy Mbonji Io non ho risposte da dare #3 di Luca Cini La bestia è viziata di Federica Gullotta Ecstasy #6 di Luca Cini


Myself

Š Martina Figliomeni

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La caffetteria Donatello Cirone

Strati di polvere ammantavano tutti i mobili e il tavolo e le sedie, il letto, la credenza, gli armadi, la cucina, la cintura che pochi anni prima aveva segnato la schiena e le cosce di Ginevra. Tutto era coperto dalla polvere e dal tempo, dalla noia. Il silenzio, prima desiderato, adesso era un grande martello che batteva come il pendolo di un cucĂš rotto sul cranio vuoto di Mario che dondolava in mezzo alla stanza. Le serrande abbassate rimandavano i raggi al mittente, fuori la vita scorreva con la stessa monotonia di qualche anno prima, quando con lui in stanza respirava anche Ginevra. La luce spenta lasciava quel pezzo di mondo al silenzio e lo restituiva alle tenebre. Al numero 4 di Via Gravidi Mariti, Chiara si accarezzava il ventre tondeggiante. Da ormai quasi tre mesi non riusciva piĂš a vedersi il pube e i suoi peli, poteva solo accarezzarli, passarci la mano, sentirli morbidi. Ogni tanto si guardava allo specchio, non si piaceva il lunedĂŹ, il mercoledĂŹ si amava, il sabato era triste, la domenica, forse, felice. Lievitava il suo corpo e con esso anche i suoi squilibri ormonali. Cresceva, lentamente cresceva un altro corpo dentro al suo, una

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relazione millenaria che Chiara faceva fatica a vivere. Dal primo test fino al primo sorriso di Ferdinando subito dopo averglielo detto. Si era chiesta infinite volte se fosse più giusto abortire, farla finita, non diventare mamma. Non aveva dormito tante notti e per altrettante aveva fatto l’amore senza chiedersi il perché, riprendeva solo ciò che tutte le altre donne prima di lei avevano barattato con la morale e l’etica, non aveva mai buttato via un’occasione di amore, mai un’esperienza che le avrebbe portato felicità, aveva la sua vita, le sue scelte, la sua essenza. Sceglieva lei dove dormire e se dormire, se amare solo per una notte, o per due, Sceglieva lei se amare, e chi. Sceglieva lei se concedersi e cosa concedere: carezze, tazze colme d’amore o semplicemente niente. Mario dondolava appeso al lampadario. Dondolava per effetto delle correnti e degli spifferi, un corpo appeso che, dondolava in una casa vuota, dove Ginevra qualche anno prima aveva pianto, mai riso. Aveva urlato, mai cantato. Ginevra era stata lì e adesso non dondolava ma sorrideva lontano, lontano da quella polvere, da quelle mani e da quella cintura di pelle marrone. Chiara aveva conosciuto Ferdinando in una caffetteria, di mattina, davanti a un caffè schifoso e un cornetto integrale. Si erano guardati, sfiorati ed erano ritornati al loro andare, non sapevano, in quel momento, che tutta la loro vita da quel caffè in poi si sarebbe stravolta, cambiata per sempre. Si rividero pure l’indomani, stesse ordinazioni, stesso angolo del bancone. Quelle colazioni andarono avanti per un paio di settimane, alla fine per quello strano senso di abitudine mista

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a una certa antica educazione si salutarono. Bastò un - Buongiorno caro! - pronunciato da Chiara a cento denti per stendere Ferdinando e mandarlo lontano da quella caffetteria troppo piena, trasportarlo prima sulle nuvole poi a cavallo dei suoi sogni. Chiara era bellissima quella mattina e sarebbe rimasta così fino alla dentiera. Sorrideva, piena di vita e amore per il mondo, chiunque poteva percepirlo. Il flusso della sua positività invadeva corpi tristi e indaffarati a raccontarsi disgrazie e pene. Ferdinando rimase abbagliato dalla sua luce, abbacinato da quel sorriso vivo e fresco che in mezzo a tutti quei morti metropolitani brillava ancora di più. Sognava di abbracciarla e di baciarla, di trovarla nuda nei suoi sogni, bere direttamente dalla fonte la sua acqua miracolosa, stringerla a sé. Sognava e non aveva il coraggio di fare altro, ma solo di rispondere tutto tremante: - Buongiorno anche a lei!-. Mario non dondolava più. Era stato trovato. Le sue ossa erano finite tumulate sotto una croce senza nome. Ginevra continuava a sorridere lontana dalla cintura di pelle marrone e dalla fibbia dorata. Ferdinando e Chiara aggiunsero alle colazioni, pranzi e cene romantiche, passeggiate e nottate intere a parlare e ad amarsi delicatamente, aggiunsero anche un concepimento, tanti sogni da vivere e tanti da infrangere. Pochi anni prima in quella stessa caffetteria Ginevra incontrò per la prima volta Antonio, aveva un volto delicato, macchiato dalla tristezza,

