L'Irrequieto - Numero 21 - Maggio 2016

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L’Irrequieto Rivista Letteraria

Associazione Culturale L’Irrequieto Firenze - Paris Maggio 2016 www.irrequieto.eu redazione@irrequieto.eu © Giacomo Braccialarghe


DIREZIONE Alessandro Xenos, Donatello Cirone

REDAZIONE Donatello Cirone, Luca Saracino, Luigi Balice, Alessandro Xenos, Elisa Saracino

CONCEZIONE E REALIZZAZIONE GRAFICA Luigi Balice

DISEGNI E LOGO Giacomo Braccialarghe

WEBMASTER Donatello Cirone

INFORMAZIONI E COLLABORAZIONI info@irrequieto.eu / redazione@irrequieto.eu

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In questo numero Exit #1 di Luca Cini Tutti i particolari in cronaca di Mara Abbafati I melograni: Tina / Il ragno di Luca Saracino ma/re #24 di Roberto Pireddu Il passaggio in auto (10a parte) di Alessandro Xenos Poi c’era lei di Lina Liebe L’indaco sotto i piedi di Donatello Cirone Bolle di Andrea Bondini quale equilibrio di Giuseppe Semeraro Casa dolce casa di Nicola Lonzi Stazione Termini di Boris Berlioz


Exit #1

© Luca Cini

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Tutti i particolari in cronaca Mara Abbafati

Le bucce delle uova sode erano tutte ammonticchiate davanti al piatto sul vecchio tavolo di formica. Addentò il secondo uovo e masticando a bocca piena si voltò verso la finestra. La pioggia leggera imperlava il vetro coperto dalla condensa e l’alba era bianca. Afferrò il bicchiere alto, pieno di latte freddo, e lo tracannò bagnandosi il bordo superiore delle labbra. Si alzò per spegnere la macchinetta del caffè che gorgogliava. Lo bevve amaro, in piedi, appoggiato al piano della cucina con una mano infilata nelle mutande. Erano le sei, aveva tempo, il matrimonio non sarebbe iniziato prima delle dieci, ma decise di vestirsi e uscire a piedi. Camminò lungo la ferrovia, aveva smesso di piovere, il cielo era compatto e sembrava illuminato da centinaia di neon pallidi. Arrivato al terrapieno continuò dritto, costeggiandolo, verso la zona industriale. Dalla tasca della giacca nera un foglio arrotolato sbucava per metà. Le scarpe erano coperte di fango tutt’intorno e alcuni schizzi grigiastri erano finiti sulle gambe dei pantaloni. Non si sarebbe potuto

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presentare alla cerimonia in quelle condizioni, ma ormai non pensava più di andarci. Continuò a camminare verso la collina, la salita era piuttosto ripida e si era alzato un vento contrario. Opporsi alla pressione dell’aria sul petto lo faceva sentire forte. Sperò che quel vento non cessasse mai e che la strada fosse senza fine. Dopo ogni salita si stupiva di trovarci dietro ancora altra strada e altra ancora e proseguì meravigliandosi per quell’infinità di asfalto finché il colore del cielo si fuse con quello della strada e tutto divenne nero. A volte non si presenta la sposa, più spesso lo sposo, ma che non si presentasse il prete non era mai capitato, commentarono i giornali locali.

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i melograni Marta mi chiese se per il nostro appuntamento poteva estendere l’invito a un’amica. Risposi che per me non era un problema dato che fra noi non c’era niente di romantico e sperai che l’amica fosse bella. Ci incontrammo davanti alle casse automatiche dei grandi magazzini, l’amica si chiamava Tina, aveva un occhio pesto ed era biondo cenere. Seduti a un tavolo del fast food Marta e Tina parlarono a lungo di una vacanza che avevano fatto insieme quasi dieci anni prima, accennarono a un certo Thomas che ora faceva il fioraio in India e di quanto fosse stata meschina la professoressa di fisica del liceo. Io restai in silenzio per tutto il tempo ad ascoltare e bevvi un caffè infinito da un bicchiere di carta rossa. Fuori dal vetro screziato di polvere le auto sembravano procedere al ralenti, passarono due adolescenti coi capelli ricoperti di brillantina e una donna con in braccio una bambina dagli occhiali verdi. Più tardi in piedi nel parcheggio deserto, nel cielo caprifoglio il sole a sparire dietro un capannone, mi accorsi che Tina portava un apparecchio acustico e per un istante, non so perché, ebbi il desiderio di toccarlo. Accennai perfino un gesto di cui credo lei non si accorse e l’unica cosa che disse stingendomi la mano,prima di andarsene con un sorriso educato, fu che era contenta perché quella era stata davvero una bella giornata di primavera.

