L'Irrequieto - Numero 1 - Luglio 2010

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L’Irrequieto Rivista Letteraria

Associazione Culturale L’Irrequieto Firenze - Paris Luglio 2010 www.irrequieto.eu redazione@irrequieto.eu © Giacomo Braccialarghe


DIREZIONE Alessandro Xenos, Donatello Cirone

REDAZIONE Alessandro Xenos, Donatello Cirone

CONCEZIONE E REALIZZAZIONE GRAFICA Luigi Balice

DISEGNI E LOGO Giacomo Braccialarghe

WEBMASTER Donatello Cirone

INFORMAZIONI E COLLABORAZIONI info@irrequieto.eu / redazione@irrequieto.eu

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Indice pag 5

L’involucro di Giovanni Floreani

Racconti Il soffitto con gli specchi pag 17 di Donatello Cirone

Poesie pag 23

Colui che chiamate Celeste

pag 25

Le diroccate case dei poeti nomadi di Donatello Cirone

pag 27

Al mulino della vergine

pag 29

Bonsai color panna

di Alessandro Xenos

di Alessandro Xenos di Donatello Cirone

pag 31

Sul greto del Sec di Alessandro Xenos


pag 33

Come voi volete di Donatello Cirone

pag 34

Le mie mani aggrappate

pag 36

Aria per i denti di Donatello Cirone

di Alessandro Xenos

Foto/Disegni Hellskitchen di Elise Reinke

pag 15

Woman di Giacomo Braccialarghe

pag 21


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Editoriale L’involucro Giovanni Floreani

Il nostro mondo, il mondo attuale, ci ha abituato ad assumere ed assimilare il tutto con una facilità allarmante e ad una velocità indicibile; e non vi è differenza, nella forma, fra aree geografiche, appartenenze sociali, livelli culturali o dimensioni professionali. Si potrebbe palesemente affermare che questo aspetto della globalizzazione infierisce su chiunque. Fatte salve alcune zone del pianeta dove la vita, per quel poco di incontaminato che ancora esiste, scorre a ritmi per noi inimmaginabili, il Consumo ha invaso la terra, auto-connotandosi, al di fuori del nostro controllo, quale peggior virus deleterio di tutti i tempi. L’uomo si illude di poter coniugare ricchezza e sostenibilità attraverso forme evolute di organizzazione sociale, forte, a suo dire, della enorme conoscenza tecnologica sviluppata soprattutto nella seconda metà del XXI secolo.

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Nella realtà così non è: gli esempi che vanificano tali chimere appaiono quotidianamente sotto gli occhi di tutti noi. Ma non c’è il tempo, né la volontà di avvertirli. La frantumazione costante che invade il nostro tempo e il nostro spazio appare come un’effimera soluzione che inevitabilmente si trasforma in un accumulo di problematiche; un intervento pensato per interrompere flussi negativi ed antiproduttivi, diventa esso stesso elemento di incalzante asfissia. Il frantumare, questa azione apparentemente disgregante, distruttiva, ma al tempo stesso provocatoria, modificatrice, assume spessori opposti alla sua natura: si frantuma aggiungendo laddove già c’è troppo. Un banale esempio? Gli asfalti delle città. Costruire, demolire, ricostruire… è un continuo rimaneggiare che stride con il concetto di super organizzazione ostentata dalle amministrazioni pubbliche. Il paradosso del nostro tempo è che noi tutti viviamo dentro la frantumazione, lamentando una insostenibile tensione da essa provocata. Talvolta tentiamo apparenti rivoluzioni; quasi sempre la riposizioniamo. Vale a dire che per implicita necessità le attribuiamo valori e valenze rassicuranti e “necessarie”. Aggiungere è divenuto un percorso obbligato cui nessuno di noi può sottrarsi. Le tecnologie, ma non solo esse, tutto ciò che nasce per rendere la vita dell’uomo più agiata e age-

