L'Irrequieto - Numero 19 - Marzo 2016

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L’Irrequieto Rivista Letteraria

Associazione Culturale L’Irrequieto Firenze - Paris Marzo 2016 www.irrequieto.eu redazione@irrequieto.eu © Giacomo Braccialarghe


DIREZIONE Alessandro Xenos, Donatello Cirone

REDAZIONE Donatello Cirone, Luca Saracino, Luigi Balice, Alessandro Xenos, Elisa Saracino

CONCEZIONE E REALIZZAZIONE GRAFICA Luigi Balice

DISEGNI E LOGO Giacomo Braccialarghe

WEBMASTER Donatello Cirone

INFORMAZIONI E COLLABORAZIONI info@irrequieto.eu / redazione@irrequieto.eu

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In questo numero Santa Monica #3 di Elise Reinke Un ragazzo irrequieto di Alessandro Ghebreigziabiher I melograni: Come d’autunno / Famiglia eterna di Luca Saracino ma/re #3 di Roberto Pireddu Il passaggio in auto (8a parte) di Alessandro Xenos Comizi portentosi di Martina Brizzi A Gigi di Giuseppe Semeraro Evento pubblico di Lina Liebe Like di Donatello Cirone Io non ho risposte da dare #8 di Luca Cini Tutta roba sottobanco di Luigi Balice Infilare una mano tra le gambe del destino (n.13) di Carmine Mangone Stati di realtà apparente #3 di Luca Cini Intermittenza di Mara Abbafati Biciclettare di Elisa Saracino Lind Wurm di Federica Gullotta


Santa Monica #3

Š Elise Reinke

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Un ragazzo irrequieto Alessandro Ghebreigziabiher

Mio figlio è intelligente, mica è come gli altri, senza offesa. Prima di tutto, perché noi siamo gente intelligente. Mia moglie ed io siamo laureati, lodati, masterizzati e pluripremiati. Non siamo come gli altri, non è una questione di snobismo o altro, è la realtà. Non siamo tutti uguali. Per questo abbiamo iscritto Euterpe all’istituto Specialissimi. E’ la migliore scuola privata del paese, così ci hanno detto, così campeggia sul sito, così recita la scritta all’ingresso dell’edificio. E così l’ho ritrovata quando quel giorno mi sono recato in presidenza, convocato d’urgenza. La cosa mi ha turbato assai, capirete. Anche mia moglie non l’ha presa bene. Nessuno di noi due ha mai avuto i genitori invitati a scuola per alcuna ragione. La sera precedente, dopo la telefonata del professore di matematica, ho chiesto lumi al figliolo, ma Euterpe si è mostrato stranamente riluttante a parlare e ha reagito in maniera inusitata. Mio figlio è intelligente, non è come gli altri, non ve la prendete sul personale, è perché noi siamo superiori, è così, ma per la prima volta

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quel giorno si è alzato da tavola senza chiedere il permesso, è entrato in camera sbattendo la porta e probabilmente l’ha percossa con un pugno o un calcio. Difficile riconoscere la paternità del tonfo. Estremamente difficile laddove siffatto rumore non sia mai stato prodotto nella tua casa. Che volete farci, è che noi non siamo come tutti, siamo gente razionale, votati alla penna e l’intelletto, anime calme e posate. “Buongiorno”, fece la preside indicando la sedia libera al di là dell’arrogante scrivania. “Si accomodi.” La direttrice era una donna nasuta, occhialuta e ossuta dai capelli rosso sangue rappreso. Al suo fianco c’era il prof di matematica, un ometto minuto, riportino ostentato come se fosse un vanto e occhietti eccessivamente lontani l’uno dall’altro, come se si odiassero a morte. “Cosa è successo?” domandai con la gola secca per l’ansia galoppante. La nasuta andò dritta al punto. “Signore, siamo costretti a espellere suo figlio Euterpe.” “Perché?” domandai con un paio di vene pulsanti improvvisamente affiorate sulla tempia destra. “Perché Euterpe è un ragazzo irrequieto.” Mentre rincasavo con l’auto mi sentivo come morto. Peggio, come qualcuno che aveva appena appreso di dover morire a breve. Pochi mesi di vita, anzi, un paio di settimane. Il giorno stesso. Presumo che lo shock sia comprensibile. Noi siamo creature elette, tra mia moglie e il sottoscritto abbiamo appeso sulle pareti