Tina 10


Il ragno Rubrica di Luca Saracino

La Bianchina miagola fino a che mio padre non va ad aprire la porta a vetri che dà sul cortile che sta sotto il bosco nero. Ogni sera i gatti portano a casa qualche serpente mi dice mentre abbassa la maniglia. Questa volta è morto ma bisogna stare attenti sai, a volte ci dimentichiamo la porta aperta e allora li portano anche in camera da letto oppure davanti al bagno. Per loro è come farci dei regali e ci capita di trovare un serpente a sgusciarci tra i piedi la mattina appena alzati. Chi lo sa poi che non portino anche dei serpenti velenosi, non si può mica sapere. Ho trovato serpenti ovunque: dietro le porte, dietro al frigo, sotto al divano, sopra il cuscino e anche nel barattolo dei biscotti. A volte di notte sento dei fruscii e allorami alzo 11

per controllare con la torcia ma di rado si riesce a beccarli di notte, sono furbi i serpenti, entrano in tutti i buchi. Solo col fuoco potresti essere sicuro di averli eliminati tutti, dando fuoco alla casa intendo. Ci tocca viver così, alla giornata, dormendo con un occhio solo e stando attenti a tutte queste serpi che girano per casa. I suoi occhi si illuminano e aggiunge: ti ho mostrato il ragno? Vieni, vieni dice e mi conduce in bagno dove indica una tarantola lunga mezzo metro acquattata al centro della vasca. Visto? L’altra mattina quando mi sono svegliato se ne stava immobile sul soffitto proprio sopra al letto e potrei giurare che mi stava fissando. Chissà come avrà fatto a entrare in casa, non credo sai che i gatti in questo caso c’entrino niente.


ma/re #24

Š Roberto Pireddu

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Il passaggio in auto parte decima

Alessandro Xenos

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Feuilleton

Claire le raccontò per filo e per segno tutto ciò che era succcesso da quando aveva lasciato Montpellier. Il furgoncino grigio, le risposte laconiche di Nicolas, il controllo della polizia, la reazione del ragazzo e l’inaspettata confessione che ne seguì. Si attese ai fatti e omise i dettagli riguardanti le proprie impressioni, come se si trattasse di un vero verbale della polizia. Arrivata in fondo si stupì della precisione del proprio resoconto. Dall’altro capo, Estelle ascoltò con attenzione senza interromperla e quando Claire ebbe finito, la ringraziò di cuore e riattaccò. La telefonata durò più di dieci minuti, ma Estelle non fece cenno alle sue ricerche. Le passò di mente. Le informazioni appena ricevute la isolarono da tutto ciò che la circondava, le persone, la musica, le auto che passavano, niente di ciò che le stava riuscì a distrarla. Quando tornò in sé si accorse che Adrien le stava parlando,