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vole, sono sostanzialmente “estensioni” dell’uomo stesso, plugin, più o meno virtuali, da cui l’uomo è costantemente attratto e che l’uomo “deve” possedere. Le “cose” debbono essere a portata di mano, dentro noi se possibile; si è giunti a livelli terminali per cui il desiderio palese, premessa di una faticosa conquista, lascia spazio al morboso bisogno di “avere”. Si possiede per l’esigenza di possedere. Frantumare quindi per moltiplicare, per riempire, per aggiungere, per rimettere in circolo con forme, colori, suoni diversi, ma uguali; per offrire all’uomo un’alternativa alla Spiritualità, troppo impegnativa ed ingombrante in un mondo dalle mille e una soluzioni immediate. L’agglomerato urbano, vale a dire un luogo che oltre a soddisfare le esigenze dei suoi abitanti in senso logistico, “impone” loro un determinato comportamento che favorisce atteggiamenti spesso artefatti o comunque “progettati per”, diventa una scatola, in tal senso, costruita ad hoc. Il contenitore, a sua volta, interna altri involucri che diventano spazi precostruiti apparentemente per collocare esigenze diversificate, che di fatto, tendono ad enfatizzare separazioni sociali, stratificazioni urbane e nette diversità dei luoghi. I centri commerciali sono un esempio esplicito: migliaia di persone, ogni giorno e soprattutto nei fine settimana, invadono ampi spazi non già per acquistare i prodotti esposti negli innumerevoli negozi, piuttosto per trascorrere una cospicua parte del loro tempo libero in un luogo protetto dalle intemperie, dal

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traffico e dall’inquinamento, dalla invivibilità della città frenetica. Appare sconvolgente che perfino nei pacchetti viaggio a Dubai o Sharm el Sheik, siano previste visite guidate nei grandi trade market. D’altra parte le stesse Twin Towers in gran parte, erano costituite da negozi e uffici commerciali; colpirle aveva un significato simbolico estremamente forte e, purtroppo, anche un risultato certo e agghiacciante in termini di distruzione di vite umane. Ciò che però vorrei qui commentare è soprattutto l’influenza del luogo-città per quel che riguarda l’atteggiamento umano; non che altri luoghi , o situazioni, siano meno influenti, da questo punto di vista, sul comportamento umano (mi viene in mente la canzone UN’IDEA di Gaber che racconta degli atteggiamenti umani spesso intrapresi per significare qualcosa di non spontaneo e spesso estraneo alla persona che li assume, facendola quindi divenire personaggio: “quando, seduto nello scompartimento del treno, assaporo il gusto del viaggio voglio fare l’intellettuale e quindi leggo Hegel…”). La città, però, spinge e acuisce una certa forma di egocentrismo e di protagonismo, mentre al tempo stesso, provoca la solitudine e gli isolamenti. Le città sembrano dei contenitori ricolmi di umani, stipati, costretti, rinchiusi; le persone ne vengono attratte come se fossero dei pezzi di metallo che inesorabilmente vanno verso la calamita.

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Immagino questi contenitori nel “cosmo” indefinito, da essi proviene luce, rumore, confusione… ma restano comunque forme isolate di vita con scarsa interconnessione e, paradossalmente, uguali nei comportamenti, nelle abitudini, nell’organizzazione sociale. Quindi la città, sofisticata forma di organizzazione sociale, assolve al suo compito? Riesce a mantenere le promesse per le quali i suoi abitanti hanno deciso di viverci? Questo aspetto, evidentemente, riguarda più che altro l’elemento psicologico: intendo dire che riflette un’analisi del rapporto dell’uomo su uomo, modificato e modificabile in relazione alla quantità. Tuttavia le differenze fra le grandi metropoli e le città cosiddette di provincia, non sono enormi. Anzi, probabilmente questi aspetti si evidenziano maggiormente nelle piccole città: “mi preparo per uscire a cena, o per un aperitivo….” , “vado in centro a fare una passeggiata”, c’è l’idea che “il centro” sia sempre il punto di riferimento. Il forestiero che arriva in città chiede quale sia la direzione per “il centro”; i negozi più raffinati sono “in centro” e via dicendo. La tendenza , sempre più evidente, ad “abbellire” le città, fa sì che essa divenga una grande casa d’abitazione organizzata in modo tale da offrire “godimento” in ogni suo spazio ed in ogni sua funzione. Uscire, quindi, da uno “spazio privato”, la casa, e immergersi in uno “spazio