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una impercettibile linea di sofferenza gli marcava le palpebre. Appena lo vide si rese conto che era pronta. Ginevra era pronta a rivivere, ad amare ancora, senza cintura e senza fibbia, era pronta per immergersi ancora dentro alla vita. Riemergere, dopo tanta apnea, alla luce. Si erano innamorati davanti a quello stesso bancone, e anche loro avevano fatto seguire a quell’incontro pranzi e cene a lume di candela, serate al cinema e a cena a casa d’amici proprio come avevano fatto Ferdinando e Chiara. Vivevano semplicemente. Si amavano, e la loro vita scorreva come un grande fiume artico, i giorni uno dietro l’altro si rincorrevano come ghepardi in amore, tutto era incredibilmente bello: la casa nuova, i tappeti, la credenza, tutto luccicava, nemmeno un minuscolo granellino di polvere adornava a morte i loro mobili, le loro sedie. Nessuna cintura di pelle marrone con la fibbia d’oro sfregiava il corpo morbido di Ginevra, bianco come latte d’asina appena munto. Brillavano gli occhi di Ginevra pieni d’amore.

La luna era sorta. Chiara strillava e si dilatava, spingeva e piangeva, in quello stesso momento Ginevra sognava, un rivolo di saliva le disegnava una guancia, un minuscolo filo che cadeva sul cuscino rosso, lontano la polvere pesante come pece custodiva il suo dolore passato, nascondeva al mondo il ricordo delle cinghiate sulla sua pelle, la fibbia d’oro e lo

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stemma impresso a sangue sulle sue cosce, ovattava il rumore sordo delle sue lacrime e dei suoi singhiozzi. Un sorriso accennato di Antonio, una carezza a interrompere quel rivolo, ad asciugarle il viso pieno di luce, un bacio umido, due occhi che si aprono, lontano un vagito. Il sole era sorto, la caffetteria riaperta.

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I Melograni

Luca Saracino


Il dolore più grande

Il dolore più grande è guardarsi allo specchio. Qui nessuno si vuole bene dicevi per destarmi dalle aspettative. Poco distante c’era il museo delle armature medievali e il negozio di ceramiche decorate a mano in cui mia madre comprò le bomboniere per la prima comunione. All’epoca lavorava alla fabbrica di coloranti e la sera aveva sempre la tosse e le dita arcobaleno. La mia ex è un dinosauro senza collo che la notte abbraccia i cuscini e all’occorrenza costruisce muri di peluche in mezzo al letto. Tutti i miei ponti interrotti, i tentativi di misurare le ombre lunghe della sera e il silenzio al crepuscolo d’agosto sono svaniti. Restano le bottiglie d’acqua lasciate in strada ai lati del portone per impedire le deiezioni degli animali notturni. Ho fatto spese avventate per non pensare: miele di foresta, rododendri e la clessidra dalla sabbia blu. Leggo pagine a caso da libri inattuali, ipotesi superate circa il funzionamento dei pianeti, il tiro al piattello, la statistica dei quadrifogli e il mal di denti. Il dolore più grande arriva quando fuori c’è il sole a picco e non c’è con chi parlare. Ripenso alle calendule nei vasi la notte dei fuochi di San Giovanni, alla guazza sull’erba dopo il temporale, alla mia vita che avanza impercettibile come la crescita dei piedi nei bambini

Afferro avido le ciliegie arrampicato su di un ramo, scimpanzé in maniche di camicia e gli occhi infranti. Ma non posso più stringere i corpi delle persone che ho amato. Sono tutti a piede libero, ancora vivono e si innamorano in luoghi in cui di me non c’è più traccia.