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probabilmente da qualche minuto. Si scusò per non averlo ascoltato e con fare deciso si congedò promettendogli di andare a trovarlo dopo cena. Aveva bisogno di concentrazione. Come spesso le capitava quando sentiva la necessità di raccogliere e riformulare i propri pensieri si incamminò verso il Peyrou, il giardino panoramico situato a qualche centinaio di metri dalla Pleine lune. A quell’ora d’estate il prato era sempre occupato da centinaia di giovani, ma Estelle non se ne curò, sapeva che dietro il castello d’acqua avrebbe potuto approfittare di una bella vista e di un po’ di tranquillità. Passando in mezzo a un gruppo di giocatori di frisbee intravide due compagni del quarto anno di medicina, ma fece finta di niente e si diresse a testa bassa verso il fondo della passeggiata. Si sedette a cavalcioni sul muretto di fronte all’acquedotto romano e cominciò a elencare nella sua mente tutte le informazioni in suo possesso. Se Nicolas diceva il vero, Sebastian gli aveva ordinato di trasportare il cadavere di un cittadino colombiano di nome Miguel Negredo da Montpellier a Montreuil per una ragione che ancora le sfuggiva, ma che era molto probabilmente legata al traffico di cocaina e di conseguenza alla sua nuova alleanza con Ruben, il capo di una giovane gang gitana. Inoltre, se le sue ipotesi erano giuste, un ragazzo di nome Jérôme, che abitava proprio dietro la cité Polie, spacciava per loro la cocaina appena ricevuta dalla Colombia. Questo Paese compariva per la seconda volta nelle sue ricerche e anche se non poteva fidarsi ciecamente della parola di uno spacciatore, la connessione tra

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Miguel Negredo e la nuova roba arrivata in città le sembrava evidente. Si disse però che avrebbe dovuto verificare innanzitutto l’identità del morto, perché Nicolas avrebbe potuto sbagliarsi. Fece una foto del passaporto con il suo telefono e la inviò a Claire accompagnata da un breve messaggio: «Verificate se si tratta della stessa persona». A un po’ più di 300 chilometri di distanza Claire impallidì. Capì immediatamente che non si trattava di uno scherzo e gettando uno sguardo a Nicolas si risolse a comunicargli il compito assegnatole da Estelle. – Ma sei impazzita? Non ci pensare nemmeno. – Dobbiamo farlo! Accostati alla prossima area di sosta e non discutere. – Ricordami, da quando in qua prendo ordini da te? – Da quando ho scoperto che compi azioni illecite, probabilmente complicità in omicidio, occultamento di cadavere, possesso di droga… devo continuare? – No, basta, ho capito…ma è troppo rischioso! Ti immagini se qualcuno dovesse vederci? – Non ci vedrà nessuno, non ti preoccupare.

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Fecero una cinquantina di chilometri prima di trovare un’area di sosta


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adatta. Il furgoncino grigio si accostò lentamente sotto l’ombra di una quercia nell’angolo più nascosto del parcheggio. Ai piedi dell’ultima cima visibile del Massiccio Centrale, Nicolas scese dal veicolo e raggiunse lo sportello posteriore. – Fammi vedere la foto. Claire gli porse il telefono gettandogli uno sguardo d’apprensione. Il ragazzo non ci fece caso. Con fare sicuro entrò nel retro e aprì la bara. Non ebbe bisogno di guardare nuovamente la foto. – È Miguel Negredo. Claire si avvicinò e riconobbe il proprietario del passaporto. Intervenne Adrien.

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CONTINUA NEL PROSSIMO NUMERO


Poi c’era lei

© Lina Liebe

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L’indaco sotto i piedi Donatella Cirone

Cercava l’indaco quella mattina, lo cercava sul corrimano, sulle panchine di pietra, sull’asfalto freddo. Lo cercava mentre, lentamente, si portava alla bocca la solita Kinder délice. Tutte le mattine, con lo sguardo perso verso qualcosa che nessuno poteva afferrare, mordicchiava la prima metà di quella brioche con una flemma innaturale. Labbra sottilissime nascondevano a tutti i suoi incisivi piccoli e marci. Quella prima metà restava fra le sue mani per almeno una decina di minuti, per quasi tutto il

tragitto del bus, il 33, poi, come se presa da un impeto demoniaco, con un gesto fulmineo si ficcava l’altra metà in bocca spingendola in gola con forza senza masticare, senza che i denti ne toccassero la copertura nera. Ingoiava quella metà in pochissime frazioni di secondi, il tempo di un sussulto, di una foglia di quercia recisa dal vento in cerca di terra, il tempo di due mani innamorate che si sfiorano, preoccupate dal peccato. Ingurgitava quel pezzo dolce e lo depositava nel fondo del suo corpo debole, smunto.