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condiviso”: la città. Si tratta di spazi identici; ciò che cambia sono solamente i volumi. Qui si insinua il maquillage urbano. Per esempio è abbastanza in uso la tecnica del “rivestimento” degli edifici usurati e obsoleti dal punto di vista estetico. Si interviene coprendoli con un rivestimento più adeguato, un “cambiamento d’abito”, di fatto. E’ altresì sempre più frequente, nelle città, un ricco e sontuoso fiorire di aiuole opulente, piccoli giardini che sembrano gioiellini intoccabili, fino ad arrivare, soprattutto nelle grandi metropoli alle ricche e altisonanti architetture moderne. La Città, dal centro alla periferia: se visualizziamo la città dall’alto come un “tiro a segno” fatto di cerchi concentrici che si espandono dal centro alla periferia, forse ci viene spontaneo attribuire ad ogni fascia un punteggio, una valutazione. Se scocchi la freccia e colpisci l’ultima fascia, gli altri concorrenti sicuramente ti derideranno, allo stesso modo se abiti nella periferia “non abiti nella città”. Quindi la città diventa elemento disgregante, genera razzismo, provoca incolmabili distinzioni e pericolose differenze. L’idea della progressione concentrica dal + al - appare evidente nelle organizzazioni di tutte le città; penso, ad esempio, anche a certe città medievali che, oltre ad esprimere questa struttura in maniera lampante ne esasperano il significato, unendo allo sviluppo orizzontale anche

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la progressione verticale, vale a dire la città che sale. Probabilmente una evoluzione architettonica del “castello” dove il punto più al centro e più elevato, e’ anche il luogo più protetto e più importante. Nella città moderna, tuttavia, questa armonia urbana e architettonica viene spesso e sempre più frequentemente meno: da un lato certi azzardi costruttivi in luoghi impensabili (penso ad esempio, certe esperienze recenti a Parigi nel quartiere de la Chapelle), dall’altro l’abitante stesso che non rispetta più una gerarchia delle frequentazioni progettata e quindi imposta. Non mi riferisco solamente ai clochard o ai senza tetto che si aggirano nei salotti-centro come niente fosse. Penso, piuttosto, agli abitanti “della periferia” che di fatto si mescolano a quelli del centro senza che vi sia alcuna differenza (comportamentale, estetica, di linguaggio, ecc). Spesso certi luoghi “pensati per” dagli enti preposti, modificano totalmente la destinazione d’uso originaria, in relazione al tipo di frequentazione determinata dalla “gente”. L’estremismo di questo concetto si esprime anche con altre forme più o meno interessanti, di “organizzazione sociale urbana”. Gruppi di giovani si ritrovano in uno spazio di pubblica frequentazione in maniera apparentemente casuale; effettuano momentanee forme di ostruzionismo urbano e poi scompaiono. Altri si ritrovano in luoghi inusuali ad

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ascoltare la stessa musica (un DJ prepara apposite playlist condivise) attraverso i lettori mp3 portatili. Insomma una rilettura della città che, in qualche modo, frantuma o comunque interferisce su questa idea statica, rigida della concentricità. Un capitolo a parte può essere dedicato alla “musica della città”, e non intendo, ovviamente, solamente il cosiddetto intrattenimento nei locali oppure le performance di artisti da strada che spesso si possono incontrare nelle piazze, agli angoli delle vie del centro, nelle metropolitane. Penso ai suoni-rumori che l’involucro urbano produce e amplifica. Vi è, a mio avviso, uno stretto rapporto fra il soundscape ed il landscape, vale a dire l’ambiente sonoro e il prospetto visivo; senza addentrarmi in elaborazioni scientifiche di tecnica acustica, vorrei semplicemente affermare che la fruibilità positiva o negativa di un rumore - suono è direttamente proporzionale alla collocazione del suono stesso in relazione anche, alle barriere, agli ostacoli ed ai setti deviatori esistenti nel tracciato dell’onda sonora. Posso tranquillamente asserire, senza volontà di polemica, ma semplicemente per correttezza di analisi, che poco o nulla si fa per ammorbidire l’equilibrio fra spazio e suono. Non vi è cura di questo aspetto nemmeno negli spazi chiusi adibiti all’ascolto (auditorium, teatri, cinema, ecc) quantomeno nelle case e negli spazi lavorativi. A maggior