Ciliegie

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ma/re #8

Š Roberto Pireddu

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Il passaggio in auto parte settima

Alessandro Xenos

Aprendo lo sportello della macchina Nicolas fece cadere le chiavi sotto il sedile, nel rialzarsi batté la testa contro il volante e infine urtò il cambio con il gomito. A Claire sfuggì un sorriso malizioso. - Nervoso?

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Feuilleton

Nicolas non rispose, stava seguendo con lo sguardo i movimenti dei poliziotti, voleva accertartarsi che non tornassero indietro a distrurbarlo ulteriormente. L’inquietudine traspariva dai suoi occhi, ma per sua fortuna i due giovani agenti si erano già scordati delle due bare e con un incesso reale si erano avviati verso le macchinette per gustarsi il loro sesto caffé acquoso della giornata. Mise in moto. Claire notò che le sue mani tremavano e intuì che la situazione stava volgendo


Feuilleton

in suo vantaggio, ma fece finta di niente. Per qualche minuto il silenzio tornò a regnare nell’abitacolo, poi d’improvviso, come se un pensiero fuori posto avesse rotto l’equilibrio dello stormo che affollava la sua mente, Nicolas sterzò violentemente verso la corsia di emergenza e si fermò sulla prima piazzola di sosta che trovò. Si prese la testa tra le mani e iniziò a elencare tutte le imprecazioni che conosceva, che a dire il vero non erano molte. Claire lo guardò con aria sorpresa. - Che succede? Nicolas fece un gesto con la mano come per allontanare quella domanda a cui non poteva dare risposta. - Qual è il problema? Forse ti posso aiutare. - Stai fuori da questa storia, non ti voglio creare problemi. Sai già troppe cose. - (con aria ingenua) Di cosa stai parlando? - Sto parlando della ragazza di Sebastian, non eri forse al telefono con lei prima? - Sì, è vero parlavo con Estelle, ma che c’entra, la conosci? - No, ma conosco Sebastian. - Ah, davvero? - Ti ho vista mentre guardavi il mio cellulare, non prendermi per un

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idiota. Stanne fuori ti dico. Claire si sentì come quella volta che il suo istruttore di atletica la sorprese mentre gli guardava il fondoschiena. Stupida. Non sapeva più che dire. Nicolas prese un’aria pensierosa, poi con un fare paternalistico aggiunse: - E’ meglio se dimentichi tutto. Nonostante l’imbarazzo, c’erano troppe questioni che giravano nella testa di Claire, aveva il dovere di continuare a chiedere, anche se in fondo già conosceva le risposte. - Spiegami almeno di che si tratta, cosa devi consegnare per Sebastian? E chi è Miguel Negredo? Nicolas la guardò per un attimo, poi il suo viso si distese.

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Feuilleton

- Miguel Negredo è ciò che devo consegnare. - Lo sapevo! Scusa, ma quindi cosa c’è nell’altra bara? - Nell’altra bara c’è la signora Jacqueline Noiret, nata a Parigi il 12 ottobre di 93 anni fa e morta a Montpellier sabato scorso. Aveva espresso il desiderio di essere seppellita al Père Lachaise accanto ai


Feuilleton

suoi genitori e io ce la sto portando. Nel cruscotto ci sono i documenti che lo provano, puoi verificare. - Quindi ti stai servendo di un trasporto ufficiale per farne uno illecito, ma perché, chi è Miguel Negredo? - Non lo so, Sebastian non mi ha detto niente, prima che tu ne parlassi con la tua coinquilina non sapevo neanche come si chiamasse. Quando ho sentito quel nome ho capito che stavate parlando del tipo nella bara. - Quindi non sai nemmeno perché lo stai portando a Montreuil? - No, non so niente. (prendendosi di nuovo la testa tra le mani) Sono uno stupido, non avrei dovuto accettare, prendere tutti rischi per un po’ d’erba. - Che c’entra l’erba? - Sì, Sebastian mi ha promesso che se avessi trasportato il tipo senza fare domande mi avrebbe fornito duecentocinquanta grammi di erba. Con questa quantitià ci vado avanti minimo sei mesi, mi sono lasciato convincere. E poi è difficile dire di no a dei tipi come Sebastian e i suoi amici. - Momo? - No, Momo non c’entra, non è nel suo giro, anzi penso che fosse contro il trasporto. Gli amici di Sebastian sono dei veri banditi, spagnoli e sudamericani. - Mmm, c’è una cosa che non mi torna però, perché hai preso il rischio di portarmi con te sapendo che avrei potuto scoprirti?