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Aveva i capelli radi, un cerchietto a pochi centimetri dall’attaccatura dei capelli la scaraventava nel fosso degli incompresi, in quella cerchia di individui che appaiano indifesi, sgraziati. Si muoveva nel mondo incerta, non appoggiava mai i talloni a terra, non sorrideva, non guardava il sole. Cercava l’indaco quella mattina, lo cercava dietro la sua scrivania, fra le dispense del corso di aggiornamento: “Peccati, sodomie e virtù della P.A.”. Cercava l’indaco fra le pratiche scolorite, custodite nell’armadietto del direttore, fra un permesso premio e una lettera d’amore. Lo cercava fra una pausa e una firma, fra un pensiero di morte e una preoccupazione giunta da lontano. Da anni mangiava sempre allo stesso modo la sua Kinder délice e consumava la sua vita in quell’ufficio al piano terra della Palazzina 96BiX, ed erano anni che passava il sabato in un

allevamento di pavoni. Non faceva nulla, si sedeva di fronte a loro e li guardava, interminabilmente li guardava. Senza mai parlare, senza mai toccarli. Non aveva mai tentato nemmeno di accarezzarli. Da fuori li guardava e basta. Si distraeva nel farlo solo quando Anica, come tutti i giorni, entrava nel recinto per spargere il mangime. Loro si agitavano per un paio di minuti e poi tornavano a vivere la loro vita lenta, a portarsi addosso quelle lunghe piume colorate con disinvoltura. Lei se ne stava davanti a loro a contemplarli, in silenzio, poi ogni volta, prima di andare via, si avvicinava al cancello, si inginocchiava, si aggrappava alla rete, si faceva assorbire dal terreno bagnato, rilassava i muscoli, abbassava gli occhi e piangeva. L’indaco alle sue spalle illuminava il recinto.

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Bolle

Š Andrea Bondini

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quale equilibrio Giuseppe Semeraro

in equilibrio sotto qualcosa togliendo qualcosa al passo un lampo per non cadere un punto nel cervello una fessura da tenere a vista, per sperare sul rasoio, che stare in equilibrio è possibile credibile almeno un equilibrio sotterraneo, clandestino, l’equilibrio del corpo umano sulla sopravvivenza che gira oggi ci ricorda il suo ghigno la mortificazione del soldo il debito della tristezza e ci aiuta l’infanzia di ogni giorno quando viene a tirarci la giacca a portarci via da qui da questi pensieri che a pezzi

salgono su se stessi creando l’equilibrio più disperato quello che ti fa confondere tra tempo e il suo desiderio. In equilibrio su niente a volte su questo sapore di notte di fine riscaldata in equilibrio su tutto per essere felici anche per la bellezza per la punta della vita sul precipizio di uno sguardo senza paura di guardare giù perché lì l’altro cielo è quello che infila le nostre vertebre e ci fa linea di un orizzonte solo quello che fa l’immaginazione dentro l’occhio il punto dove perdere l’equilibrio.

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Casa dolce casa Š Nicola Lonzi - serigrafia 2016

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Boris Berlioz

Polvere di me. Mi sgretolo nell’incertezza di un mare di voci, tante, un concerto mai ascoltato. Scurovestiti che si affannano, mani si stringono vigorose, occhi seri, guardano tutti dalla stessa parte. È un funerale. La voce di un parroco, mi pare quasi di conoscerla, si parla di me. Cravatte, elisir di benessere d’annata, una musica triste si leva, sollevando tutti da un peso. Parla il sindaco – una morte tragica ma la città è sicura, si tratta di un caso isolato – Andrea sarà il nostro angelo – sussurra, tenendo a debita distanza le orecchie del parroco, qualche progressista d’occasione. 25