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dell’appartamento più attestati di merito e gloriose onorificenze che foto di famiglia, il che la dice tutta. Se un figlio, anche lui intelligente, anche lui di altra pasta, con una testa speciale, quindi perfetto per l’istituto Specialissimi, decida durante la lezione di trigonometria di osare chiacchierare, alzare la voce, ridere a squarciagola e addirittura distrarsi per rimorchiare le compagne invece di prestare attenzione all’insegnante, non è coerente. Forse lo è, ha detto invece il bidello quando gli ho raccontato l’accaduto appena uscito dalla presidenza. Forse non sarà coerente con voi altri, ma è coerente con l’età che ha. Un bidello, ci pensate? Uno che avrà al massimo il diploma superiore, un cittadino minore, un’esistenza semplice e di mediocre evoluzione che osa. Avere perfettamente ragione.

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I Melograni Luca Saracino

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come d’autunno

Accoltellava le rane del fosso, è sempre stato un ragazzo strano, in paese lo sapevano tutti, nonostante suo padre, il postino, intendiamoci fosse una persona perbene. Ultimo stralcio di conversazione colta scendendo dall’autobus. Dentro al negozio di alimentari le luci sono spente e fa caldo, il ragazzo con gli stivali da cowboy seduto sulla sedia di vimini accanto alla titolare le stringe una mano e ripete:si sta come d’autunno sugli alberi le foglie. Lui era stato in guerra, lo sai? Dice rivolgendosi all’anziana signora che nel mentre si volta e mi sorride. Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie. Finisce qui,hai capito? Non prosegue oltre. Poi guardandomi aggiunge: vero? Era un poeta ma ha fatto la guerra. Io annuisco e indico un pezzetto di pane alle spalle della vecchia.Uscendo, ancora una volta come un colpo di vento, mi travolge la sua voce: si sta come d’autunno emi fa rabbrividire.In verità non è autunno, siamo a inizio maggio e mentre cammino colgo un altro pezzo di conversazione, questa volta telefonica: Io ti aspetto ogni sera ma tu sei cattivo, non vieni mai sussurra da una panchina la donna butterata vestita a fiori. Allora mi torna in mente un sogno: abbiamo perso per colpa dell’arbitro dice sorridendo la mia ex numero cinque.

Famiglia eterna Oggi mentre attraversavo il parco dei cani mi hanno fermato due giovani biondi e belli che indossavano la camicia bianca e i pantaloni neri. Sorridendo mi hanno chiesto se credessi nella famiglia eterna e io ho risposto di no. Loro mi hanno detto che è sbagliato perché la famiglia eterna è una cosa molto importante e che dio la vuole. Mi hanno stretto la mano e mi hanno consegnato un biglietto con l’indirizzo dell’Accademia dei mormoni, cioè la loro,e mi hanno invitato ad andare ai seminari che tengono nel fine settimana che sono a entrata libera e se voglio posso portarci la famiglia. Li ho salutati con la mano e ho proseguito verso casa. Prima però mi sono fermato al negozio di giocattoli e ho comprato un serpentello di plastica. Se mai decidessi di andare dai mormoni non voglio certo andarci da solo. 11


ma/re #3

Š Roberto Pireddu

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Il passaggio in auto parte ottava

Alessandro Xenos

Perché nascondere il trasporto del cadavere? Chi era stato a ucciderlo? Sebastian non le sembrava tipo da commettere un omicidio, ma come suo zio Richard le aveva insegnato, non si fidava delle apparenze. Non poteva nemmeno essere certa che Nicolas non dissimulasse le proprie intenzioni, anche se aveva buoni motivi per credere il contrario. La sua inaspettata confessione l’aveva convinta della sua sincerità. Il ragazzo sembrava essere stato coinvolto suo malgrado in un grave affare e Claire sapeva che proseguendo l’inchiesta lo avrebbe esposto a guai molto più grossi, ma non poteva farne a meno, per il bene della sua migliore amica.