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ragione tale aspetto, importantissimo, viene maldestramente trascurato nell’involucro città. Pur tuttavia l’orecchio umano si è assuefatto alla barbarie sonora cui è stato costretto negli ultimi decenni tanto da perdere, in termini di decibel, almeno il 30% della capacità uditiva. Sostengo anche che l’eccessivo rumore genera pericolosi stati di stress e nervosismo provocando patologie talvolta non identificabili. Accanto alle tante “giornate del” che spesso riempiono il nostro tempo moderno appagando transitoriamente il nostro senso di colpa per non volere-potere dedicare momenti personali alla solidarietà collettiva, bella potrebbe essere l’ipotesi di coniugare la “giornata del silenzio”. Ciò detto, immagino una scatola metropolitana dalle sonorità contestualizzate, quantunque esagerate. La città, quindi, emana le proprie sonorità come lo fa un bosco, un paesaggio marino, una foresta o un deserto; le manipolazioni o le enfatizzazioni dei suoni-rumori acquisiscono una loro ragion d’essere se avvengono per stimolare un senso o per “progettualità”. Quasi sempre il manifestarsi di un suono, seppur scarsamente tollerante, invita all’armonia se è collocato in un adeguato contesto. E’ evidente che l’approccio a forme di acquisizione sonora inusuale o talvolta stridente, richiede uno sforzo oltre misura di com-

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prensione e di accettazione; evidentemente impossibile a realizzarsi se non passando attraverso auspicate forme di educazione musicale, sonora oltre ad una adeguata abitudine all’ascolto. Al contrario la scala dei valori sonori delle città, in genere è il risultato di un’accozzaglia di segnali che, seppur nell’evoluzione del tempo, è inconsciamente accettata e, spesso, condivisa. Questa considerazione può essere, peraltro, assunta come realtà oggettiva di un degrado sonoro ampiamente diffuso, ma raramente osteggiato: per assuefazione, rassegnazione o, al contrario, per uno pseudo-consapevole piacere acustico o un masochistico piacere del massacro uditivo. Ciò che induce a riflessione non è tanto la tentazione ad assumere segnali audio estremi (anche nella cosiddetta Natura esistono e l’uomo li ha sempre sopportati) quanto la prolungata esposizione ad essi. Ma tutto ciò dipende solamente dalla volontà umana, come forzata esigenza di prolungare il più possibile sensazioni estreme, oppure è la stessa forma architettonica dell’Involucro a indurre simili tentazioni?

Giovanni Floreani: musicista ed operatore culturale di lungo corso, viene da lavori che da oltre un decennio

hanno ripreso modi, forme, repertori della tradizione orale friulana. La sua creatura Strepitz (in friulano significa strepitìo, frastuono ma anche confusione e mescolanza di rumori) è un ensemble dal nucleo flessibile, Strepitz ha esplorato aspetti ritmici, ritualità, prassi vocali della musica orale popolare, indagando il rapporto tra naturalità e manipolazione umana dei suoni e incrociando sintassi musicali della contemporaneità, linguaggio improvvisativo controllato, procedure multimediali.

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Hellskitchen

© Elise Rinke

Elise Rinke: è nata a Burbank, California il 19 Settembre 1986. È una fotografa, laureata in fotografia pres-

so la California State University di Los Angeles. Nell’estate del 2006 ha studiato a “The Darkroom-Istituto Internazionale di Fotografia” di Firenze. Dopo tanti viaggi tra Los Angeles e Firenze, si è trasferita Londra, dove vive attualmente.

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RACCONTI


Il soffitto con gli specchi Donatello Cirone

La mattina del trenta febbraio Ismaele Giudici uscì di casa con uno strano sentore di improvviso. La città era stranamente viva, lui stanco e annoiato. I turni in fabbrica si accorciavano sempre più, il licenziamento si avvicinava. Il bar era come al solito vuoto, lo sgabello scomodo. La birra fresca scendeva leggera, le bolle si schiudevano in bocca e uscivano dal naso solleticandolo. Gli occhi stanchi erano il segno più evidente dell’insonnia e i capelli ricci erano arruffati, la fronte sudata. Le mani affaticate dal continuo logorio tremavano. Guardò la macchina e decise di lasciarla lì, avrebbe camminato. Le strade nel frattempo si erano svuotate, le voci di prima avevano fatto posto alla solitudine e all’assente latrare dei cani. Una volta arrivato a casa posò le chiavi, sistemò il cappotto all’attaccapanni e si spogliò. Riempì la vasca fino all’orlo e s’immerse, l’acqua traboccò per essere assorbita in parte prima dai vestiti lasciati lì a terra