Stazione Termini

Tacchi, ciabatte, zoccoli, ballerine, décolleté, sandali e stivali, piedi nudi – non sono la sola – macchie di un giorno come un altro. Si sfiorano veloci, evitandosi l’odore, fosse mai una malattia. Un terso grigio cala sulla notte il suo sipario che si riapre per dare spazio all’incerto ingresso della luce del mattino. Sono le sei e venti di un 29 luglio, data infausta, secondo alcuni. La città è tranquilla, io ho già fatto colazione. Poi è successo qualcosa. Sono caduta, faccia al suolo, “il treno Altra Velocità 197quattro1quattroquattroquattro in partenza per Pami…” non la tua voce, almeno… Decine di corpi muovono arti, avanti e indietro, una dolce cantilena. La stazione dei treni è un circo a quest’ora della mattina. L’ho sempre pensato. Un bastone, ancora una volta. Forse sto perdendo i sensi.


Sono uno dei vostri “mai più”. Non ho mai avuto paura della solitudine. È il terrore di non valere piuttosto, di trovarsi sola davanti a un piatto di pasta, una di quelle sere di primavera in cui ogni lacrima sembra inaccettabile. E valere per non valere ho deciso di vendere la mia anima, e non solo, ai paffuti frequentanti questo incessante mercato. Seduta su una mattonella conosciuta a miliardi di suole, comparsa statica e involontaria di sempre nuove insegne pubblicitarie, stordita dalla vostra mendace quotidianetà, sono io a spaventare i vostri bambini e, a volte, allietare le ore di qualche loro genitore. So come accontentarvi tutti, chi cerca un soffio di amore prima di compiere un delitto, chi una meccanica che renda meno doloroso il recente ricordo di una moglie lasciata davanti alla tv. Certo, il mio aspetto, la mia salute, fisica e mentale, non aiutano a sopravvivere. Ma in fondo valgo qualcosa, almeno per coloro che hanno troppa fretta per soffermarsi su altro. Vivo alla stazione per esorcizzare il cambiamento. Ho sempre odiato le partenze e ogni minima trasformazione dell’ambiente circostante. Bizzarro, si potrebbe pensare, sentire queste parole da chi ha voluto cambiare quello che la natura le ha dato. Eppure ogni giorno guardo la folla che parte, solitudini che in un treno trovano temporaneo sollievo, pendolari senza bussola alla ricerca di un tram, partenze, arrivi, arrivi, partenze. Io sto. Stavo. Ascolto commossa la melodica cantilena che dirige i vostri movimenti e riempie di meravigliosa stabilità la mia vita. Ho provato solo una volta,

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negli ultimi vent’anni – un treno per una città lontana – seguendo il filo di qualcosa che non conoscevo, ad abbandonare la voce del mio amore. “Il treno Citynotte per… è in partenza dal binario 7”. Le ascoltai piangendo le tue parole, quella mattina. E ti abbandonai. Un fischio sordo, lungo uno sbadiglio, mi avvisò dell’imminente fermata del treno. La città, rossiccia e decadente, appoggiata su violenti dirupi, pareva chiedere ospitalità a una natura poco benevola. Scesi, vomitata in una folla di viandanti, mercanti d’ogni risma, inebetita da una luce tutta diversa cercai quel portone, un indirizzo segnato a matita. Avevo già perso troppo tempo. Il cuore batteva come un martello, non ero più abituata. Un’ora era abbastanza per respirare un po’ di aria da regalargli. Era successo la mattina del treno. Un uomo dall’accento familiare e uno spento sguardo sudamericano si era seduto accanto a me. Un caffè e i soliti dolori della notte: per una sigaretta si accetta questo e altro. Dopo un paio di invezioni di cortesia trascorremmo un buon quarto d’ora a raccapricciare qualche vecchietto in piedi di buon’ora. Un trans e un alcolizzato sbattuti a terra alle sei del mattino a conversare del più e del meno. Poi quel nome. In un lucido biascichio di parole: un nome, poi una città e un indirizzo. “Chi sei? Come lo conosci?”. Una risata rossa soffiata nei vapori dell’alcol, il trans urla, si alza e corre al binario, scalzo, sporca, corre nello stupore assonnato dei pendolari, finché l’eco di quella visione prende forma nella tua voce: “Il treno ….”. Prendo posto tra i respiri schifati della vostra ipocrisia, sprezzante. Il