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Feuilleton

– Devo chiamare Estelle e raccontarle tutto. – Non dire cazzate, cosa pensi che possa fare Estelle?


Feuilleton

– Non lo so, ma sicuramente ha già scoperto qualcosa, dobbiamo aiutarla a capire cosa sta trafficando Sebastian. – Ti ricordo che abbiamo un cadavere nel bagagliaio, vuoi farmi finire dentro per complicità in omicidio? Potrei dire che anche te fai parte del piano. – Non ti preoccupare per me e tu avresti dovuto pensarci prima di accettare di portarlo a Montreuil. Voglio solo capire perché lo stai trasportando, non ti preoccupare, non andremo a denunciarti. Non sei curioso di sapere per cosa ti hanno ingaggiato? – No, meno ne so e meglio è – E invece a me interessa, la chiamo. l telefono squillò a vuoto per qualche secondo finché Estelle non rispose con voce affannata: – Claire scusa, sono occupata, ti richiamo tra un po’. La ragazza stava a cavalcioni sulla testa di Kevin, un ragazzotto di 15 anni che come unica colpa aveva quella di essere il fratello minore di Ruben, uno dei nuovi capi della comunità gitana. Anche se un pò umiliato dalla situazione, sul volto di Kevin si poteva leggere il piacere di ritrovarsi per la prima volta tra le gambe di una donna. Non era certo così che se l’era immaginata, ma date le circostanze decise di

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approfittarne il più possibile. – Che hai da ridere? Guarda che vado a raccontare a tutti i tuoi amici che ti sei fatto atterrare da una ragazza, dimmi dov’è tuo fratello! – Non mi importa, raccontalo a chi vuoi. Se ti dico dov’è che mi dai in cambio? – Non ti picchio. – Che paura. Dai, cosa mi dai in cambio? – Cosa vuoi? – Fammi vedere i tuoi seni. – (sorridendo) Che impertinente! – Allora? – Va bene, te li faccio vedere, ma prima dimmi dov’è Ruben. – E’ partito ieri, ma mi ha detto solo che sarebbe stato via per un po’. – Non ti ha detto dove andava? – No, ma ho sentito che chiamava un suo amico spagnolo, sarà andato a Andorra a comprare le sigarette come sempre. – Ad Andorra? – Sì, come fanno tutti, compra le sigarette e poi le rivende qui. Estelle si ricordò dei pacchetti vuoti trovati nello zaino di Sebastian.

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Feuilleton

– Sai se Ruben e Sebastian si sono visti ultimamente?


Feuilleton

– Sì, Sebastian viene spesso alla cité Polie, mi sa che lui e mio fratello si sono messi in affare. Quelle parole le bastarono, sapeva che Ruben non vendeva solo le sigarette di contrabbando, se era diventato uno dei nuovi capi era perché aveva allargato il campo d’azione della comunità facendola entrare nel traffico di cocaina. Schizzò in piedi e si avviò verso la porta. – Hey, mi avevi promesso che me li avresti fatti vedere! – Quando sarai più grande. Uscì di corsa dalla stanza e ritornò in strada. Sapeva già dove andare. La pleine lune, il bar della piazza, era il luogo di ritrovo di artisti, studenti e tossicomani del quartiere. Lì avrebbe trovato sicuramente dei consumatori da interrogare.