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e poi fin sotto il tappeto. Era fermo, con la testa rivolta verso l’alto a specchiarsi. Gli specchi montati per un capriccio di Brigilda che prima di scappare di nascosto aveva voluto l’intero soffitto ricoperto da specchi. Per quel desiderio Ismaele aveva fatto anche i turni di notte e firmato settecentoquarantadue grammi di cambiali. Poi era andata, fuggita non si sa dove e neanche con chi, scappata nel nulla. Ismaele fissava il suo corpo dall’alto: l’immagine dissolta e deformata dal riflesso dell’acqua sembrava la foglia d’autunno caduta nella buca lungo un viale calpestato mille volte da mille uomini pesanti. Era stanco Ismaele della fabbrica e dei rimproveri. Era stanco di soffrire per un passato oramai sbiadito dall’acido accumulato, Brigilda era andata, scappata da più di due anni. E per quei maledetti due anni aveva vissuto ramingo in cerca d’amore; come tutti del resto. La sveglia, il caffè, il cartellino timbrato, la pressa in fabbrica, pranzo in mensa. Lavoro fino alle sei, il bar e la birra fresca. Una mezza parola con il barista e a casa. Doccia, cena in forno microonde, un po’ di tivù e poi un occhio alla rivista di motori, poi gli occhi fanno male e ancora un po’ di tivù. Il sonno lo si aspetta improvviso ma, prevedibilmente la notte si consuma e gli occhi sbarrati intravedono le prime luci. La sveglia inutilmente suona : una nuova giornata. Per oltre due anni Ismaele aveva vissuto muto e solo. La ripetitività del suo vivere lo stava distruggendo, tutto di lui si stava disgregando come le fibre d’una gazzella sotto i morsi d’un branco di leonesse gravide.

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Il doloroso addentrarsi in sé lo aveva isolato in una camera buia, la sua vita proseguiva come un viottolo di campagna mai battuto. Era fermo Ismaele, il rumore sordo dell’acqua che sbatteva contro le pareti bianche della vasca era l’unico percettibile rumore della casa, tutto in quella casa era fermo. Continuava a guardarsi e non si rivedeva, dove era Ismaele? Dove? Il sentore della mattina si concretizzò: l’improvviso avvertito mentre faceva colazione divenne reale; molto reale. Si levò dalla vasca con forza, poggiò i piedi sul tappeto e si diresse in camera, di spalle si lasciò cadere sul letto, era nudo e bagnato. Le piccole goccioline fra i peli della sua schiena vennero subite assorbite dalle lenzuola, infiniti piccoli rivoli d’acqua alimentati dalle altrettante goccioline condensate sul suo petto villoso scendevano prima lenti e poi sempre più veloci con l’aumentare della curvatura della pancia verso le lenzuola. Quella notte Ismaele dormì profondamente, recuperò i suoi due anni di vita e di sonno. Si addormentò così nudo e bagnato sul letto con le lenzuola nere. L’indomani si alzò alle undici mangiò un’abbondante colazione con gusto, si diede una sciacquata alla faccia, sistemò un po’ casa e cambio il paio di lenzuola con un altro di un bel colore giallo canarino. Quella stessa mattina chiamò la fabbrica, si fece passare il suo caporeparto e gli comunicò il suo licenziamento con alcune dolci e sentite frasi che sarebbero state censurate perfino dal demonio in persona,

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scaricò attraverso quella cornetta la rabbia nascosta da sette anni di soprusi e umiliazioni. Esaudì il suo più recondito desiderio. Rimise la cornetta al suo posto si sedette sul divano e si godette il suo momento: l’ultima volta che aveva provato quella piena sensazione di soddisfazione fu quando distrusse tutti i vetri della macchina di Luca Dorem, il fruttivendolo. Aveva cercato di toccare la sorella una volta che era andata da sola a comprare le arance fresche. Ismaele aveva dato una svolta diversa alla sua vita, quella sporca e striminzita maglia che aveva addosso sarebbe diventata una splendida lunga giacca che gli avrebbe coperto tutto. Ismaele riprese in mano la sua vita e il suo mondo per vivere quello che c’era da vivere al meglio, senza rincorrere l’equilibrio o chimere inutili, senza cercare di strafare. Vivere respirando aria e mangiando pane. Bere direttamente dalla sorgente. Quella sera Ismaele uscì di casa felice. Aveva il vento sulla faccia, con fierezza gladiatoria si destreggiava fra la folla che si muoveva in direzione opposta alla sua, era uno scaltro matador. Mentre si dirigeva verso un locale in centro con passo sicuro si sentì chiamare, si girò e con estremo stupore vide materializzarsi dinanzi a se la figura splendente di Brigilda. Rimase basito Ismaele. L’assenza di salivazione gli impediva di parlare, le mani, le braccia, i polsi, le spalle erano pesanti, le gambe deboli. Ismaele non pronunciò una sillaba,