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treno parte. A me sembrava impossibile che tu fossi finito a vivere là, non ti ci vedevo a barattare il tuo sorriso a tre denti gialli con un po’ di monotona sopravvivenza in una città a forma di gabbia- uno scambio che conviene quasi a tutti, non a te. Ogni angolo una vetrina scintillante, signori calvi in abbigliamento elegante invitano a entrare negli hotel, qualche straniero, malsopportato, offre scarti di città sotto forma di statue, ombrelli e birre scadenti. Io cammino veloce, penso che era tanto, tantissimo tempo che non camminavo così, e mi vedo scorrere sugli specchi di quelle teche colme di mercanzia. Ho un aspetto decisamente ridicolo. Ti ho conosciuto una sera di ottobre. Eri sceso da un treno, uno di quei treni per ricchi – tu non ne avevi affatto l’aspetto. Camminavi piano. Investito da uomini d’affari affannosamente in cerca di un appuntamento, scartato da donne troppo distratte, ondeggiavi lento verso ciò che – lo avrei imparato – definivi destino. Quando sei rimasto l’ultimo sulla banchina, hai posato lo sguardo su di me. Io vivevo alla stazione da pochi mesi, ero ancora convinta che ne sarebbero passati un’altra manciata. Ti sei avvicinato, ti sei seduto, io non ti ho mai guardato in faccia, mi sembrava impossibile. Mi lasciasti un grosso zaino e qualche ora di attesa. Tornasti nel pieno della notte, un volto differente, le cicatrici di una scelta. Ti addormentasti al mio fianco, senza dire una parola, e così trascorse un inverno.

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Una mattina mi tagliasti la lingua. Te ne sei andato come sei arrivato. Sono rimasta sola, con la tua valigia, sola ad ascoltare l’altoparlante, ad aspettare che la vita scorresse del tutto, a borbottare località, orari, avvertenze, scanditi ritmicamente dai passi di centinaia di persone. Ogni tanto una pettorina, hanno provato a portarmi in un manicomio, in un ospedale, in una casa di cura. Mi hanno raccontato che eri morto, che una locomotiva ruggente ti aveva spezzato, che eri salito su un vagone e non eri più sceso, che non avrei più saputo niente di te. Ho passato mesi a cercare quell’odore desiderato nei vagabondaggi di un’anima infelice, ad ascoltare quei passi, a sfiorarmi i capelli come facevi tu. Non sapevo cosa ti avrei detto, non sapevo neanche se ti avrei trovato. Chissà quanto eri cambiato. Quel tempo infinito, quando è il dolore l’unità di misura si fa fatica a calcolare. Arrivai di fronte a un’inferriata bassa, l’ingresso di uno stretto cortile dove due bambini erano impegnati a costruire un mondo di avventure. Uno dei piccoli, il tuo sorriso in un taglio di occhi orientale, si accorse di me, a giudicare dal balzo terrorizzato con cui guadagnò l’uscio di casa – il mio cuore batte all’impazzata, devo scappare – troppo tardi, in un attimo un uomo elegante si affacciò alla porta – quegli anni ti avevano appena accarezzato il volto. “Buongiorno, posso aiutarla in qualche modo?” Il trans esita, una lacrima le solca una guancia. Balbettai qualcosa, mi hai dato qualche spicciolo e sono scappata via.

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Quando il primo legno mi ha fracassato una mano ho visto solo degli stivali neri. Non li ho guardati i vostri volti. Se l’avessi fatto non vi avrei riconosciuto. Un colletto bianco, quello di un prete, una testa rasata, una fascia tricolore, mani da picchiatore, voci insicure, lo stesso flusso indistinto che mi scansa in vita, mi incensa da morta. Io sto. Mentre mi aprite il cranio la voce dell’altoparlante prende forma, ti sento scandire le danze di passanti che non mi vedono neanche oggi. “È severamente vietato oltrepassare la linea gialla…”

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