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Feuilleton

CONTINUA NEL PROSSIMO NUMERO


Comizi portentosi

Š Martina Brizzi

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A Gigi Giuseppe Semeraro

i corpi, la rivoluzione preparare da mangiare preparare il letto all’amico ascoltare anche l’inutile ascoltare il saluto anche dirsi la verità sempre perché in una tasca si muore soli senza quell’amore

è naturale sognare cammini strade comuni, regole umane vite fuori dal pudore, scommesse è naturale perdere sangue dare il meglio per amore e capire che la bandiera non è nascosta nel pensiero ma è fatta per il vento per le tramontane libere è naturale morire fa parte della verità unica incerta bugia quella che racconta la storia ma prima di quel conto c’è il pane, il risveglio gli occhi negli occhi ci sono i baci, la gioia

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Evento pubblico

Š Lina Liebe

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Like Donatello Cirone

La corrente la spingeva in avanti, dove? Dove stavano andando tutti? Verso chi? Verso cosa? Un gomito in bocca, una manata in faccia. Tanti corpi stretti, troppo vicini per non annusarli. Una ginocchiata, ancora un’altra. Avanzavano come un branco di foche rincorso da un’orca ferita. Giulia era stravolta, si trascinava. Era come se tutte quelle persone riuscissero a tenerla in piedi. Era terrorizzata. – E se cadessi adesso? Sarei distrutta. Annientata, di me non rimarrebbero che i vestiti impastati con il sangue e le ossa tritate come sale grosso in un mortaio di ghisa, dove finirebbe la mia anima? Il ricordo di me? Avanzava ma non marciava, barcollava ma non cadeva, in perfetto equilibrio. Due piatti di una bilancia, un kilo d’odio su di uno e un kilo d’amore sull’altro. La folla proseguiva e la trascinava come una canna di bambù sull’Arno del ’66. Il suo viso era sporcato dallo sconforto, dalla paura, poi una mano che le afferra il braccio, un viso conosciuto,

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un tocco amato. Damiano, il suo Damiano era lì e le teneva il braccio, la proteggeva. – Damiano? Qui? Di nuovo la sua mano? Adesso erano in due, trasportati dalla corrente come due ninfee recise, due fiori sbocciati il primo giorno del creato, si tenevano per mano adesso, si guardavano come se si fossero conosciuti da poco e si sentissero pronti per unirsi in volo come gabbiani neri. Il flusso diventava sempre più caotico, qualcuno ai lati cadeva giù in un burrone lastricato di oblio e ogni tonfo era per quella masnada come sangue per un grande bianco. Damiano aveva il viso rilassato, Giulia invece era preoccupata, tutti gli altri volti erano sfocati, riusciva a vedere, perfettamente, solo quello di Damiano che con le labbra serrate si faceva largo e avanzava con una fierezza d’altri tempi, terribilmente sicuro. Giulia iniziava ad avere qualche dubbio, le incertezze la assalivano come un nugolo di zanzare in una notte di gennaio. Era assente il suo Damiano, forse non era lui. Forse non era Lei. Non poteva essere lei, non voleva crederci, anni frantumati come lo schermo fragile dell’ultimo Mela fra un post e una coccola a una tastiera sporca, accecata da uno schermo macchiato, si era persa fra un commento e un troll, dentro il cerchio di una emoticon. Dove erano finite le carezze? Le labbra umide? La passione di un bacio strappato all’ansia? Le mani una dentro l’altra? L’attesa per

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un appuntamento? La rabbia per averne perso un altro? Le macchie del caffè? Il freddo pungente? La noia delle file? L’acquolina prima di un’ordinazione? I denti stretti prima di un orgasmo? – Dove stiamo andando tutti? Perché sono qui? Non lo ricordava Giulia, eppure era dimagrita per essere lì, si era truccata proprio come le aveva detto Bliko sul suo tutorial, si era depilata ascelle, pancia, schiena e inguine proprio come aveva fatto vedere su YT Cirasa. Era andata a Praga solo perché dopo avrebbe postato le foto. Aveva letto il nuovo libro di Fabietto Atterrato, Il water di Zia Lidia solo per scrivere qualcosa sul blog di Trullo. Aveva preso la trippa al grasso di muflone solo per farci una foto e hastaggare #FoodPorn .-Perché sono qui? Dove mi trovo? Non lo ricordava. Forse l’oblio. Avanzava Giulia in cerca di un Like.