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Giacomo Braccialarghe: fè nato a Milano e ha vissuto a Firenze. Ha studiato all’I-

situto Statale d’Arte di Firenze. Finiti gli studi nel 1989 ha avuto varie esperienze lavorative nella grafica, web design e illustrazione. Nel 2004 ha cominciato a lavorare con il nome di Animaz Studio collaborando con nuovi e abituali partners e clienti nel web design, animazione 2D e illustrazione. Nel 2009 si è trasferito in Sud Africa portando ANIMAZ Studio a Cape Town.Recentemente ha avviato ANIMAZING Arte decorativa e animazione 2D.

Donatello Cirone: fondatote de L’Irrequieto, nato nella valle del Sauro, in Luca-

nia, il 28 giugno del 1986. Laureato in Scienze politiche. Ha pubblicato due silloge poetiche: La vita di una morte, LibroItaliano, Ragusa 2005 e Gl’oratori del nulla, Amorsog et Oream, Il filo -Roma 2007.

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© Giacomo Braccialarghe

nemmeno un impercettibile suono plasmarono le sue secche labbra. Muti si incamminarono verso casa. Lui aprì il portone, lei timorosa lo seguiva. Lei tolse il cappotto, lui fece lo stesso. Andarono in camera si spogliarono, lei si sdraiò lui fece lo stesso. Tutt’e due fissarono il soffitto per tutta la notte tenendosi per mano.


POESIE

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La mia paura è la mia essenza, e probabilmente la parte migliore di me stesso Franz Kafka

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Colui che chiamate Celeste Alessandro Xenos

Accade che i sogni siano spesso lontani e che le notti si tramutino in giorni. Sono solo e in mezzo a voi metto in gioco la mia chioma, i miei vestiti e questi miei occhi stralunati. Avete riso e con le vostre chiome, i vostri vestiti e i vostri occhi normali continuate a distillare pietĂ .

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Accade che le paure siano spesso vicine e che la sabbia si tuffi nel mare. Ho un cuore e la voglia di possedere tutto forse un’anima e la voglia di non averla. Mi sono spogliato della mia consumata età. E mentre guardate il mio corpo nudo ho il nobile desiderio di non capire per farla finita con tutto. Accadrà.

Alessandro Xenos: fondatore de L’Irrequieto, Nato l’8 ottobre 1986. Dopo aver conseguito una laurea trien-

nale in Scienze Politiche alla Facoltà Cesare Alfieri di Firenze, decide di trasferirsi in Francia per continuare gli studi. Iscrittosi all’Università di Montpellier, lavora per alcuni giornali locali e consegue un Master 2 in Giornalismo nel 2012. Dal 2013 vive e lavora a Parigi, dove continua ad amare la poesia in tutte le sue forme.

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Le diroccate case dei poeti nomadi Donatello Cirone

Le stanze dei poeti sono anguste e strette con il pavimento ruvido e bianco scricchiolante con le assi di legno tarlato. Sui soffitti delle stanze dei poeti corrono liberi leoni rincorsi da gazzella affamate, cicale mute e coccodrilli sorridenti, si arrampicano sulle grosse ginestre scoiattoli innamorati e leopardi con in groppa bisonti ladri.

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Nei laghi dolci squali dalle pinne nere e carpe senza spine sguazzano tenendosi per le branchie chiuse. Nelle stanze dei poeti s’aggira l’allegria con indosso un vestito nudo ed un maschera di cartone. Nelle stanze dei poeti i sogni si riducono e le puzze si colorano ed i fiori crescono fra i capelli. Nelle stanze dei poeti il mare riempie a metà una bottiglia finita di vino.

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Al mulino della vergine Alessandro Xenos

Cammini con le labbra bagnate da un giuramento perso sulla strada dove acri i lecci si sfiorano alle sue ultime parole Un’ombra ti protegge nel giugno violento dai passi del monte che vi ricorda insieme Una frase mozza t’arrossisce i ricordi e come la notte sul tempio sopra il silenzio quattro dame si piegano prone a pararti dal vento

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Ti sdrai e pensi “dove farò l’amore la prossima volta?” Le tue mani si stringono con forza alla terra mentre schizzi d’autunno ti colorano i seni laddove il sogno candido sfiora ancora il piacere Un odore tiepido t’avvolge tra un suo bacio sulla fronte e la fremente attesa al Mulino della Vergine.