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- Non potevo immaginare che tu fossi un’amica di Sebastian, e se tu non avessi guardato il mio cellulare non te ne avrei di certo parlato. Ti ho dato un passaggio perché non mi piace viaggiare da solo con un cadavere nel bagagliaio, tantomeno con due. - Capisco… - Prima ti ho mentito, non sono fatto per questo mestiere, anzi lo odio, lo faccio solo per far piacere a mio padre, che è il proprietario dell’attività. Fu mio nonno a fondarla negli anni ‘40, figurati che lavoriamo con i morti da quattro generazioni.

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Feuilleton

Claire sorrise, provava un po’ di pena per quel ragazzone, ma allo stesso tempo riusciva a capire la sua infelicità. Anche suo padre avrebbe voluto che riprendesse l’attività di famiglia, ma a lei di lavorare in macelleria proprio non interessava. Quando gli disse che sarebbe diventata una professoressa di storia vegetariana lui non si arrabbiò, ma sapeva di averlo deluso. Claire era la più piccola delle sue tre figlie, la sua ultima speranza per poter trasmettere il mestiere a qualcuno di famiglia. Annabelle, la primogenita, aveva scelto di fare la dentista e si era sposata con un poeta pallido che portava sempre maglioni a collo alto di cachemire, poco adatti al lavoro di macelleria. Aveva sperato che un giorno avrebbero cambiato idea, ma da qualche anno ormai si era dovuto rassegnare all’idea di non poter fare affidamento su di loro. Per quanto riguarda la secondogenita invece, non si era mai


Feuilleton

fatto illusioni, sapeva che era una battaglia persa in partenza. Lucille viveva all’estero da quando aveva vent’anni e da due aveva deciso di trasferirsi in Sud America per salvare i giaguari dall’estinzione. Come se non bastasse, era fortemente convinta dell’inutilità delle unioni legali o religiose, non si sarebbe mai sposata, diceva. Insomma, Claire provava rammarico per la propria decisione e sapeva di aver causato una grande amarezza al padre. - Ti capisco sai, anche mio babbo avrebbe voluto che riprendessi la sua attività. - Però non l’hai fatto. - No, ho scelto un’altra strada e sono sicura che in fondo è contento. Magari anche tuo… - (interrompendola) Non conosci mio padre, non capirebbe. - Non può saperlo se non provi. Pronunciò quest’ultima frase con un’espressione di complicità e per un istante i loro sguardi si incollarono. Gli occhi che prima le erano sembrati vitrei si mostrarono in tutto il loro splendore blu fiordaliso. Cambiò discorso: - Forse dovremmo andare prima che la polizia ci fermi di nuovo. - Hai ragione, andiamo. CONTINUA NEL PROSSIMO NUMERO

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Love is in the air

Š Elisa Saracino

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Un mucchio di cazzate Luigi Balice

Scivola tutto dalle mani sotto una pioggia incessante di malsana abitudine. Roboanti processioni di gesti buoni svelano il torpore maciullato dei nostri sguardi innocui. La sobria sfacciataggine del sogno ricorrente si alterna al ripetitivo malumore falciato dai sorrisi ingenui. Gli occhi aperti la notte sondano l’inconsistenza di terrazze costruite apposta per osservare fuochi d’artificio senza compagnia, lassù la cappa grigia di inutilità è un mantello troppo pesante per renderci immuni alle anche ghiacciate, snodate controversie senza punto d’appoggio. Dilaga dappertutto la fame lussuriosa che si ingozza di senso razionale per aggrappare l’essenziale. Il vomito giochiamocelo a flipper. Caduco involucro, uovo marcio, molo inondato, magica caduta nel silenzio. Ho spazzato tutto per riconoscerlo meglio e mi sono imbattuto nel mezzo lamento di una febbre genetica, codici frattali infilati dritti nel