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Io non ho risposte da dare #8

Š Luca Cini


Tutta roba sottobanco Luigi Balice

La franchezza della parola è un grido smorzato, da chi ci riconosce sin troppo bene, dal travaglio che ne ottura la cadenza, come una pentola a pressione, e smussa menti col dubbio della stupidità retroattiva. Sale d’attesa in cui proiettare decisioni future. Avanscoperta ad altezza di talpa, senza strisciare, senza approvare per sentito dire. Prendere lo scambio di battute per i capelli, come se si potesse tornare indietro, e non fare incontrare la memoria col presentimento di dover badare ai mille e un dovere annotati sulla lista della spesa. Domani cinquanta percento di sconto sul sogno che avevo da tempo. Gli scagnozzi ce li ho tutti dentro, li sto addestrando a chiedermi il pizzo. Ordini distratti: doverosi collari iniziatici per parole mai complete quanto un gesto che cerca il padrone. Ma non basta masturbarsi con domande incaute. Le parole sono clausole da inserire a fondo pagina solo per farci dare torto, domestiche a cui tremano le mani prima di servire a tavola. Infondo lo sappiamo che l’affidabilità è aggettivo da auto tedesche. Quando rincasiamo allora rubiamogli almeno le ruote, fracassiamo gli specchietti, pisciamo sui finestrini. Assecondare il desiderio incestuoso di far accoppiare le parole con i silenzi. Tutta roba sottobanco. 25


Infilare una mano tra le gambe del destino

Tratto da Isis Maria di Marco Castagnetto

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Infilare una mano tra le gambe del destino Frammento N. 13 da “Infilare una mano tra le gambe del destino” – Asinamali 2015

Carmine Mangone

La cosa più ardua è ripristinare ogni giorno la mia carne desiderante – tendere una mano per carezzare l’esistente, toccare senza compiacimenti – e far sì che divenga una macchina da guerra capace di assediare l’essenziale senza svilire le tue insegne, né tradire l’intesa. Parlare di guerra, per me, non è parlare di ordini, uniformi o scontri tra luoghi comuni armati. Le parole d’ordine, combattendo aspramente dentro e fuori di me, su piani variamente intersecati, lasciano il posto ad una logica dell’insurrezione (o la preparano). Le uniformi si rivelano un surrogato del carattere sotto un cielo già ampiamente provato. I luoghi comuni non possono più trattenere le linee di fuga, le incostanti che portano all’evasione, né possono recintare quell’esilio che si vuole come unicità (e apertura verso l’unicità) anche nel disastro. Bella parola, «insurrezione» (la Empörung di Stirner…). Dentro di essa, in risonanze che hanno a che fare sempre con l’irrompere di un’unicità che ostacola ogni tentativo di costruir leggi o monadi, vi è tutta un’erotica della sollevazione, cioè un divenir-barricata dei corpi, un divenir-sciame delle loro carezze, un fare breccia, un fare mondo, 27


insieme ad un dislocamento senza posa di questi stessi movimenti per evitarne la reclusione in sistemi o strutture di potere. E se «insurrezione» sembrasse parola ancora troppo “maschile”, troppo legata a concezioni virili ed erettili, la si potrebbe sempre squadernare in un brulichio di tumescenze che si fa tumulto senza sesso o con tutti i sessi possibili. Anzi, le potrei chiamare tumultescenze, in questo mio moto gioioso e arcimboldesco dove anche le idee fanno l’amore. Perché l’insurrezione è gioia. È crogiolo d’ali, danza di pettirossi sulla neve, nonché tutta la potenza del divenire che esplode in questa stessa danza. Le nostre carezze sono orme sulla neve, segni che bramano il disgelo. L’orma è il segno di un’intensità. Intensità del desiderio che attraversa il mondo. E che combatte. Dunque, si abbattono o si aggirano gli ostacoli che incontriamo sul cammino. Ci si costruisce ali per sorvolarli. Si combatte dentro il ricordo stesso del nostro passaggio. Ma la neve ritorna, come lavagna immacolata, a coprire ogni protervia e a indurre ogni volta un nuovo desiderio di ruscellamento. – Abbandonate la mediocrità. Siate nulla. Siate un nulla che invagina il colmo eludendo i vuoti. Bisogna ficcare due dita in gola alla società, farle vomitare tutto il potere rappreso. Non si pone un punto interrogativo davanti al corpo senza che la questione si faccia carne. Il corpo rimarrà pur sempre un affronto per ogni sentenza.