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Bonsai color panna Donatello Cirone

Quanto valore dare allo svolazzare fastidioso e voglioso di una zanzara? Ho abbracciato i miei Nemici per bagnarmi del loro sudore acre, assorbire i loro liquidi, ricordare i loro odori nel caso di una cecità improvvisa. Ho mangiato con loro per entrare fra i loro denti marci e cavi. Ho fatto l’amore con le loro mogli per bere la loro felicità e profumare le loro lenzuola con il mio seme acquoso. Ho spinto a braccia le loro

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carrozze senza ruote per accompagnare le loro figlie all’altare. Ho seduto i loro posti e guardato il mare con i loro occhi sani. Ho raccolto nell’ampolla della vendetta le lacrime da loro versate e ho annaffiato il mio bonsai. Quel bonsai che adesso non fiorisce piÚ.

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Sul greto del Sec Alessandro Xenos

Sul greto del Sec nascosta s’appoggia una farfalla, una piccola ranocchia fugge gli schizzi che dai sassi si librano sopra di lei, un ricordo di ramo scivola lungo le onde accarezzate del torrente. Il nobile legno che disposto s’addormenta in fila accudisce i germogli che dalla fonte saltellano giù dal monte, mentre il caldo meriggio s’acquieta tra i noci e i pini ch’ancor liberi si ergon sul giorno. Le sue deboli mani arrossiscono al piacere di vedersi riflesse e il suo volto altrove sognato s’allunga sulla valle, come un attimo di fuga scattato a piene mani.

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Le sue palpebre sobbalzano al tenor nel vento ch’accompagna quest’idillio e quando il canto tace ne ricordano il rumore. Gracile è il Sec tra le nostre parole che con forza di boschi s’arrestano in baci. Stendo e conto le tue dita su cui il piacer si posa e dimentico le cifre che m’addossavano la mente. Duemila stelle in immensi addii del cielo sopra il buio della notte e molti più uomini a valle già scorsi nell’ombra di ieri. Sosto qui e lento è il mio abituarmi a vivere.

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Come voi volete Donatello Cirone

Iniziava quasi a piovere e la corrente ci portava sempre piÚ allo straripo, la flotta dei combattenti mercenari spingeva a gomiti alti e le lumache di notte aprivano la strada bianca, i centurioni col toro si davano alla carica e alla soma della Statua, i crociati pregavano e a turno si prestavano le spalle aiutandosi coll’olio, e i bravi legionari limavano le spade coi denti strappati da vivi ai loro morti e io coll’asino di stoffa cavalcavo sui galoppi di cavalli persi nel sonno.

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Le mie mani aggrappate Alessandro Xenos

Vene aggrappate alla penna puntellano il foglio mentre brandelli di foto strappati s’arenano a terra Fermo soffiato dal vento il caffè s’uccide e si cela in questa brezza schiarita Un punto sull’altro senza più senso né forma per il tremore di libertà che adesso mi ruba i vestiti e che domani m’avrà come sempre m’avuto

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ai suoi piedi Fuggirò l’amore il giorno in cui un dio vestirà il mio ventre d’animale da tiro perché convulso a terra mi sveglio quando il gelo da fuori a suo piacere mi prende Irrequieta è la notte sul mare d’inverno che ci vede affollati tutti nudi a danzare.

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Aria per i denti Donatello Cirone

Ho frequentato parole vestite da sera che fumavano paglia d’importazione. Parole di giorno che si aprivano al pianto regolandosi con l’ora, le ho viste magre e nude. Ho pranzato con parole stanche, mangiato con loro del brodo freddo, (Usate come carta igienica buttata in una tazza di lettere futuriste.)

Al caldo del sole si sono sciolte, per Essere Diventare aria, nuvola, goccia. Ho visto parole ingabbiate dal tubo

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catodico, le ho viste in bocca a gente che le masticava come carne cruda. Le ho viste disperarsi perchĂŠ vendute al miglior offerente al mercato del pesce. Sul letto ferme tutte le parole del mondo si sono spente lasciandoci muti con i denti bianchi, la gola molle e la libertĂ appesa alla tela del ragno.

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L’Irrequieto Rivista Letteraria

Associazione Culturale L’Irrequieto Firenze - Paris


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