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tagliacarte, brandelli di parole da vendere ai pazzi per ammalarmi di me e ritrovare la combinazione congeniale da affiancare alla tua senza dover rimpiangere già quello che farò più in là. Tu lo sai già quello che ti dirò vero? Per questo piangevi l’altra sera? Voglio solo capire se sono io a creare lo stampo oppure voi che mi fratturate l’intenzione, gabbia per amanti burocrati. Restituitemi i vostri gesti contaminati solo dal candore della ripetitività, carezze fordiste per catene di depistaggio, dopo averli lavati con una buona dose di oltraggi Bio. Non avere paura di perderti non è mica il nuovo slogan per compratori di gratta e vinci + un complemento oggetto qualsiasi. Tu ci sei e la paura anche. Ma volersi deve essere come chiedere l’accendino a qualcuno che fa jogging e scoprire che quest’ultimo se ne porta uno appresso con la speranza di scaraventarlo contro l’ultimo esemplare di armorionus cansternis. Mobili destini da spostare a dama, ricongiungimenti infamiliari da modellare col DAS e ficcare sotto il piede monco del tavolo. Vorrei poter dire tutto senza spiccicare una parola invece fuoriescono colate di cazzate.

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Santa Monica #1

Š Elise Reinke

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L’arte della fuga Mara Abbafati

Nella stanza del clavicembalo lo spazio che restava era poco e i parenti vestiti di nero se ne stavano appoggiati alle pareti. Zio Osvaldo teneva la pipa spenta stretta tra le labbra e digrignava i denti, mentre sua moglie Elvira mangiava le polpette al sugo che si era portata in un contenitore di plastica e si sbrodolava sulla gonna tesa dalle cosce strizzate nelle calze contenitive color carne. Io me ne stavo nella stanza del solfeggio e guardavo le loro ombre attraverso il vetro smerigliato della porta. Nella vetrinetta, accanto al tavolo ovale di noce, c’erano i gatti di porcellana che mostravano le code, e la collezione di campanellini d’argento. Dalla finestra il sibilo del vento sembrava il suono di un trombone a coulisse e faceva vibrare il vetro sottile. C’erano ventisette gatti e trentacinque campanellini, finito di contarli non sapevo più cosa fare, si avvicinava il momento in cui avrebbero chiuso la bara e saremmo dovuti andare tutti al funerale. Io avevo paura. Della chiesa e dell’incenso. Lo avevo detto a mia madre che non volevo andarci ma questa opzione non era contemplata, mi disse lei quella mattina, mentre si allacciava il fiocco della camicetta di seta blu di Prussia. Mi nascosi sotto al tavolo, accucciato per terra con le ginocchia strette

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al petto «Voglio sparire, voglio sparire, voglio sparire» sussurravo guardando il mio riflesso sulla vetrinetta. Di là iniziò il trambusto, stavano portando la bara fuori dal portone, sentii il cigolio del paletto a leva che non veniva toccato da chissà quanto tempo e le voci dei becchini che si davano indicazioni per districarsi sul pianerottolo, e mentre tutti attendevano la fine dell’operazione stipati nella stanza del clavicembalo, io vidi pian piano sparire il mio riflesso. Sparii davvero, non solo fisicamente ma anche dai ricordi di mia madre e degli altri parenti, perché quando tutti corsero fuori chiudendo in fretta il portone per raggiungere il corteo funebre nessuno venne a cercarmi.

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i rubinetti aperti i denti spezzati l’acqua bella del sorriso l’acqua importante che va via la felicità di perdere qualcosa mentre la vita salta nel buio, qualcuno che mi crede matto mentre giro le spalle ridendo felicità accattona da terza classe povera perdo qualcosa, perdo tutto perdo acqua da tutte le parti il rubinetto resta aperto in faccia agli sprechi va via una giornata il tempo neanche di chiarirsi un rubinetto aperto che perde un tempo che scivola via per sempre altrove dove sono già stato lontano a guarire l’acqua