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L’atto del sollevarsi. Del sollevarti. Del prenderti per mano. Nell’insorgere accanto. Contro. Per non sguazzare nelle idee già pensate. Ostinazione gioiosa. Per scoprire piani, inventare luoghi. In un oltre che non sarà mai oltraggio. Ti sollevo dai tuoi stessi umori. Mi ci dibatto. Amo te. Mi batto per te. Fiori di saliva sul muro di carne che sarà la morte. Mi dibatto, ti pongo in atto. Tu insorgi. Tu sorgi sulla tua stessa pelle. Come sole che si avventi sul giorno. Insorgi, scorri, imperversi. Tu, fuoco liquido, clausola immensa della mia nuova carne. In anticipo sulla vita, mi dibatto in te, inciampo con te. Grido. D’un grido che si annette ogni voce. Solo tu mi senti, solo tu. Voglio più destino, ancora più potenza. Prendimi per mano. Resta con me. La sera è fredda. Cerchiamoci una breccia. Ormai ci siamo quasi, ci siamo quasi…

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Stati di realtà apparente #3

© Luca Cini

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Intermittenza Mara Abbafati

Lui aveva gli occhi belli e tirava le bottiglie vuote sulla sabbia del fiume insieme a me. Al dodicesimo lancio mi domandò se sapevo dove aveva messo l’albero di Natale, ma io a casa sua non ci ero mai stata. «Perché adesso vuoi sapere dov’è l’albero di Natale?» chiesi io. «Domani vengono i miei a cena e voglio che la casa sia bella». A quel punto si agitò e volle andare subito a casa a cercare l’albero. Andai insieme a lui per aiutarlo e dopo aver tirato fuori tutto quello che c’era in cantina finalmente lo trovammo. Salimmo in casa e lo decorammo con le palline colorate e le luci intermittenti, alla fine eravamo affamati e mangiammo gli spaghetti al pomodoro. Non mi ero mai divertita così tanto, però non glielo dissi. Lavammo i piatti, io li asciugai e mentre appoggiavo le tazzine da caffè sul ripiano, suonarono al citofono: era la sua ex che voleva vendergli una polizza sulla vita. Se ne andarono in soggiorno a leggere il contratto dell’assicurazione, si chiusero dentro e mi lasciarono nell’ingresso, la luce era fulminata. Dopo un’ora capii che era il momento di andarmene, mi avvicinai alla porta del soggiorno per salutarlo, l’aprii piano per non disturbare e li vidi mentre litigavano: lei gli diceva che era pazzo e che non avrebbe dovuto fare l’albero di Natale, così lui iniziò a disfarlo. Richiusi la porta senza farmi sentire e andai via. In strada la gente ascoltava il concerto di Ferragosto.

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Biciclettare

Š Elisa Saracino

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LindWurm Federica Gullotta

Per amicizia, per il cuore azzurro del Baranci, per le asole consunte, per l’ingresso asciutto del pub, per il chiasso che ti perdona: sei degno dell’ultima cena è una filosofia della sconfitta, questa, devi avere un dolce verme un dolce verme che impara le lotte del suo entusiasmo Hai toccato troppo splendore hai avuto troppa onestà hai agitato troppo sapere nella feccia del Sole

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L’Irrequieto Rivista Letteraria

Associazione Culturale L’Irrequieto Firenze - Paris


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