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© Martina Brizzi

Giuseppe Semeraro

Presenze altalenanti

I rubinetti aperti


Elección

© Caroline Lassée


Qualcosa è cambiato nelle coppie miste Alessandro Ghebreigziabiher

Qualcosa è cambiato nel 1967, è proprio il caso di dirlo. In quell’anno un matrimonio cosiddetto misto rappresenta per la prima volta il tema centrale in un film di successo. Sto parlando ovviamente di Indovina chi viene a cena? Il film, per chi non se lo ricorda, era interpretato da Spencer Tracy e Katharine Hepburn nel ruolo dei genitori bianchi e da Sidney Poitier in quello dell’inaspettato genero nero. La trama è semplice: Johanna, una giovane ragazza bianca americana, si innamora del dottor Prentice (alias Sidney Poitier), un nero conosciuto durante una vacanza alle Hawaii. I due pianificano di sposarsi e lei vuole tornare in Svizzera con lui. Il film è incentrato sul ritorno di Johanna a casa, a San Francisco, insieme al nuovo fidanzato che la ragazza porta con sé a cena per farlo conoscere ai genitori, e sulle reazioni della famiglia e degli amici. Tutto finisce bene, con il più ottimista dei finali. Certo, se il nuovo esotico arrivo in famiglia non fosse stato un bel dottore, colto e di buone maniere, ma piuttosto, che so, un rapper tutto collanine e denti d’oro, ovvero un clandestino in cerca di un permesso di soggiorno, i due progressisti genitori avrebbero trovato qualche 29


difficoltà ad accettare la cosa. C’è da dire che Indovina chi viene a cena? non ha il merito di essere stato il primo film americano a trattare l’argomento unioni interrazziali. Quello di maggiore successo sì, ma non il primo. Nel 1957 uscì il film La banda degli angeli, con Clark Gable e Yvonne de Carlo. Ecco la trama: verso la metà dell’ottocento, nel Kentucky, una ragazza figlia di schiavi rimane orfana ed è comprata da un ricco latifondista. L’uomo, innamoratosi di lei, la nomina erede di tutte le proprietà. Quando la donna scopre che il marito si è arricchito con lo schiavismo lo lascia, ma torna da lui quando esplode la guerra civile tra Nord e Sud. Nella riedizione italiana del 1964 uscì con il titolo La frusta e la carne. Fa pensare aun film erotico, vero? Qui da noi abbiamo ancora oggi l’abitudine di cambiare i titolioriginali in una maniera spesso delirante. In questo film, a ogni modo, siamo parecchio lontani dall’epoca di Sidney Poitier e, soprattutto, da quella di Denzel Washigton o Will Smith. Difatti la ragazza figlia di schiavi fu interpretata da Yvonne De Carlo, attrice canadese, di una carnagione al limite del pallido, scurita per l’occasione per rendersi credibile nel ruolo della schiava di colore innamorata di Gable. Dal 1967 di Indovina chi viene a cena? con il quale, a quanto pare, il cinema americano aveva forse esagerato, saltiamo addirittura al 1975, con una pellicola di sicuro valore: Mandingo. Spero si colga l’ironia. La storia è semplice: nel 1840, in una piantagione di cotone della Louisiana, il proprietario obbliga il figlio a sposare sua cugina Blanche. Appreso che la moglie non è vergine, si prende un’amante nera e allora Blanche – per vendicarsi – si concede a un poderoso schiavo della

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tribù dei Mandingo. Nasce un bambino nero che il medico sopprime. Nonostante la sonora stroncatura di pubblico e critica, il regista Richard Fleischer girò anche un sequel: Drum, l’ultimo Mandingo. In ogni caso ecco la morale: la coppia mista diviene lecita se a scopo vendetta e, soprattutto, se il nero di turno ha le dimensioni, in senso generale, di un poderoso mandingo. Altro salto nel tempo, dato che con i due film della serie le donne bianche americane avevano iniziato a sognare un dottor Prentice con il volto di Poitier e, soprattutto, le doti di un mandingo, ci porta al 1991 di Jungle Fever, una pellicola di Spike Lee, non nuovo nel trattare temi interculturali. La trama: Flipper è un benestante architetto afro americano che vive con la moglie Drew e la figlia in un costoso appartamento ad Harlem. Quando, allo studio in cui lavora, viene assunta una segretaria italo americana, Angie, Flipper non si dimostra molto contento, poiché avrebbe preferito lavorare con una del suo colore. In pratica il razzista è lui. Angie conduce una vita umile, in una modesta casa di un sobborgo di Brooklyn. I due iniziano a fare amicizia e una sera si ritrovano da soli in ufficio, per degli straordinari. Ordinano del cibo cinese e iniziano a parlare delle loro vite. Infine, sul tavolo da disegno, hanno un rapporto sessuale. Un vero colpo di scena, nel lontano 1991. La famiglia di Angie, venuta a conoscenza del fatto, la butta fuori di casa dopo averla picchiata, perché ‘se la fa con i negri’, cosicché ognuno ritorna nel proprio lato di mondo. Da Indovina chi viene a cena? a Jungle Fever, come dire, dall’ottimismo degli anni sessanta al pessimismo di trent’anni dopo. Altro salto obbligato, dato che la scena del tavolo aveva superato

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veramente i limiti, ci conduce al 2002, con il film Lontano dal paradiso. Siamo nel 1950, nel Connecticut. Si racconta la storia di Cathy Whitaker, la moglie perfetta, madre, e casalinga. Cathy è sposata con Frank, un manager di successo. Un giorno, la donna spia uno sconosciuto uomo nero che cammina nel suo giardino. Si tratta di Raymond, il figlio dell’ultimo giardiniere di Cathy. Nel frattempo Frank è costretto a rimanere fino a tardi in ufficio, inondato dal lavoro. Una sera, però, lo vediamo entrare in un bar. Contemporaneamente, Cathy e Raymond divengono amici. Una notte, quando Frank è ancora in ritardo, Cathy decide di preparargli la cena e portargliela. Cosicché lo scopre baciare appassionatamente un uomo. Frank confessa di aver avuto dei problemi da giovane e accetta di vedere uno psichiatra e guarire, per tornare ad una sana normalità. Il suo rapporto con Cathy diviene teso e lui si da al bere. Delusa dal suo matrimonio, Cathy cerca conforto nell’amico nero, Raymond. S’incontra con quest’ultimo spesso, suscitando le chiacchiere del vicinato. Ciò nonostante i due si innamorano. Dal canto suo, Frank, incapace di sopprimere i propri desideri omosessuali, si invaghisce di un altro uomo e chiede il divorzio da Cathy. Che dire, vediamolo come un passo in avanti. Per tubare con una donna bianca, un afro americano può pure essere un figlio di giardinieri e non per forza uno stimabile dottor Prentice. Non è necessario che celi un mandingo dentro le mutande. Certo, in quel caso, la suddetta signora non avrà di che lamentarsi, ma non è indispensabile. L’unica condizione è che il compagno di prima si dichiari omosessuale. Brano tratto da “Loving contro virginia” - Amori diversi - Tempesta Editore 2013

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Belle inconnue Bella sconosciuta Willy Mbonji

Malgré la distance qui nous sépare Plus je pense à vous Plus des frissons de moi s’emparent Oui, je l’avoue! Le regard perdu vers l’océan Je crois apercevoir votre silhouette Elle semble surgir du néant M’invitant à voltiger au milieu des mouettes S’il-vous-plaît, dites-moi que ce n’est pas une hallucination Qui disparaîtra au coucher du soleil Dites-moi que nous volerons pour une lointaine destination Et que nos baisers auront la saveur du miel d’abeille…

Nonostante la distanza che ci separa Penso a Lei, sempre di più E mi vengono i brividi, sempre di più Sì, lo confesso Lo sguardo perso verso il mare Mi sembra di vedere la Sua silhouette Emersa dal nulla E invitandomi a svolazzare tra i gabbiani La prego, mi dica che non è un’allucinazione Che al tramonto scomparirà dietro l’orizzonte La prego, mi prometta che voleremo via anche senza ali E che ci baceremo dolcemente come fanno fiori e api

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Io non ho risposte da dare #3

Š Luca Cini

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La bestia è viziata Federica Gullotta

Come animale sento – e come sento odoro – e odoro quello che penso – come animale un tempo, mi adoravano tutte le mani e tutti i respiri di freccia in furia tra gli alberi sonori Come animale spacco – e come spacco celo – e celo quello che penso – un tempo, orgogliosa come un palo fulminato, e risoluta, scortecciata, piena di umori riavvicinai la terra scoperta e lunga “Ma allora! La bestia è viziata”. 35


Ecstasy #6

© Luca Cini

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L’Irrequieto Rivista Letteraria

Associazione Culturale L’Irrequieto Firenze - Paris


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